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venerdì 31 agosto 2018

Deleuze e l'alcol (Roman nouveau, 23 bis)

Gilles Deleuze è stato un gran bevitore fino al 1967. Non è dunque strano che abbia filosofato anche sull'alcol e l'alcolismo. Tre sono i luoghi testuali a me noti, ossia un passo di Logica del senso (1967: l'anno del divenire-sobrio), uno di Mille piani (1980: dopo l'incontro con Guattari), e la lettera B dell'Abecedario (videointervistato da Claire Parnet nel 1988, con la clausola che le registrazioni venissero diffuse solo dopo la morte di Deleuze). 
Nell'Abecedario1, Deleuze sostiene che bere sia una questione di quantità, cioè l'alcolismo avrebbe una sorta di intrinseca logica quantitativa legata a una bevanda particolare: ciascun bevitore sperimenta la quantità relativamente a quella bevanda (se bevo birra mi regolo su quanta ne sto bevendo, se bevo whisky il calcolo sarà diverso). 
La quantità alcolica è orientata verso “l'ultimo bicchiere”: “bere significa esattamente fare di tutto per arrivare all’ultimo bicchiere (...) l’alcolizzato è quello che non (...) smette mai d’essere all’ultimo bicchiere”.

L'alcolizzato è scaltro: 

c’è una valutazione. Valuta quanto può resistere senza crollare (…) Valuta quindi l’ultimo bicchiere e tutti gli altri serviranno a raggiungere quest’ultimo. E l’ultimo cosa vuol dire? Non può sopportare di bere di più per la giornata. È l’ultimo che gli permetterà di ricominciare l’indomani. Perché se invece arriva fino all’ultimo, quello che eccede il suo potere, è l’ultimo in suo potere. Se supera l’ultimo in suo potere, allora crolla. È fottuto, finisce in ospedale, oppure deve cambiare abitudini, deve cambiare concatenamento. Così quando dice l’ultimo bicchiere, si tratta in realtà di quello precedente. È alla ricerca del penultimo in realtà. Non cerca l’ultimo ma il penultimo. Il penultimo è l’ultimo prima di ricominciare il giorno dopo. Dunque, per me l’alcolizzato è quello che non smette mai di dire: “dai”, è quanto si sente nei caffè, sono così allegre le compagnie di alcolizzati, non ci si stanca mai di ascoltarli. È quello che dice sempre: “dai è l’ultimo” e l’ultimo varia per ognuno. E l’ultimo è il penultimo.

Nonostante questo apparente elogio dell'alcolizzato, Deleuze dice anche che bere è “pericoloso”: 

va bene bere, drogarsi, si può fare tutto ciò che si vuole se non impedisce di lavorare. Si tratta di un eccitante. È normale offrire qualcosa del proprio corpo in sacrificio. C’è tutto un aspetto sacrificale in questa disposizione al bere, alla droga. Si offre il proprio corpo in sacrificio per qualche motivo, forse perché c’è qualcosa di troppo forte che non si può sopportare senza alcol. (...) Si ritiene quasi che bere, drogarsi… renda possibile qualcosa di troppo forte, anche se c’è un prezzo da pagare, ma in ogni caso è legato a lavorare, lavorare. E poi quando tutto si rovescia, quando bere impedisce di lavorare, quando la droga diventa un modo di non lavorare, è il pericolo assoluto, perde di qualsiasi interesse. E ci si accorge sempre di più che si credeva la droga necessaria, e invece non lo è affatto. Forse bisogna esserci passati per accorgersi che tutto quello che si credeva di poter fare grazie all’alcol o alla droga, si poteva fare anche senza. 

Fare senza alcol, io l'ho provato solo dopo la morte di mio padre, quando per qualche tempo sono stato completamente sobrio. Ma è durato poco. Mio padre invece non è riuscito a fermarsi in tempo, non ci ha proprio provato, e per lui non era legato al lavoro, era solo un modo per stordirsi, combattere la depressione e la solitudine, e morire il più in fretta possibile senza veramente deciderlo. 
No, dico il falso: in effetti anche per lui bere era legato al lavoro, o meglio al non lavoro. In effetti negli ultimi mesi papà lavorava a casa, si era messo in proprio e aveva tirato fuori il suo vecchio tecnigrafo. Si era messo in proprio nel senso che si era licenziato dall'ultimo datore di lavoro (un'azienda in trentino, dove era anche andato ad abitare, nel mio ultimo anno di liceo) e poi era andato in pensione: aveva racimolato decine di milioni di contributi non versati per poter andare in pensione. Milioni che ovviamente sono stati bruciati nel nulla con la sua morte, avvenuta neanche due mesi dopo l'inizio della pensione. 

In Logica del senso, Deleuze aveva già proposto una piccola teoria filosofica dell’effetto dell’alcol sulla mente. “L’alcolismo non appare come la ricerca di un piacere, bensì di un effetto”, esordisce Gilles2 suscitando subito il mio assenso. A quale beone verrebbe mai in mente di sostenere che bere sia piacevole? Chi beve cerca evidentemente l'ebbrezza. 
Subito dopo però la teoria diventa astrusa: 

Tale effetto consiste principalmente in ciò: uno straordinario indurimento del presente. Si vive in due tempi contemporaneamente, si vivono due momenti contemporaneamente (...). L'altro momento può rinviare a progetti come pure a ricordi della vita sobria; nondimeno esiste in tutt’altro modo, profondamente modificato, colto in questo presente indurito che lo circonda, come un tenero bocciolo in una carne indurita. In questo centro molle dell’altro momento l’alcolizzato può dunque identificarsi con gli oggetti del suo amore, (...) mentre la durezza vissuta e voluta del momento presente gli permette di mantenere a distanza la realtà. 

Uhm... Questa idea della temporalità doppia complica tutto, perché non è chiaro che cosa significhi, se non che nel presente ricordiamo il passato: l'alcolista lo farebbe in tutt'altro modo, poiché l'alcol gli indurisce l'esperienza presente? Questo indurimento consisterebbe nel mantenere a distanza la realtà, il che sarebbe l'effetto vero e proprio dell'alcol? Il presente indurito però, circonda un nucleo molle, che è la dimensione dei sogni, rimpianti, desideri ecc.: sembra dunque che l'indurimento del presente sia una sorta di corazza che protegge questo frutto centrale di libertà immaginaria. 

Questo è un punto interessante: in effetti da ubriaco io leggevo e fantasticavo, inventavo connessioni tra concetti, immaginavo orizzonti discorsivi e teorici che normalmente non mi apparivano alla coscienza... 

Ma quale strana tensione quasi insopportabile, questa stretta, questo modo in cui il presente circonda e investe, racchiude l’altro momento. Il presente si è fatto cerchio di cristallo o di granito, attorno al centro molle, lava, vetro liquido o pastoso. 

Ma Deleuze rinviene poi nell'effetto alcolico un'articolazione ulteriore, sopraggiunge un secondo effetto, o un “effetto dell'effetto”: 

Nondimeno, questa tensione si snoda a profitto di altro ancora. Infatti, è proprio del passato prossimo diventare un “ho bevuto.” Il momento presente non è più quello dell’effetto alcolico, bensì quello dell’effetto dell’effetto. E ora l’altro momento comprende indifferentemente il passato recente (il momento in cui io bevevo), il sistema di identificazioni immaginarie celato da questo passato recente e gli elementi reali del passato sobrio più o meno allontanato. Quindi l’indurimento del presente ha completamente mutato senso; il presenta nella sua durezza è diventato senza presa e scolorito, non racchiude più nulla e parimenti mette a distanza tutti gli aspetti dell’altro momento. 
Si direbbe che il passato prossimo, ma anche il passato di identificazioni che in esso si è costituito, e infine il passato sobrio che forniva una materia tutto questo sia fuggito ad ali spiegate, tutto questo è parimenti lontano, mantenuto a distanza da una espansione generalizzata di questo presente scolorito, dalla nuova rigidità di questo nuovo presente. 
I passati prossimi del primo effetto, sono sostituiti dal solo “ho bevuto” del secondo effetto, in cui l ’ausiliare presente esprime ora soltanto la distanza infinita di ogni participio e di ogni partecipazione. 
L ’indurimento del presente (io ho) si trova ora in rapporto con un effetto di fuga del passato (bevuto). Tutto culmina in un has been. Questo effetto di fuga del passato, questa perdita dell’oggetto in tutti i sensi, costituisce l’aspetto depressivo dell’alcolismo. E tale effetto di fuga è forse ciò che fa la maggiore forza dell’opera di Fitzgerald, ciò che egli ha più profondamente espresso. 

Lo trovavo un discorso affascinante, anche se non lo capivo del tutto e sembrava applicarsi soprattutto all'alcolismo degli artisti, a differenza dell'altra teoria esposta nell'Abecedario. 
Come molte idee di Deleuze, anche queste le feci comunque mie non perché le capissi profondamente e mi sembrassero vera, ma perché io bevevo e mi faceva piacere sapere che anche Deleuze aveva bevuto e aveva pensato filosoficamente l'alcol. 

(continua...) 

1 Una traduzione italiana è disponibile sul sito di Sabina Guzzanti: <https://www.sabinaguzzanti.it/abecedario-gilles-deleueze-b-come-bevanda/
2 Deleuze (1969) , p.141.

lunedì 13 agosto 2018

Tristezza della scrittura luttuosa (Roman nouveau, 39+n)

Scrivere può generare tristezza, se l'oggetto di cui si scrive è triste. 
Ce lo si poteva aspettare fin dall'inizio: avevo accennato alla morte di mio padre fin dal primo paragrafo, era chiaro che era di quello che volevo parlare. Tuttavia si trattava per me di rielaborare testi scritti in vent'anni alternandoli con testi nuovi, e mi pareva che l'elemento rielaborativo, la fatica del significante, potesse bastare a tenere a distanza gli affetti luttuosi legati alla scomparsa di mio padre. 
Ma non è così facile, specialmente a questo punto, poiché mi rendo conto che in vent'anni non avevo mai superato lo scoglio di raccontare quello che è successo dopo il decesso di papà. È da lì che la vita è diventata strana, come se dopo le cose avessero perso senso. 
Ho riletto ieri gli appunti relativi al periodo dopo il decesso. Un ammasso di sproloqui, deliri, invettive, risoluzioni, soliloqui, dialoghi immaginari, progetti, analisi, intuizioni, baggianate clamorose. È una specie di melma sobbollente, con pensieri continuamente riciclati che sarebbe vano provare a districare tanto sono privi di interesse intellettuale e anche biografico. 
Dopo la morte di mio padre io scrivevo per alleviare la sofferenza, il che in parte funzionava, almeno fino a quando non sentii la necessità di andare dalla psicologa della Sorbona. 
Ma rimestare ora, dopo vent'anni, quella materia affettivo-linguistica mi destabilizza non poco. Poiché però ancora fatico a distaccarmi da questa specie di defecazione di significanti che mi ha accompagnato così a lungo, proverò un compromesso, scegliendo alcuni dei passi più significativi di alcune tra le innumerevoli versioni digitali di ciò che avevo scritto sotto diversi titoli, come Romanpapà, o Voi non sapete che cos'è la morte, di chiara ispirazione carveriana. 


domenica 12 agosto 2018

Stawac (Roman nouveau, 39)

Quella notte dormii a casa della zia Pierina e dello zio Luigi. Immaginatevi di passare la notte nell’attesa che vostro padre muoia: immaginatevi però di non essere a casa vostra ma in una lugubre casa di vecchi zii, dove non c’è un letto e nemmeno un divano. Pertanto dovete arrangiare un paio di poltrone l’una contro l’altra per ricavare uno spazietto nel quale rannicchiarvi coi piedi che sporgono. Ecco, oltre al danno sembra che si aggiunga una schifosa beffa perché dormire almeno un po’ su un letto degno di questo nome parrebbe il minimo per prepararsi a ricevere la notizia più brutta. 

Il telefono squillò verso le quattro del mattino: sentii la zia rispondere a monosillabi con la voce di un vecchio uccellino e chiudere ringraziando il dottore con un sussiego che mi rivoltò lo stomaco. Mio padre era già morto da circa un’ora.

Quando hai la cirrosi (Roman nouveau, 32 bis)

Comunque quando hai la cirrosi il tuo fegato si ricopre di ricciolini di malattia che deformano il fegato e si propagano agli organi circostanti. Ma questo solo nella fase ultima, che è gravissima. Se no, se lo puoi fare, ti trapianti il fegato.
Mio padre aveva il diabete ed era quindi impossibile trapiantargli il fegato e secondo un mio amico medico sarebbe forse morto sotto i ferri a causa della complicazione di dovere distaccare i ricciolini, i cirri, dal fegato da buttare e dagli organi adiacenti, che invece vanno lasciati dentro perché tutto non si può trapiantare.
Secondo me il mio amico medico mi aveva detto così anche un po’ per calmarmi, per non farmi pensare che forse c’era una possibilità di salvare mio padre.


Accelerare il tempo scrivendo (Intuizione, 48)

Dopo anni di famigliarità con la lettoscrittura ho improvvisamente scoperto un modo per accelerare l'esperienza del tempo: concentrarsi scrivendo, lasciarsi trasportare dal flusso del da-scrivere.
Come sempre, quando si parla di analisi dell'esperienza temporale, sembra che si possano invertire accelerazione/rallentamento (cfr. la discussione pertinente in La montagna incantata): mentre scrivi hai l'impressione che il tempo acceleri, ma ti sembra anche di occuparlo senza contarlo (cfr. Boulez/Deleuze: spazi e tempi lisci/striati).
Quindi accelera o rallenta? Sembra rallentare considerando la quantità di azioni che svolgi al suo interno, ma l'esperienza soggettiva è di velocità: quando interrompi la scrittura credi che sia passato più tempo di quello che è efettivamente passato.

Ho l'impressione che nella lettura accada il contario: mentre leggi hai l'impressione che il tempo rallenti (invece trascorre).

Ovviamente, tutto questo potrebbe essere ampiamente soggettivo: per un primo riscontro in letteratura, verificare in: