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mercoledì 29 agosto 2012

La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques (un pezzo di mémoire de DEA?)


La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques a été exposée de façon complète en Deleuze & Guattari 1995: il s’agit d’une théorie ouvertement métaphysique, d’une métaphysique préscriptive qui a été assez critiquée semblant ne pas se confronter avec la science et la logique contemporaine1. Cette théorie des concepts oppose nettement les concepts philosophiques aux pseudo-concepts de la science (les fonctifs) de la logique (prospects) et de l’art (percepts et affects), au point qu’elle doit bien apparaître comme

"un exemple particulièrement caractéristique et en même temps extrème de ce type de croyance “philosophante” (...) qui nous dit que les philosophes créent des concepts qui sont de leurs exclusive propriété.
Deleuze et Guattari appartiennent en effet à ces philosophes qui] diront que ce que les psychologues peuvent dire à propos des concepts ne les intèresse pas (ils ont même la tendence à penser que les concepts sont des créatures purement philosophiques)"2.

Le style philosophique est le dynamisme métaphorique propre aux concepts (philosophiques). Qu’il s’agisse de métaphore est certain, même si Deleuze, pour seconder les exigence du matérialisme spiritualiste3 qui informe sa pensée, tend à nier l’existence de la dimension métaphorique, atteignant sans doute les jugements de Wittgenstein et Lacan sur l’inexistence réelle du métalangage. Les concepts sont des entités immatérielles, donc ils ne peuvent subir un mouvement que métaphorique : il faudrait alors expliquer en quoi cela consiste. En bergsonien Deleuze amplifie l’ontologie du mouvement jusqu’à y comprendre «la perception, l’affection, e l’action comme trois espèces du mouvement»4. Sur le plan métaphysique tout est mouvement, devenir, et la stase n’est qu’une illusion (transcendentale)5. Aussi il résulte cohérent penser que les concepts vivent une forme de mouvement. Mais il est pour nous difficile comprendre qu’il s’agisse d’un mouvement métaphysique et non d’un mouvement historico-culturel, mouvement d’idées qui serait accettable à l’intérieur d’un modèle “épidémiologique” de la transmission culturelle, tel celui de Sperber 1996. Deleuze parle d’un mouvement qui doit forcément être conçu comme mental: est-ce qu’il nous faudrait une sorte d’intuition (un quale) du mouvement conceptuel?


1 Soulez 19???
2 Engel 1996, p. 204 et n.1 it
3 Acotto [1998], p.19: nous y qualifions la métaphysique deleuzienne comme un «matérialisme idéaliste»..
4 Deleuze [1990], p.166
5 Pour naïve qu’elle puisse paraître, cette métaphysique est peut-être plus proche de la Théorie de la Rélativité que d’autres métaphysiques plus scientifiques qui hypostatisent les formes e les objets. Sur la Rélativité et la Méchanique Quantique, cfr. Nozick [2001].

Jacques Derrida da me medesimo manualizzando


Presentazione.
La genealogia filosofica di Derrida è del tutto tipica della cultura francese degli anni ’40-‘50, e in particolare della formazione degli allievi dell’Ecole Normale Supérieure [vedi GEOGRAFIA DEL POST-STRUTTURALISMO]: si tratta delle canoniche “tre H” (Hegel, Husserl e Heidegger) e degli autori della cosiddetta (da Paul Ricoeur) scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud). Rispetto a Foucault e Deleuze, Derrida è un pensatore ancor più emblematico del postmodernismo, e come tale ha sempre ricevuto le più accese critiche da parte dei filosofi avversi al postmodernismo: significativa a questo proposito fu la contestazione dell’assegnazione della laurea honoris causa a Cambridge, nel 1992, con il pretesto che nella filosofia derridiana non fosse possibile reperire una teoria della verità (in un senso accettabile dagli analitici). Più di altri filosofi postmoderni (o ascritti a tale “corrente”) Derrida è stato ripetutamente accusato di non essere un vero filosofo ma piuttosto uno scrittore (un’accusa, questa, spesso mossa anche a Nietzsche): i suoi testi sarebbero infatti sprovvisti delle caratteristiche minime richieste al genere filosofico (argomentazione chiara, tematizzazione adeguata dei problemi e dei concetti, indicazione di soluzioni ai problemi proposti, ricerca di una teoria soddisfacente). Ma proprio l’originalità del trattamento sperimentale che Derrida riserva alla filosofia, da una parte sottoponendola a qualcosa di simile a una psicoanalisi freudiana, dall’altra sollecitandola fino ai suoi confini con la letteratura e l’arte, costituisce buona parte dell’importanza e dell’influenza che questo grande filosofo ha esercitato ed esercita tuttora.


Decostruzione e differenza
I due concetti cui il nome di Derrida è inscindibilmente legato sono la Decostruzione e la differenza. Di Decostruzione aveva già parlato Heidegger (in tedesco Dekonstruktion o Abbau): è un’operazione metafisica che ha luogo nell’ambito della storia dell’essere; è il venire meno, il destrutturarsi, o decostruirsi appunto, delle tradizionali istanze concettuali del pensiero metafisico, ossia – nella lettura nietzscheana e poi heideggeriana – del pensiero tout court, almeno di quello occidentale, e per un portato idealista sotteso a tutta l’ermeneutica (“l’essere che possiamo comprendere è linguaggio”, Gadamer) della realtà che non è pensabile al di fuori del pensiero/linguaggio.
La metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, consterebbe di una serie di opposizioni concettuali, quali: sensibile/soprasensibile, uomo/animale, uomo/donna, mito/logos, razionale/irrazionale, voce/scrittura, bene/male, ecc. Il “metodo” decostruttivo (ma in realtà si tratta di un procedimento così erratico e per certi versi poeticamente creativo da rendere impossibile parlare di metodo) mostra che all’interno di ogni testo filosofico della tradizione il discorso si struttura necessariamente sulla base di qualche opposizione del genere, mirando a mettere in luce che gli opposti stanno tra loro in una tensione dialettica sempre aperta su un terzo termine, che per Hegel era la Sintesi.
Nella conferenza omonima Derrida pensa il concetto di Differenza - o differanza come scrivono alcuni traduttori (in francese différance, con la a anziché con la e) - come alla differenza metafisica che è l’origine di tutte le differenze, ossia di tutti i segni e di tutte le cose: l’arci-differenza. La Differenza non è questa o quella differenza empirica o trascendentale perché la stessa opposizione empirico/trascendentale è possibile grazie al differire della Differenza: è la Differenza in sé, ciò che Plotino chiamava, con un’espressione spesso citata da Derrida, l’informe traccia della forma. Il nome stesso, différance, non è comprensibile se non leggendolo, il che è un buon esempio dell’idea centrale di Derrida riguardo alla scrittura, dalla metafisica tradizionalmente rimossa rispetto alla voce.


Metafisica della scrittura. La tematica della Differenza trova nella scrittura un suo banco di prova privilegiato. In una serie di opere infatti (La voce e il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza) Derrida ha facile gioco nel mostrare come la filosofia abbia tradizionalmente subordinato la scrittura alla voce, ipostatizzando lo spirito vivente (si pensi alla coscienza della fenomenologia husserliana) e considerando la scrittura come un supplemento privo di vita e al limite perverso e nocivo (il Fedro platonico è all’inizio di questa storia di rimozione della scrittura). Derrida pensa invece che la scrittura, intesa come iscrizione, preservazione del presente attraverso tracce che testimoniano il passato e permettono l’interpretazione futura, sia originaria rispetto al pensiero e alle sue manifestazioni viventi, come la voce in tutte le sue declinazioni: voce della coscienza, soliloquio interiore, dialogo, ecc. Derrida ha chiamato “logocentrismo” questa rimozione strutturale della scrittura: la metafisica pospone e subordina la materialità del significante (la traccia in tutti i suoi aspetti non significativi) all’idealità del significato, il logos.
Di tutte le coppie concettuali decostruite da Derrida quella di scrittura e voce è senz’altro la più significativa: da essa deriva la corrente “testualista”, teorizzata da Richard Rorty e di cui Derrida sarebbe il massimo esponente. La famosa affermazione derridiana secondo cui “non esiste fuori-testo” è stata infatti interpretata nel senso che non esisterebbe nulla al di fuori di un discorso teorico, di un mondo testuale costruito da questa o quella tradizione filosofica, venendo a sostenere qualcosa di simile al filosofo della scienza Willard Van Orman Quine, secondo cui nulla esiste al di fuori di una teoria. Derrida ha successivamente attenuato il senso di questa affermazione, intendendo che nulla avrebbe senso al di fuori del suo contesto: se questa attenuazione rischia di risultare banalmente vera, si mostrano qui altre possibili analogie del pensiero filosofico derridiano, in particolare con la filosofia del secondo Wittgenstein e la sua tematizzazione delle forme di vita e dei giochi linguistici, che vanno osservati più che pensati.


Verità, metodo, teoria
In comune con il post-strutturalismo (e a differenza di alcuni suoi successori come Alain Badiou, cfr. cap. Pop-filosofia, maitres-à-penser e neurofilosofi) Derrida questiona il concetto stesso di verità, pur non approdando affatto a posizione relativistiche (questo sarà evidente nell’ultima fase della produzione derridiana, quella più spiccatamente etico-politica), ma piuttosto a un arcitrascendentalismo di stile non incompatibile con quello kantiano. Se ogni dato empirico ha un’origine trascendentale, il trascendentale è l’origine della verità; tuttavia il trascendentale non potrà essere ridotto all’elenco kantiano di forme pure dell’intuizione, categorie e schemi, ma si rivelerà di volta in volta come Differenza attraverso l’operazione di decostruzione dei testi e delle tracce di cui la storia della metafisica è la disseminazione.
Cade così da sé l’accusa di mancanza di metodo, spesso rivolta a Derrida e alla decostruzione, e che rappresenta una differenza forte rispetto all’ermeneutica gadameriana cui pure spesso Derrida viene avvicinato. La decostruzione non può avere un metodo semplicemente perché la decostruzione decostruisce ogni metodo, mostrando l’impalcatura logica e concettuale e la sua non-assolutezza, la sua relatività dialettica che fa sì che ogni concetto chiaro e distinto sia sempre dipendente e quindi intrinseco al proprio opposto: non per nulla si è parlato di un iper-hegelismo di Derrida.
In questo modo si indebolisce anche la possibilità di una teoria filosofica compiuta: la decostruzione si caratterizza come dissoluzione di tutte le teorie esistenti, non certo per spirito distruttivo ma perché queste si basano su presupposti che celano la struttura dialettica della realtà e del pensiero: portare alla luce il rimosso di ogni pensiero non può che essere un’operazione demistificatrice e salutare.


Messianismo e politiche spettrali. L’ultima fase della filosofia derridiana è caratterizzata da un forte interesse per l’etica e la politica, che in precedenza erano sempre stati sullo sfondo degli scritti derridiani, con prese di posizione anche molto forti (per esempio contro l’eurocentrismo dello Husserl della Crisi delle scienze occidentali). In una serie di opere in cui si decostruiscono come sempre i testi della tradizione letteraria, filosofica, etica e politica, Derrida sferra un potente attacco all’umanismo progressista e al relativismo postmodernista, a dispetto del fatto che la sua filosofia sia spesso stata criticata come una delle forme filosofiche del relativismo contemporaneo.
Parallelamente a un accresciuto interesse per la politica si accentua anche l’insistenza di Derrida sulla tematica del messianismo ebraico, che viene trasposto dal campo religioso a quello puramente metafisico. La struttura logica soggiacente a tutti gli atti di decostruzione mostrati nei testi derridiani è sempre quella per cui se è vero che, secondo la lezione di Heidegger, non si dà mai una pura presenza (il vero dono non è quello che si può donare, il vero perdono non è quello che si può concedere ecc.) è anche vero che gli esseri umani sono costantemente in cerca di una piena presenza. L’analogia con la filosofia di Kant è evidente, e infatti vi è un’istanza “illuministica” in quest’ultima fase del pensiero derridiano: ciò che non è coglibile dalla ragione come oggetto del pensiero acquista il suo senso in prospettiva tendenziale, come idea della ragione (o come orizzonte della decostruzione).
In Spettri di Marx (1993) Derrida esplicita definitivamente il suo interesse per la filosofia politica. Marx viene riletto in una chiave originale, quasi “letteraria”, e messo a confronto con Shakespeare: lo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa (Manifesto del partito comunista) viene paragonato al fantasma del padre di Amleto e analizzato nei termini freudiani del ritorno del rimosso, per cui il naufragio del comunismo – sovietico – non è un argomento decisivo contro la persistenza delle istanze rivoluzionarie e di emancipazione, di cui Marx nella lettura derridiana (che ne fa più un pensatore messianico dell’emancipazione e della giustizia che un filosofo della rivoluzione) appare un campione.
Gli ultimissimi testi di Derrida testimoniano di un impegno politico diretto e radicale in un modo insospettabile nelle prime fasi della sua opera: il filosofo francese mette infatti il suo armamentario decostruttivo a confronto con l’attualità mondiale, stigmatizzando per esempio la guerra americana in Afghanistan e Iraq e interpretando l’attentato dell’11 settembre alle due Torri Gemelle come una conseguenza della politica di terrore attuata dagli Stati Uniti nel corso del dopoguerra. Inoltre, molti tra gli ultimi testi di Derrida decostruiscono l’opposizione uomo/animale, inserendosi in modo peculiare nel recente dibattito filosofico animalista.

lunedì 27 agosto 2012

MANGIAR TANTO, MANGIAR POCO (Vecchi racconti, 1998))

Al collegio G. spesso accanto a me mangiava un ragazzo dalle strane abitudini alimentari. Fino alla fine del pasto, sei mele giacevano inesorabilmente davanti al suo piatto: alla fine due venivano mangiate e quattro le raccoglieva con le grosse mani femminee, per consumarle in stanza durante la serata di studio.
R. mangiava tanto ma un tempo era stato anoressico. A quell'epoca avevo scoperto da poco che cos'è l'anoressia, perché me l’aveva spiegato V., che era stata anoressica negli USA. All'età di diciotto anni V., di ritorno dall'Intercultura negli USA, era irriconoscibile, scheletrica, una persona diversa rispetto a prima. Anoressica. Gli ultimi tempi negli USA mangiava mezzo toast al giorno, adesso invece V. è in carne, è guarita perfettamente dall'anoressia, più di recente però ha avuto altri problemi psicologici di cui non mi sono interessato perché non eravamo più per niente amici.
Io peso 55 chilogrammi e sono alto un metro e settantasette, dovrei pesare minimo dieci chili in più. Mangio troppo poco. Al tempo del liceo, l'anno prima della maturità, avevo smesso di mangiare carboidrati per un certo tempo, perché credevo di avere la pancia. Per un altro periodo mangiavo pasta scondita al posto del pane anche a colazione, perché avevo letto su un libro di macrobiotica che il pane occidentale diluisce il sangue. Non volendo indebolirmi a causa del sangue diluito preparavo tanta pasta e la lasciavo nel colapasta in forno (il colapasta era di plastica), cosi al mattino benché non fosse per niente buona me la trovavo in forno, fredda da accompagnarsi con la soia prima di andare a scuola. L'avrò fatto per poco tempo ma nel mio ricordo è un'intera epoca.
Adesso invece ho deciso di mangiare tanto. Per la verità l'avevo già deciso l'anno scorso, mi ero detto che è importante avere un corpo forte se non ci si vuole ammalare facilmente e morire come mio padre, e mi ripromettevo di prendere cinque chili entro Natale. Ma non c’è stato niente da fare, non ci sono riuscito.
Ora da qualche giorno cerco di mangiare a ogni pasto sia proteine che carboidrati, e questo dovrebbe farmi ingrassare.
Sabato sera abbiamo cenato in un ristorante giapponese di Place Saint Opportune, e mentre parlava di quanto piaccia il sushi a Franco Quadri A. ha preso il tempura dopo il sushi, cioè ha mangiato due volte. Mi ha fatto piacere vedere uno che mangiava tanto. Suppongo che lo facesse per un motivo preciso, però non mi era chiaro quale fosse questo motivo che lo spingeva a mangiar tanto.

domenica 26 agosto 2012

L'educazione esistenziale dell'intellettuale squattrinato (intervista inedita e troppo personale a Gianluigi Ricuperati )

Lo scrittore e giornalista Gianluigi Ricuperati esordisce con un romanzo molto bello e toccante (Il mio impero è nell'aria, Minimum Fax), nel quale visita alcune possibilità contemporanee di inautenticità esistenziale e dolorosa. Il denaro, e l'ansia di disporne prendendolo a prestito, è uno dei motori narrativi delle vicende di Vic Gamalero (alter-ego virtuale dello scrittore?). Ma il rapporto con i genitori e l'amore ricevuto e dato, con una faticosa presa di coscienza, sono la vera chiave per comprendere questo libro, che merita letteralmente la definizione che il filosofo Gilles Deleuze dava di un'opera d'arte: blocco di sensazioni.

Vic Gamalero è un intellettuale - anche se tu non lo presenti come tale (diciamo che camuffi un po' il suo status sociale). Mi domando se la sua formazione incompleta e fluttuante, che lo porta a occuparsi di cose di cui non sa nulla pur essendone attratto, come l’architettura, sia un’implicita critica a un tipo di intellettuale odierno (quello postmoderno) oppure se tu abbia piuttosto voluto fotografare un tipo umano particolare, affetto da una debolezza di volontà slegata dal contesto storico.
La tua impressione è corretta. Vic Gamalero è un intellettuale, ma un intellettuale marginale dell'era hyper-finanziaria, con un cumulo di conoscenze e strumenti assai superiore a quelli richiestigli. È un intellettuale sottoutilizzato, come molti altri - in questo è una rappresentazione realistica, il romanzo, per nulla metaforica, a mio parere. Non sono d'accordo invece con la tua definizione di 'debolezza di volontà' riguardo alle azioni e ai pensieri di Vic. Mi pare invece l'esatto opposto: a intrappolarlo è un eccesso di volontà, con una totale assenza di strategia. Cos'è un intellettuale, se non un agente deputato alla produzione di conoscenza? Ecco, in questo senso Vic è capace di produrre conoscenza, pur nella sua volatilità e superficialità, tocca forse delle corde nascoste e abbastanza profonde all'interno dei 'sistemi' in cui s'infila più o meno lecitamente: l'architettura, la pubblicità, il recupero crediti, l'élite economica. Dice cose ‘vere’ - come direbbe Franca D'Agostini - rispetto al suo sfregamento con questi 'mondi', e anche rispetto a questi mondi in se stessi. Il punto è un altro. È che Vic, pur essendo a tutti gli effetti un agente della produzione di conoscenza, non si accontenta della conoscenza: vuole produrre realtà. Vuole influenzare i processi che accadono nella cosiddetta realtà: vuole influenzare gli altri, che sono parte consistente della 'realtà'. Per rovesciare il famoso motto coniato a mo' di titolo dal grande Tommaso Landolfi - uno degli eroi citati e nascosti di questo personaggio, con la sua languida attrazione per il nulla e per la creazione e la distruzione di valori, economici e sentimentali - 'cosa importa / se non la realtà'?

Nonostante si muova in un ambiente normalmente politico (c’è il cattolicesimo borghese dei genitori; viene anche evocatala figura di un giudice che combatte la mafia), Vic è un personaggio impolitico. Per esempio, abbandona l’Opus Dei nel giorno stesso della beatificazione di Escrivà de Balaguer; ci si potrebbe attendere un giudizio sul personaggio beatificato (notoriamente simpatizzante per il nazionalsocialismo), invece sembra quasi che Vic prenda le distanze dall'Opus Dei in virtù dell'ascolto del mitico disco dei Velvet Underground. Il tuo è cinismo verso la politica?
Impolitico è una definizione interessante. Considerazioni di un impolitico di Mann è uno dei miei libri prediletti e la sua posizione rispetto alle turbolenze ideologiche del 900 è per me un modello di relazione corretta (e impermeabile alle mode) di relazione fra un letterato e la politica. Come cittadino ho opinioni contraddittorie e screziate, pur all'interno di una generale adesione a ciò che potremmo chiamare liberalismo di sinistra: provo simpatia per Vendola, che ho conosciuto recentemente, ma ritengo che l'Italia abbia bisogno disperato di un nuovo Prodi. Generalmente giudico un politico verificando la sua attitudine verso la letteratura, perché in un mondo che emargina sempre di più il sapere letterario, sostenerlo e amarlo è per me prova di coriacea appartenenza al meglio del passato e coraggiosa diffidenza nei confronti di un futuro che sembrerebbe poco incline ai polverosi abissi gratuiti che allignano al fondo di ogni educazione letteraria. Io detesto gli scrittori che emettono giudizi semplicistici per bocca dei loro personaggi. Vic è indifferente alla beatificazione di Jose Maria Escrivà perché è rapito dalla testa ai piedi: completamente avvinto dalla scoperta di un meraviglioso disco che fa parte per me della storia della letteratura e dell'arte contemporanea non meno che della musica rock. La beatificazione è per lui un rito fatto da adulti morti. I Velvet e il loro mondo sono un rito fatto da giovani immortali.

Il bisogno di denaro di una persona “irregolare” ma di estrazione benestante è uno dei motori narrativi del tuo romanzo e ha una fortissima valenza emotiva e affettiva. A un certo punto però raffiguri in maniera grottesca un ricco miliardario che si priva di tutti i suoi soldi per motivi etici (un po’ come fece il filosofo Ludwig Wittgenstein). Non hai dato un’immagine troppo sbrigativa e ingenerosa di chi col denaro ha (o cerca di avere) un rapporto non egoistico?
Non credo. Anzi. È una storia vera, quella del miliardario, che ho di peso trasferito nella realtà romanzesca; occupa un momento importante del libro, e non contiene commenti del narratore, che in un romanzo trainato dal continuo commentare del narratore è un segno di appartenenza a uno status speciale: è un'isola di fuga da alcune dinamiche psicotiche dominanti nella narrazione, ma lasciata così, come una porta che si potrebbe aprire, o forse l'incipit di un romanzo futuro. Il fatto che il miliardario, privandosi del proprio capitale progressivamente e radicalmente, finisca col compiere alcune gesta obbiettivamente grottesche (come cercare di farsi espiantare il fegato in un disperato bisogno di ‘donare’ anche parti del corpo) certamente fa acquisire un punto alla squadra di coloro che ritengono l'istinto alla proprietà e al difenderla un tratto 'naturale’ e non troppo modificabile culturalmente (cioè eticamente). Non ti dirò come la penso, anche se è facile intuirlo. Però ti dirò questo: nella mia vita, personale intendo, ho sperimentato e sperimento delle pulsioni verso la generosità che trovo talvolta inquietanti: cioè mi appaiono come inversioni della natura, sebbene possiedano l'indubbia qualità di farmi stare molto bene. È come dire: non essere egoisti con la proprietà e con le proprie cose (materiali e immateriali) rende un po' più felici e un po' più strani, irregolari rispetto al decorso umano.

Ti ho sentito dichiarare che il tuo potrebbe essere il primo “personaggio post-berlusconiano” della letteratura italiana contemporanea. Ma per configurare alternative antropologiche al berlusconismo imperante non ci vorrebbe un personaggio un po’ più engagé di Vic, che rispetto all'Italia contemporanea appare comunque come un outsider (e anche piuttosto simpatico)?
I personaggi engagé producono talvolta letteratura che non suscita interesse, almeno in me. Io credo che la svolta antropologica non dipenderà dalla letteratura o dal cinema, ma da un complesso, troppo complesso coincidere di effetti e conseguenze – un incrocio fra un crollo e una prova d'orchestra. I personaggi che m'interessano di più sono i faccendieri, figuriamoci se può funzionare l'engagement di un faccendiere...

A differenza di Vic tu non sei certo un intellettuale disorientato e in crisi con la realtà: Vic rappresenta un destino che hai pensato possibile per te?
Sono disorientato, ma non in crisi con la realtà. Mi piace maneggiarla, affrontarla, influenzarla per come posso. Il destino di Vic è esattamente l'opposto, e spero con ogni vivacità d'animo che non sia il mio.

Mi pare che il tuo romanzo si presterebbe molto bene a una versione cinematografica: ci sono progetti in questo senso?

Sarebbe cosa buona e giusta. Ci sono contatti ma per ora non posso dire nulla.

venerdì 17 agosto 2012

Sceneggiatura film Heidegger, 1


Scena Arendt.

Mdp nell’angolo in basso a destra dell’aula, orientata dal basso in alto in modo da riprendere gli scranni degli studenti.

Arendt siede in mezzo a un gruppo di allievi, al centro degli scranni; due ragazze sedute in prima fila al centro, altre due in fondo a destra (rispetto mdp). Arendt è vestita di un sobrio abito verde, le braccia stese dritte sul banco; il suo sguardo è inespressivo, immobile, ma dolce, e punta verso Heidegger che tiene lezione.

Heidegger:

... [un brano di Ontologia sul senso dell’esistenza]

Alla fine della lezione uno studente va da H e gli porge la mano con gravità; mentre ancora gliela serra gli dice:

Studente: «Lei ha saputo elevare lo spazio accademico alla tensione dialettica di un autentico spazio sacro. Le rispondenze essenziali del Suo pensiero con lo spirito del tempo ne mutano autenticamente la struttura epocale. Ma la Germania ha bisogno di un Führer, acciocché la decisione esistenziale del popolo tedesco trovi modo di formularsi nella sua originarietà.»

Heidegger non dice nulla e resta dietro la cattedra; lo studente abbassa lo sguardo ed esce dall’aula. Hannah resta seduta nel banco. Lei e Heidegger si fissano l’un l’altro in silenzio per diversi secondi (mezzo minuto).

Arendt (guardando Heidegger, con tono inespressivo): «Nella passione, con la quale, soltanto, l’amore coglie il chi dell’altro, va per così dire in fiamme l’interstizio mondano che ci collega agli altri e al tempo stesso ce ne separa. Ciò che separa gli amanti dal resto del mondo è che essi sono privi di mondo, che il mondo che si pone fra gli amanti è bruciato».

I due continuano a fissarsi immobili, mentre lo spazio fra di loro si consuma in dissolvenza bianca (cfr. Querelle de Brest) fino a lasciare le due figure avvolte su uno sfondo abbagliante che infine le avvolge.

[Sonoro: Un suono insistente, ossessivo, simile a un brano di Ligeti, accompagna la dissolvenza dello sfondo.]

Stupidario heideggeriano

A Heidegger devo molto, incluso il fatto di aver *deciso [noterò con un * tutti i concetti che si possono ricondurre alla mia *comprensione della filosofia heideggeriana] di studiare filosofia. All'ultimo anno di liceo mi pareva che il suo *essere-per-la-morte fosse la cosa più importante che si potesse studiare, che io potessi studiare. La *possibilità suprema, ossia la possibilità che tutte le possibilità diventino impossibili.
Se non avessi incontrato Heidegger al liceo, di sicuro mi sarei *salvato...

Di ritorno dal Giappone per un breve viaggio, mi è tornato in mente un libretto in mio possesso su "H e l'Oriente" e me lo sono portato appresso per la vacanza agostana. Non l'avessi mai fatto, e soprattutto non ne avessi mai scritto su Facebook, dove Jacopo Valli mi attendeva al varco col suo nondualismo antiscientista...
Risultato: ora devo leggermi diversi libri su H e i filosofi giapponesi della Scuola di Kyoto, a cominciare da "On Buddhism" di Keiji Nishitani, interlocutore di H, nonché tutto ciò che mi permetta di ricollegarmi ai miei antichi studi universitari heideggeriani (fu Deleuze a salvarmi da H e Derrida).

La mia attuale intuizione, è che HEIDEGGER FOSSE STUPIDO. Lo so che a molti questa affermazione sembrerà la definitiva dimostrazione della MIA stupidità, non importa: la *storia della filosofia è costellata di filosofi che detestano cordialmente qualche Grande del *pensiero.
(Nota: con questo non intendo che io sia parte della storia della filosofia. Non sono stupido).
D'ora in poi - e per il resto della mia vita! - cercherò di collezionare tutte le stupidaggini di Heidegger, impegnandomi naturalmente a dimostrare che si tratta effettivamente di stupidaggini.
Insigni ricercatori (Adorno, Bourdieu, Farias, Faye) hanno dedicato parte del loro tempo a dimostrare che H fosse intrinsecamente nazista, che il suo pensiero fosse nazista: questo, assieme a nonno Deleuze, io lo do per scontato.
Cercherò piuttosto di mettere in luce gli aspetti RIDICOLI del profeta di Todnauberg, così come essi appaiono ai miei (ridicolo) occhi.
Ritengo che tali aspetti costituiscano materia essenziale per un film su H (un film su H è un mio vecchio progetto, ma in passato mi sfuggiva la vena comica del poetastro baffuto).

PS: fu Edgard Reitz a rivelarmi, un mattino in cui lo accompagnai a colazione al collegio Ghislieri, che avrebbe voluto fare un film su Wittgenstein presentandolo come "comico". L'idea era buona, ma il filosofo giusto non era Wittgenstein: era Heidegger.

PSS (30/04/14): rettifico, non mi impegnerò affatto a dimostrare che le seguenti stupidaggini sono stupidaggini. Se non siete stupidi dovreste essere d'accordo con me.

STUPIDAGGINE 1, H e la tecnica secondo Franco Volpi: "Per Heidegger, in sostanza, non si va oltre la tecnica assumendo degli atteggiamenti di reazione rispetto ad essa. Nel vortice del nichilismo della tecnica l'uomo non deve assumere, come dire, degli atteggiamenti semplicemente di ritorno, di battaglia, di conservazione del pretecnico, perché la tecnica consumerebbe e roderebbe qualsiasi tentativo di reagire. Proprio perché per Heidegger essa è una potenza epocale non può essere riscattata attraverso degli atteggiamenti di semplice reazione o di conservazione. Per oltrepassare la tecnica è indispensabile lasciare che la tecnica si dispieghi in tutte le sue potenzialità. L'unico atteggiamento possibile che Heidegger vede in questo dispiegarsi della tecnica consiste nell'aiutare la tecnica a sviluppare tutte le sue possibilità fino all'estremo, e dunque un atteggiamento che, come dire, raccolga le risorse ancora integre, per poter mantenere l'equilibrio nel vortice che la mobilitazione totale della tecnica ha scatenato."

COMMENTO: eliminando le parole retoriche come "vortice" e "mobilitazione totale" (titolo di un libro di Junger) sembra quasi che (secondo Volpi) secondo Heidegger bisognerebbe costruire il maggior numero possibile di centrali nucleari, space shuttle e scudi stellari per affrettare la fine di un'epoca e l'inizio di una nuova epoca. Il tutto, inanellando raffinati testi filosofico-poetici in compagnia di professori universitari occidentali e orientali in visita alla propria semplice baita nel bosco...

STUPIDAGGINE 2: dalla biografia di H. W. Petzet, paragrafo sull'incontro con

Heidegger aveva parlato di ‘abbandono’, di ‘apertura al mistero’. Così, alla fine si parla dell’essenza della meditazione [Meditation]: cosa significa per l’uomo orientale? Il monaco risponde del tutto semplicemente: “Raccogliersi”. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L’‘io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e dice: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto.”
Ancora una volta il monaco ripete: “Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo”.
Heidegger è molto scosso. Chiude il colloquio con le parole (rivolte a me): “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione. Di questo non solo sono grato, ma in questo colloquio ne ho avuto una conferma, quale raramente mi è toccata.”
Entrambi si alzano e si guardano a lungo. Poi il monaco si inchina profondamente e va via. Il colloquio è durato più di due ore e si è fatto notte.
Solo lentamente si scioglie la tensione. Gli Heidegger mi pregano di restare a cena. Prima, devo mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico. Poi vengono in luce molte piccole osservazioni. Heidegger ed io conveniamo sul fatto che il volto del monaco ha una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata senza ‘infantilità’, poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che attraverso il viso diventa visibile la santità di tutta la persona. Meravigliosi i profondi occhi che, a differenza dei giapponesi, guardano dritto negli occhi. Nessun dualismo tra spirito e sensi. La serietà, ma anche la serena allegria: questo resta indimenticabile.
D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell].
Doveva aver ragione. Circa un anno dopo l’incontro con il monaco (o forse di più?), un giorno mi chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. “Il monaco col quale ebbi quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una società televisiva americana.”

COMMENTO: numerosi spunti, qui, gustosissimi. Inizierei sottolineando la necessità di "mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok su di un vecchio atlante scolastico". La signora Elfride, nazista convinta e antisemita conclamata, evidentemente nelle scuole del Terzo Reich non aveva imparato a consultare un atlante. Ma a Martin piaceva per la sua fresca e originaria femminilità.
Venendo a Martin, frasi come "Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto" mi riportano alla mente il caro zio Leone: anche lui diceva sempre "io dico sempre...".
Pregevolissimo l'epico momento in cui Heidegger è "molto scosso": “Le dica che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non fossi compreso e trovassi comprensione.”
Si evince che Martin temeva moltissimo di essere ammirato senza reale comprensione, solo per vezzo, magari per il suo severo e diginitoso aspetto fisico (non fu lui che una volta disse a Jaspers che Hitler aveva delle mani bellissime?). Mettiamoci nei suoi panni: stuoli di ammiratori lo considerano uno dei più importanti filosofi viventi e lui è triste perché pochi lo comprendono davvero. Terribile. Per fortuna ogni tanto arriva un monaco buddhista dalla Tailandia a risollevare la media della comprensione di Heidegger. Anzi no, perchè poco dopo si capisce che anche il tailandese era un babbione come gli occidentali: "D’altra parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell]."
Non per nulla il monaco furbastro, l'anno successivo (forse dopo aver capito il senso della filosofia di Heidegger) decise di andare negli USA a lavorare in televisione. O tempora o mores.

STUPIDAGGINE 3. A Zollikon, Ginvera Bompiani chiese in francese a Heidegger se conoscesse la musica di Nietzsche. Poiché Heidegger non capiva bene il francese, equivocò che Ginevra gli stesse chiedendo se conosceva Nietzsche.
COMMENTO: Quando si dice "insight", "principio di carità" e "massimizzazione della pertinenza" non si pensa di sicuro a Heidegger.

STUPIDAGGINE 4. Citato in "Perché ancora la filosofia", Carlo Cellucci, p.4:«nessun sapiente proverà invidia per gli ‘scienziati’ – gli schiavi più miseri dei tempi più recenti».
COMMENTO: no comment.


STUPIDAGGINE 5. Citato in "Heidegger, antisemita e vero nazista", Ranieri Polese: «Ma può essere un caso che il mio pensiero e le mie questioni nell’ultimo decennio siano stati rifiutati proprio in Inghilterra, e che non si sia fatta nessuna traduzione delle mie opere?».
COMMENTO: Ehi, Martin, non credo affatto che sia stato un caso: a quel tempo, prima che voi crucchi cominciaste a bombardarli, i britannici avevano già a che fare con Wittgenstein. Wittgenstein, hai presente? (Che pure apprezza la tua nozione di angoscia, in un suo frammento).