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venerdì 25 febbraio 2011

Radiohead minori? (Vogue21)



Per molte persone i Radiohead sono una malattia. Lo sono anche per me che ho impiegato anni ad organizzare faticosamente un libro di racconti e fumetti sulle canzoni dei geni di Oxford (http://shop.bcdeditore.it/product.php?productid=16300).
Perciò si capirà il mio tuffo al cuore nello scoprire all’improvviso (non sono un rockologo) che è appena uscito un nuovo disco, King of Limbs, come il precedente scaricabile online (http://www.thekingoflimbs.com/DIEUR.htm) in diverse forme, dal semplice mp3 al ricco album con libro di 625 “disegni artistici”.
Lasciamo da parte le discussioni sulle dichiarazioni di Yorke e soci sulla morte del disco a favore del download in Rete: si sa che quando qualcuno annuncia la fine di cose come l’arte, la religione o il rock, è spesso semplicemente il segno di una relativa impossibilità di pensare le forme future dell’arte della religione o del rock.
Cercherò invece di esprimere un giudizio su questo disco, cosa non semplice perché la musica dei Radiohead non è mai omogenea alla media della musica pop, rock ed elettronica odierne: ha invece un buon impianto composizionale dovuto all’incontro tra la diversa genialità di Thom Yorke, ispirato cantante e sperimentatore di sonorità elettroniche, ma analfabeta musicale (non sa leggere le note e per comporre usa software sofisticati) e Johnny Greenwod, chitarrista e tastierista colto e raffinato, con una predilezione per la musica contemporanea, in particolare Olivier Messiaen e Witoslaw Penderecki. Un incontro musicale, questo tra Yorke e Greenwood, che rendeva finora la musica dei Radiohead capace di elevarsi subito al rango di “classico”. Nelle atmosfere elettro-soft di King of Limbs mi sembra però di sentire una scarsa fusione delle due cifre stilistiche, Yorke & Greenwood, la prima rintracciabile in un certo tipo di contrappunto elettronico alla famosa voce falsettistica, la seconda in una ripetitività ritmica disgregata e ossessiva.
La premessa di quanto dirò dovrebbe essere che quella di King of Limbs è forse una musica cangiante: man mano che la sua complessità viene percepita e memorizzata in maniera infinitesimale, ascolto dopo ascolto, cambia anche il suo significato complessivo.
Tuttavia, stando ai primi ascolti e confrontando le reazioni degli ascoltatori, King of Limbs non sembrerebbe all’altezza del precedente capolavoro (In Rainbows), ma in modo talmente esplicito che bisognerebbe forse cogliere l’intenzione di offrire una sorta di B-side del precedente, un album minore che potrebbe quasi segnare il passaggio da una poetica centrata sull’Opera (ogni disco dei Radiohead sembrava ambire a quello statuto, e forse a quello di Capolavoro) a una estetica - forse più adeguata ai tempi - della “musica da tappezzeria”, come la chiamava Erik Satie.
Se ogni sei mesi uscisse un album simile dei Radiohead non potremmo lamentarci, ma sarebbe inevitabile un po’ di rimpianto per i precedenti dischi con i quali i cinque di Oxford parevano ogni volta voler sintetizzare e superare il proprio passato.
È vero che già con l’album precedente (In Rainbows), atteso dai fan per diversi anni, molti pensavano che la band fosse giunta al suo canto del cigno: perciò un nuovo disco non può che rallegrare chi ha individuato nei Radiohead il proprio paradigma di arte rock. Ma è anche vero che Thom Yorke e anche Phil Selway (il batterista) avevano recentemente fatto dischi solisti con non pochi brani superiori (almeno per intenzione autoriale) a questo nuovo disco collettivo.
C’è però un grosso ma. Si dice in Rete che potrebbe esserci in serbo un secondo CD a complemento di King of Limbs, e che il disco segreto dovrebbe essere “quello vero”.
Leggenda metropolitana o ipotesi complottista che sia, io spero come molti che sia vero.
In caso contrario, se d’ora in poi la musica degli oxoniensi fosse in tono minore come quella di King of Limbs, ammetto che inizierei a temere con dispiacere e anche un soffio d’angoscia che al declino non possa sfuggire davvero nessuno.
Nemmeno i Radiohead, maledizione.

Noam

I miei amici musicisti rock, Enrico Manera, Luca Morena e Tommaso Cerasuolo, alias i Noam, hanno pubblicato un nuovo disco molto bello.
Si può ascoltare e scaricare qui

Susanna Schimperna: ANARCHICI E DISOBBEDIENTI. NOSTRA LEGGE E’ LA LIBERTA’

ANARCHICI E DISOBBEDIENTI

NOSTRA LEGGE E’ LA LIBERTA’

Da Pietro Gori a Michael Bakunin, fino a don Milani: una cultura che guarda al mondo e alla pace

Finché a parlare criticamente del concetto di patria erano gli artisti o i filosofi, nessuno scandalo e nessun veto. Per Voltaire la patria è dove si vive felici (la patria è dov’è il bene, avevano già detto Pacuvio e Cicerone prima di lui), per Flaubert l’idea di patria è «quasi morta, grazie a Dio», e per Samuel Johnson il patriottismo è nient’altro che l’ultimo rifugio di un briccone. Rousseau, tipo spiccio, propose addirittura di cancellare le parole “patria” e “cittadino” dal vocabolario, ritenendoli vocaboli indegni delle lingue moderne. Oggi non avrebbero vita facile, con questo vento di orgoglio nazional-patriottico che spira sempre più gagliardo, proprio come gagliardi sono i fiati degli sportivi che cantano a pieni polmoni l’inno di Mameli nelle gare internazionali, chissà se per convinzione, divertimento o prudenza: qualche anno fa qualcuno si provò a stare più zitto che urlante, e fu letteralmente processato dai media e dai politici.
C’è però qualcuno cui non è mai stato consentito giudicare l’idea di patria. Né ieri né oggi. Gli anarchici, ovviamente. Chi altri? Spietati sbeffeggiatori degli onori tributati alla triade Dio, Patria, Famiglia, considerata fondamento di un pensiero e di un sistema sociale edificati sull’autoritarismo e la paura. Convinti assertori dell’universalismo, dell’umanità che nell’altro non vede l’alieno o il nemico ma più opportunamente cerca i motivi di unione anziché di separazione. Avversari dei confini, degli steccati, delle divise, delle guerre, dell’esaltazione, della retorica del sacrificio. Censori dell’utilizzo perverso del concetto di “onore” che nei secoli è stato adoperato per rendere possibile, addirittura desiderabile, la difesa cieca di un intero ordine costituito, non importa quanto ingiusto, esecrabile, violento: quando torna comodo, il sistema di prevaricazione si trasforma in patria, e oplà, troverà in ogni bravo cittadino un leale difensore, disposto a combattere, uccidere, essere ucciso.
Gli oppressi non hanno razze che li dividano, perché tutti appartengono all’unica razza esistente, quella umana. La loro patria è il mondo intero. Questo il significato vero del più famoso tra gli Stornelli d’esilio, scritto da Pietro Gori sulle note di un motivo popolare toscano: «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta… dovunque uno sfruttato si ribelli, noi troveremo schiere di fratelli… passiam di plebi varie tra i dolori, de la nazione umana precursori».
Le canzone, composta nel 1895, è autobiografica. Gori, insieme ad altri compagni, era stato espulso dalla Svizzera, dove si era rifugiato. In attesa del treno che li avrebbe portati verso la nuova destinazione, gli esuli la cantarono per la prima volta sotto le pensiline della stazione di Lugano. Il ritornello «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà» figurerà più tardi nelle bandiere degli anarchici italiani combattenti nella guerra di Spagna.
Aveva già scritto Mazzini: «Finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete aver patria? La patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo». I libri di storia sembrano ricordarsi soltanto della lotta di Mazzini contro il dominio straniero. Il suo pensiero implica molto di più, perché se non c’è patria per chi deve chinare la testa, allora la Patria con la maiuscola, quella per cui viene chiesto persino di sacrificare la propria o l’altrui vita, è in realtà un imbroglio, è la casa dei potenti che si maschera da casa di tutti soltanto quando i tiranni corrono il pericolo dell’esproprio.
“Finzione”, scrive a chiare lettere Michail Bakunin in una lettera indirizzata agli anarchici italiani, dove è netta la distinzione tra stato e patria. «Lo stato non è la patria: è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della patria… Il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo di una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La patria, la nazionalità, come l’individualità sono un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso… Io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse. La patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo, e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico».
Secondo Bakunin, ogni popolo, fino alla più piccola unità etnica o tradizionale, possiede le proprie caratteristiche. Esattamente come ogni singolo individuo. Ma questo non vuol dire armarsi contro gli altri in difesa non si capisce di che. Al contrario. La specificità può e deve aiutare ad acquisire valori universali, elevandosi al di sopra degli egoismi, smettendo di considerare sia sé stessi che la propria nazione (o meglio, comunità) al centro del mondo. Gloria, grandezza, interessi meschini: tutte istanze che Bakunin definisce “vane” e che si esprimono nel patriottismo politico anziché in quello “naturale”.
Ci vuole molta malafede oppure una grande rigidità mentale per non capire la differenza tra la patria del cuore, dei luoghi, delle tradizioni, e quella delle uniformi, del trionfalismo vuoto, degli inni che preparano alla riscossa (non sarebbe meglio essere sempre svegli invece che aver bisogno di riscuoterci?). Oggi siamo alla sottolineatura continua e mai contestata di concetti nazionalistici quali appartenenza e identità culturale. Esiste, e non è affatto un male che esista, un sentimento di appartenenza al proprio popolo o gens, che nasce, come diceva Bakunin, da un lungo processo storico, e più o meno si caratterizza per la condivisione di una lingua, di elementi culturali, di una terra. C’è poi la corruzione di questo sentimento, ed è questa corruzione che viene strumentalizzata. Patria e nazione, patriottismo e nazionalismo sono idee fasulle, in nome delle quali si muore, si uccide, si vive male coltivando l’irrazionalismo e la chiusura mentale, invece che aprendosi agli altri. Le linee di demarcazione vere, infatti, non sono i confini di una nazione, ma quelle che dividono vittime e carnefici, oppressi e oppressori. Tirare fuori l’appartenenza è come parlare di radici e valori: per quello che significano oggi, sono una pregiudiziale illibertaria e fortemente disturbante per la psiche. Il proposito, dichiarato, è di farci credere che senza queste tre cose rischiamo di perdere la nostra identità, quando cercare la propria identità – intesa come conoscenza e senso di sé – dovrebbe essere un processo integrato: teoria e pratica, interrogarsi e muoversi, scavare dentro sé stessi e ingegnarsi a incidere sulla realtà circostante (“plasmare la realtà”, che non è esattamente uguale a plasmare il mondo, idea che ha portato agli sfracelli che vediamo dell’utilitarismo più bieco, arrogante e incosciente). Troppo facile e allo stesso tempo superficiale agganciare il “chi siamo” al senso di appartenenza a uno stato, a una razza, a un’ideologia, a una religione, a qualunque cosa ci dia l’illusione di non essere soli, di essere in qualche modo protetti e per molti versi superiori degli altri. Naturalmente possiamo immaginare un aldilà, innamorarci di un’idea politica, pensare che la nostra lingua e il nostro paese siano i più belli del mondo. Ma un conto è farlo da persone libere, un altro è farlo nell’illusione di costruirci così un’identità.
«Non discuterò qui l’idea di patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’atro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri».
Non è il proclama di un anarchico insurrezionalista, ma la lettera (1965) di un sacerdote ai cappellani militari toscani. Si chiamava Lorenzo, è ricordato come don Milani.

(articolo di Susanna Schimperna pubblicato su Gli Altri, 25 febbraio)