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domenica 10 febbraio 2019

Se ascolto Arisa, Mi sento bene (Sanremo 2019)


So che molti non saranno d'accordo ma penso che la canzone sanremese di Arisa, Mi sento bene, sia quella più significativa e degna di nota.
Tutti, a destra e a sinistra (per motivi ovviamente opposti), concordano che viviamo in un'epoca di passioni tristi per dirla con Spinoza e lo psicoanalista Benasayag: un'epoca dove trionfa l'atomizzazione della società e la depressione, nemmeno sublimata in spleen. Una depressione spesso travasata in pratiche esistenziali autodistruttive e preoccupantemente individualistiche (e sessiste), come quelle cantate dai rapper, tra i quali anche Achille Lauro di cui tanto si è parlato per il suo inno alla Rolls Royce (automobile di lusso o droga sintetica, o tutt'e due?).
La canzone di Arisa, cantante alla quale nessuno nega evidenti doti canore e musicali, ha un titolo e un testo alquanto banali, che ha provocato il giudizio negativo di molti.
Io voglio difenderla.
La musica della canzone è interessante, tripartita com'è in un'intro e una chiusa melense da musical disneyano, e in un corpo centrale concitato dal ritmo serrato esaltante, con una linea melodica fatta di guizzi verso l'acuto e rotonde ricadute alla partenza. Un esperto mi ha suggerito che lo stacco tra primo e secondo tempo potrebbe addirittura ricordare il David Bowie di Station to Station, e in ogni caso, mi pare musicalmente figa, degno di Elio e le storie tese o di un buon musical.
Il testo della canzone propone una specie di visione zen adatta ai nostri tempi, forse più femminile che maschile: rinunciare a pensare troppo alla nostra finitudine, al passato, ai desideri irraggiungibili, e aderire alla realtà può far sentire bene.
È un messaggio ambiguo: se appare superficialmente banale è in realtà ben difficile da praticarsi. D'altra parte, sul piano politico rischia di essere quietista e reazionario, un rischio insito in generale nelle filosofie orientali, che insegnano appunto a votarsi all'adesione a ciò che è, più che la progettazione di ciò che potrebbe essere e ancora non è (compito che in Occidente la filosofia si è caricata sulle spalle da Marx e la sinistra hegeliana in poi).
Da una prospettiva pop-zen, Arisa indica una via individualmente percorribile per staccarsi dalle passioni tristi: guardare una serie alla tv, fa stare bene (per qualcuno fa persino pensare), fare l'amore fa stare bene, sentirsi belle perché qualcuno ci desidera fa stare bene, ecc.
Questo “stare bene” mi colpisce perché è ambiguo: da un lato sembra indicare una rinuncia a qualcosa di più elevato o di più complesso, dall'altro sembra un obiettivo difficile da raggiungere, nonostante la sua apparente facilità (“quasi elementare e semplice”).
Le premesse filosofiche non sono tra le meno serie: abbandonare il desiderio di eternità (“basta non pensarci più e vivere”) proprio di una buona metà della filosofia occidentale e di quasi tutta la filosofia orientale); abbandonare la ricerca del senso del transeunte (“chiedersi che senso ha, è inutile, se un giorno tutto questo finirà”).
La natura contradditoria e tragica della realtà è esplicitamente definita “questo assurdo controsenso”: una visione schopenhaueriana della realtà che non dispiacerebbe forse a Houellebecq.
Il messaggio pratico di Arisa, il suo “tetrafarmaco”, sembra essere il non pensare al passato (“cosa ne sarà dei pomeriggi al fiume da bambina, degli occhi di mia madre, quando questo tempo finirà? Se non ci penso più mi sento bene”).
Tra i mali di vivere su cui fare epoché, come gli antichi stoici, Arisa annovera giustamente la vecchiaia (“non aver paura d'invecchiare”, una frase che potrebbe essere di Battiato). Nel buddhismo ci sono anche malattia e morte, ma a una canzone di Sanremo non possiamo chiedere troppo.
Se facciamo un confronto con la canzone vincitrice di qualche anno fa, Occidentalis karma, capiamo che per noi occidentali la filosofia orientale ha due possibilità entrambe spettacolarizzabili: la sua superficializzazione postmoderna e pop, da Battiato a Francesco Gabbani, oppure la sua interiorizzazione dagli esiti imprevedibili, da Schopenhauer a Noah Yuval Harari, e Arisa.
Se contrapponessimo le due possibilità come Heidegger faceva per l'autenticità e l'inautenticità, ricadremmo in un eroico dualismo della scelta, poco probabile ai giorni nostri.
Lasciarci trasportare dalla canzone di Arisa potrebbe suggerirci come trovare nella nostra quotidianità per lo più alienata qualche isola di tranquillità, se non proprio l'oceano di silenzio invocato dal maestro Battiato.
E più non penso e più mi sento bene.”

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