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giovedì 26 luglio 2018

Post scriptum (Roman nouveau, Omega)

Un giorno d'inverno portai una minuscola statuetta di Buddha sulla tomba di mio padre. Era il mio periodo buddhista, avevo l'ispirazione per fare un gesto privo di significato e tuttavia facilmente leggibile all'interno di una tradizione umana di culto dei morti.
La prima statuina che volevo portare a mio padre l'avevo regalata al bellissimo figlioletto del mio amico Max: eravamo in montagna per una riunione tra ex compagni di università, Viviana era incinta di Agostino. Tito aveva quattro anni e quando vide la statuina dorata che mi portavo sempre appresso, dopo che l'avevo posata sul tavolino al quale sorseggiavamo il nostro aperitivo tra vecchi amici in vacanza, la guardò con occhi incuriositi e avidissimi: “questo è Buddha”, gli dissi con benevolo tono di ammaestramento.
“Buddo!”, urlò Tito gioiosamente afferrando la statuina e impadronendosene in modo ostentato. Ebbi una piccola crisi interiore: era una statuina che adoravo, una specie di portafortuna su cui si concentravano tutte le mie quasi-credenze pseudo-buddhiste dell'epoca. Inoltre avevo già deciso di portarla sulla tomba di mio padre... E adesso quel moccioso la voleva per sé! Cercai di dominare l'angoscia furente che si stava formando da qualche parte nella mia psiche contorta: mi dissi che se Tito era attratto dal buddhino risplendente era giusto che diventasse suo, anche se privarmene mi generava un notevole disagio. Mi dissi che in fondo il buddhismo insegna proprio il distacco e mi tornò in mente il proverbio cinese che esprime il culmine dell'irrazionalità buddhista chan, poi zen: “se incontri Buddha sulla tua strada, uccidilo”. 
Provai così a uccidere Buddha in quella statuina, ma forse non vi riuscii proprio benissimo, se ora sto scrivendo di questo fatto, a dieci anni di distanza. Successivamente trovai un'altra statuina simile a quella che avevo visto scomparire nella manina di Tito: ma non era altrettanto bella e insomma portarla da mio padre mi sembrava già un po' meno significativo.
Comunque mi recai al cimitero monumentale di Torino, dove ritrovai non senza fatica (devo sempre richiedere le coordinate alla mia vecchia zia) il lotto in cui stazionavano le spoglie mortali incenerite del mio genitore, appoggiai la statuina sul loculo di papà, mi sedetti nella posizione del loto, dopo essermi ficcato dei giornali sotto il sedere per evitare il freddo del pavimento cimiteriale, e provai a fare un po' di meditazione.
Niente, non sentivo niente, non mi veniva in mente nulla che io potessi fieramente lasciar scorrere nella mia mente, non i pensieri “che saltano di ramo in ramo come le scimmie”.
Non pensando niente non potevo staccarmi da niente. Nulla aveva senso, era tutto ridicolo e inutile: stavo davanti a un pezzo di marmo contenente un po’ di polvere, e negli avelli contigui c’erano pure dei cadaveri in putrefazione.

Quando tornai dopo un anno a visitare la tomba, la statuina era scomparsa.
Siamo usciti dal nulla, siamo fatti di nulla, stiamo tornando nel nulla.

giovedì 12 luglio 2018

En attendant (Roman nouveau, 38)

Quando il dottore disse che mio padre era gravissimo piansi perché capii che rischiavo di non vederlo mai più.
Chiesi se potevo rimanere in ospedale ad assisterlo, ma mi dissero che me lo sconsigliavano anche per lo stesso ammalato, per via dei microbi o dei germi (non sapevo distinguerli) che noi portiamo da fuori nelle sale dei malati.
Forse papà l'ho ammazzato io andandomi a sedere sul suo letto coi microbi, o germi, che avevo portato dal TGV sugli abiti sporchi di viaggio? Mi sono seduto accanto a lui che era ammalato e nudo. Non ci avevo badato e nessuno mi aveva detto come comportarmi, se togliermi i vestiti o indossare un camice, né del resto sono stato rimproverato da nessuno: speravo quindi in seguito che la quantità di microbi da me portata non gli fosse stata letale. 
Privo di difese immunitarie, giaceva su un letto non suo: che valore aveva una così debole vita ormai?
Il dottore aveva detto nel giro di due o tre giorni, ma aveva aggiunto di lasciare il recapito perché avrebbero potuto esserci novità anche quella notte stessa.
Visto che non potevo star lì a vedere la morte che arrivava a prenderselo via, sono uscito dalle Molinette e ho telefonato al mio amico Giacomo che non era in casa (i cellulari non esistevano ancora). Allora ho chiamato un’amica che un po’ mi piaceva, ma non era in casa neppure lei; infine ho trovato Marco che avevo appena conosciuto a Parigi e ci eravamo fatti molta simpatia. E spiegandogli la situazione, e che non potevo rientrare dagli zii tanto presto perché non me la sentivo di entrare in quella specie di camera mortuaria formato famiglia, gli ho chiesto se mi teneva compagnia quella sera, almeno lui.
Siamo così andati a vedere The addiction di Abel Ferrara. Ogni scena di malattia e sofferenza mi ricordava il fegato cirrotico di papà, anche se ‘ricordare’ non è il termine più preciso visto che avevo appreso della sua malattia soltanto da un paio d’ore e stentavo ancora a crederci.