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ALAIN BADIOU ET L’ONTOLOGIE DU MONDE PERDU
20/set/2010
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GAVAGAI, OVVERO L’ACCETTAZIONE RADICALE DEL PARLAN...
19/set/2010
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G8enova per noi (un racconto mai finito)
20/set/2010
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Espettorazioni dell'Ombra
20/set/2010
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Twitteratura
20/set/2010
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E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
lunedì 20 settembre 2010
Espettorazioni dell'Ombra (AGGIORNAMENTO)
Alcuni pensieri su intellettuali, critici e letteratura ispiratimi da un litigio con Gilda Policastro (che rivendicò il copyright di "espettorazioni": glielo concedo volentieri, è suo).
Espettorazioni dell'Ombra, 6
In un paese dove la gente diviene attivamente analfabeta, il godimento intellettuale produttivo di pensieri sensi e testi è come un film di perle proiettato su schermi per porci miopi
***
Espettorazioni dell'Ombra, 1
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.39
I concetti di frustrazione e invidia usati in modo esplicativo sono propri della psicologia spontanea piccolo borghese e in particolare di quella degli intellettuali umanisti separati dalla società, da essi chiamata "pubblico".
Espettorazioni dell'Ombra, 2
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.38
In una società che poco legge e quasi nulla comprende, la funzione del critico letterario è paragonabile a quella dell'igienista nel lebbrosario: le sue prescrizioni immaginarie si volatilizzano rapidamente tra i miasmi del reale.
Espettorazioni dell'Ombra, 3
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.52
In una società che ignora la poesia per sopraggiunto analfabetismo poetico-politico, la funzione del poeta è paragonabile a quella di un istituto creditizio di un paese in bancarotta: mentre i più sopravvivono a stento, o muoiono d'inedia, esso erogherà prestiti ai benestanti affinché difendano e perpetuino la loro agiata forma di vita.
Espettorazioni dell'Ombra, 4
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 15.25
Alla maestà dei letterati italiani non dà fastidio esser lesi dalle critiche ma piuttosto che gliele porga qualcuno che nella Repubblica delle Lettere non conta un benemerito cazzo di nulla.
Espettorazioni dell'Ombra, 5
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 21.54
Nell'epoca del capitalismo rovinante, il critico letterario che si lamenta della bassa qualità dei libri editi, distribuiti, letti e premiati, ha qualche tratto in comune con il generale di un esercito destinato alla sconfitta che si duole perché i suoi soldati non vanno lietamente a morire sul fronte.
In entrambi i casi, la spiegazione ha a che fare con la morte e la natura delle cose.
Espettorazioni dell'Ombra, 6
In un paese dove la gente diviene attivamente analfabeta, il godimento intellettuale produttivo di pensieri sensi e testi è come un film di perle proiettato su schermi per porci miopi
***
Espettorazioni dell'Ombra, 1
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.39
I concetti di frustrazione e invidia usati in modo esplicativo sono propri della psicologia spontanea piccolo borghese e in particolare di quella degli intellettuali umanisti separati dalla società, da essi chiamata "pubblico".
Espettorazioni dell'Ombra, 2
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.38
In una società che poco legge e quasi nulla comprende, la funzione del critico letterario è paragonabile a quella dell'igienista nel lebbrosario: le sue prescrizioni immaginarie si volatilizzano rapidamente tra i miasmi del reale.
Espettorazioni dell'Ombra, 3
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno venerdì 14 maggio 2010 alle ore 23.52
In una società che ignora la poesia per sopraggiunto analfabetismo poetico-politico, la funzione del poeta è paragonabile a quella di un istituto creditizio di un paese in bancarotta: mentre i più sopravvivono a stento, o muoiono d'inedia, esso erogherà prestiti ai benestanti affinché difendano e perpetuino la loro agiata forma di vita.
Espettorazioni dell'Ombra, 4
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 15.25
Alla maestà dei letterati italiani non dà fastidio esser lesi dalle critiche ma piuttosto che gliele porga qualcuno che nella Repubblica delle Lettere non conta un benemerito cazzo di nulla.
Espettorazioni dell'Ombra, 5
pubblicata da Edoardo Acotto il giorno martedì 18 maggio 2010 alle ore 21.54
Nell'epoca del capitalismo rovinante, il critico letterario che si lamenta della bassa qualità dei libri editi, distribuiti, letti e premiati, ha qualche tratto in comune con il generale di un esercito destinato alla sconfitta che si duole perché i suoi soldati non vanno lietamente a morire sul fronte.
In entrambi i casi, la spiegazione ha a che fare con la morte e la natura delle cose.
ALAIN BADIOU ET L’ONTOLOGIE DU MONDE PERDU
Riproduco qui il mio unico articolo di filosofia mai pubblicato. In un libro collettaneo: Bruno Besana & Oliver John Feltham (Eds). Écrits autour de la pensée d’Alain Badiou. Paris, FR: L'Harmattan.
Sono saltate le note a pié di pagina e scomparsi i simboli matematici. Prima o poi rimedierò.
1. Le discours philosophique de Badiou est totalement déterminé par la figure de Heidegger
Il faut être formblind pour penser que l’ontologie heideggérienne soit, dans un sens quelconque, fondamentale.
(Mulligan K., Métaphysique et ontologie)
Alain Badiou a posé au commencement de L’être et l’événement que «Heidegger est le dernier philosophe universellement reconnaissable» (p.7) et que «"l’ontologie" philosophique contemporaine est entièrement dominée par le nom de Heidegger» (p.15). Il reçoit ainsi comme acquise la filiation heideggérienne propre d’une grande partie de la philosophie dite “continentale”.
Il est vrai que selon Badiou il faudrait dépasser Heidegger, dont le style de pensée resterait pris dans le régime poétique, un régime somme toute fondé sur la présence en dépit du projet anti-métaphysique du philosophe allemand.
Mais, faisant de Heidegger le dernier Philosophe de ce qu’il appelle le “référentiel contemporain”, c’est-à-dire le paradigme philosophique dominant, Badiou ne s’éloigne pas des confins de ce qu’il appelle lui-même l’historicisme de la philosophie. A ce propos, dans Conditions il a affirmé que :
1. La philosophie est aujourd’hui paralysée par le rapport à sa propre histoire.
Cette paralysie résulte de ce que, examinant philosophiquement l’histoire de la philosophie, nos contemporains sont presque tous d’accord pour dire que cette histoire est entrée dans l’époque, peut-être interminable, de sa clôture. (...) Ou alors la philosophie n’est justement plus que sa propre histoire, elle devient le musée d’elle-même. (...) L’idée dominante est que la métaphysique est historiquement épuisée, mais que l’au-delà de cet épuisement ne nous est pas encore donné. (...)
2. La philosophie doit rompre, de l’intérieur d’elle-même, avec l’historicisme.
Rompre avec l’historicisme, quel est le sens de cette injonction ? Nous voulons dire que la présentation philosophique doit s’autodéterminer initialement sans référence à son histoire. Elle doit avoir l’audace de présenter ses concepts sans les faire préalablement comparaître devant le tribunal de leur moment historique .
On pourrait consentir avec Badiou si l’on référait ce diagnostic à la philosophie continentale. La philosophie analytique, au contraire, se caractérise par un rapport tout d’abord théorique aux concepts et aux problèmes philosophiques, l’histoire des idées n’étant pas méconnue ni refoulée, mais ne bornant pas la liberté d’analyse théorique des concepts et des problèmes philosophiques. Cela nous semble suffisant pour admettre que “la philosophie” ne se trouve pas dans la nécessité de sortir ni de l’historicisme, ni de la métaphysique. Les affirmations “épocales” à ce propos ne sont que l’effet d’un certain style de pensée philosophique, dont les propositions peuvent bien être évaluées à la lumière de quelques critères de vérité.
Or, si Heidegger posait que la métaphysique coïnciderait avec l’oubli de l’être dont on peut encore espérer sortir par la voie poétique, Badiou n’accepte pas cette position du Dernier Philosophe:
Heidegger pense que nous sommes historialement régis par l’oubli de l’être, et même par l’oubli de cet oubli. Je proposerai pour ma part un violent oubli de l’histoire de la philosophie, donc un violent oubli de tout le montage historial de l’oubli de l’être .
Il faut oublier Heidegger, et avec violence. Pour dépasser l’historicisme philosophique fondé sur le langage poétique et sur le privilège de la présence, Badiou déclare que : a) les mathématiques sont l’ontologie ; b) le nom propre de l’être-en-tant-qu’être est l’ensemble vide.
Fixons tout de suite le fait qu’il s’agit de deux postulats méta-ontologiques.
2. La thèse : les mathématiques sont l’ontologie, est méta-ontologique. Elle ne vise pas le monde mais le discours
Au moins jusqu’à L’être et l’événement, Badiou renonçait explicitement au discours philosophique sur le monde:
La thèse que je soutiens ne déclare nullement que l’être est mathématique, c'est-à-dire composé d’objectivités mathématiques. C’est une thèse non sur le monde, mais sur le discours. Elle affirme que les mathématiques, dans tout leur devenir historique, prononcent ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être (nous soulignons).
Ce qui peut être dit dans le domaine ontologique peut se dire en mathématiques. L’“onto-mathématique” remplace le langage naturel, et même celui artificiel, dans l’expression de ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être. Badiou ne s’engage pas dans la thèse selon laquelle l’être serait intrinsèquement mathématique, mais l’effet rhétorique de son discours est souvent celui de laisser oublier au lecteur que ce dont on parle est le discours ontologique, donc la mathématique, et nullement le monde en soi.
Mais quel est, à l’intérieur du système de pensée de Badiou, le rapport entre le discours méta-ontologique (la philosophie) et le monde (réel), entre l’ontologie (les mathématiques) et le monde, et finalement entre l’ontologie et la méta-ontologie? Finalement, la relation entre l’ontologique et l’ontique, entre le langage formel mathématique et le monde, à l’intérieur du système de Badiou reste une question mystérieuse.
Mais ce ne peut pas être un hasard le fait que Badiou n’affronte pas cette question par lui-même. Badiou ne s’engage nullement dans une analytique du Dasein heideggérien et de son être au monde . Il y a chez notre philosophe quelque chose comme un refoulement de l’ontique, de l’empirique, et nous croyons que l’on n’a pas suffisamment remarqué cette question philosophique, à notre avis évidente et majeure.
3. L’être-en-tant-qu’être et l’ensemble vide
On peut soutenir que l’expression aristotélicienne à la base de l’histoire de la métaphysique, “être-en-tant-qu’être”, n’a pas de sens, du moins si on ne s’explique pas sur la référence de l’expression, commençant par “être”.
Depuis Quine, ce qu’on pourrait appeler la “déontologie de l’ontologie” prévoit qu’on déclare sur quoi on est disposé à quantifier .
Selon la suggestion du philosophe analytique italien Achille Varzi , si l’on pose que pour tous les êtres il y a des propriétés p telles que tous les êtres les possèdent, on pourrait se référer à ces propriétés générales avec l’expression “être-en-tant-qu’être”.
Lisant L’être et l’événement on peut comprendre que l’être-en-tant-qu’être est pour Badiou le fondement des portions des situations structurées qui constituent la texture générale de tout exprimable individualisé par l’“opération” du compte-pour-un . Tout ce qui est, est consistant et son identité est déterminée. “Etre” signifie “être-un”, mais comme l’un n’existe pas (cfr. infra, §4) être signifie être “compté-pour-un”, être intentionné comme un tout. “Avant” d’être compté-pour-un, ce qui apparaît n’est qu’un ensemble (multiple) inconsistant, (encore) sans identité.
C’est la façon de Badiou d’installer dans sa philosophie l’ontologie du non-étant propre de Lacan , en tant que doctrine capable de visualiser une (imaginaire) pré-situation ontologique en amont de l’apparaître des étants. Mais cette ontologie de l’absence des entia, ou “mé-ontologie”, est une ontologie seulement possible et la poser en forme de système d’axiomes ne suffit pas à lui conférer une force universelle.
D’après nous les problèmes philosophiques liés au verbe “être” doivent tout d’abord subir une analyse grammaticale. Suivant Carnap, les distinctions fondamentales à faire sont les suivantes:
[“être”] joue tantôt le rôle de copule pour un prédicat (je suis affamé), tantôt celui d’indicateur d’existence («je suis»). (...) la forme du verbe pris dans sa seconde acception, celle de l’existence (...) produit l’illusion d’un prédicat, là où il n’y en a pas. Or, on sait depuis longtemps que l’existence n’est pas un caractère attributif (...) La forme logique dans laquelle [la logique moderne] introduit le signe de l’existence est telle que ce signe ne peut pas se rapporter à des signes d’objets comme peut le faire un prédicat, il ne peut se rapporter qu’à un prédicat (...). Un énoncé existentiel n’est pas dans la forme «a existe» (...) mais: «il existe une chose dont la nature est telle ou telle» .
Premièrement, donc, il faut distinguer «être» comme marque d’existence et comme copule. Deuxièmement, en sus du verbe être (i) la langue française dispose d’un substantif l’étant (ii) et d’un autre substantif l’être (iii). Il faut fixer que Badiou parle toujours de l’être dans cette troisième acception, ce qui est dans le sillage de l’orthodoxie heideggérienne.
Or, pour Badiou l’être est formalisé par la marque de l’ensemble vide: “”. Badiou n’argumente pas la rationalité de cette formalisation qui pourtant implique une portée ontologique de la formalisation même. On perçoit vaguement qu’au fondement de cette idée il y a une analogie entre l’ensemble vide mathématique et l’être-en-tant-qu’être (qui dans la perspective heideggérienne est l’être-qui-n’est-pas-l’être-des-étants). Mais si la thèse « est le nom propre de l’être» sur laquelle se fonde le système de Badiou nous paraissait dépourvue de sens?
En effet, si l’expression “être-en-tant-qu’être” signifiait quelque chose, il faudrait pourtant justifier pourquoi se référer à cette signification avec un symbole mathématique qui n’a pas de signification en dehors du formalisme mathématique. Ce couplage du symbolisme mathématique avec l’ontologie d’origine aristotélicienne n’est pas soutenu par des arguments explicites.
Badiou ne dit pas que l’ensemble vide serait l’être, ce qui ferait apparaître clairement le non-sens de la thèse. Mais de toute façon parler du “nom propre” de l’être (“être” dans notre acception iii) ne va pas de soi. La marque de l’ensemble vide () est prise ici dans sa suppositio materialis pour en proclamer la référence à l’être (iii) pris, lui, dans sa suppositio formalis. C’est une stratégie de pensée quelque peu rusée, car il n’y a pas de vrai glissement entre le denotans et le denotatum , mais on ne s’efforce pas d’empêcher l’illusion qu’il y en ait un et qu’il soit considéré valable (comme si Badiou disait que l’ensemble vide est l’être ou que l’être est l’ensemble vide). En effet l’être n’est pas l’ensemble vide, ce qui laisserait complètement ouverte la question de ce que c’est l’être. Badiou ne s’en occupe pas, il ne s’occupe que de son nom propre.
4. L’Un et le rien
Dans L’être et l’événement deux pseudo-arguments sont invoqués en support de la thèse que serait le nom propre de l’être.
a) «Il n’y a pas d’un» : Badiou argumente que l’unité et l’identité de chaque étant n’est qu’un effet ontologique de ce qu’il appelle le compte-pour-un:
il n’est cependant pas question de céder sur ce que Lacan épingle au symbolique comme son principe: il y a de l’un. (...) Ce qu’il faut énoncer c’est que l’un, qui n’est pas, existe seulement comme opération. Ou encore : il n’y a pas d’un, il n’y a que le compte-pour-un. [...] Il convient de prendre tout à fait au sérieux que «un» soit un nombre. Et, sauf à pythagoriser, il n’y a pas de lieu de poser que l’être, en tant qu’être, soit nombre.
«L’un n’est pas» et «il n’y a pas d’un» ne sont pas des propositions douées de sens: “un”, en tant que substantif, est un nom de nombre naturel, et la grammaire (au sens de Wittgenstein) d’un nom de nombre ne supporte pas une prédication d’existence si ce n’est à l’intérieur d’une ontologie pythagoricienne, explicitement refusée par Badiou. A propos de ce genre de problèmes syntaxiques, Carnap proposait d’adopter une “théorie des types” dans une langue artificielle correcte afin d’éliminer d’emblée la possibilité de former des “simili-énoncés” comme «César est un nombre premier».
b) Le deuxième argument vise le néant. Badiou soutient la dicibilité d’un certain type de rien. Réellement il n’y a pas du néant, mais il y en a au niveau formel, car le néant est désigné par une forme mathématique:
(…) l’être-rien se distingue tout autant du non-être que le « il y a » se distingue de l’être. (…) il y a un être du rien, en tant que forme de l’imprésentable.
D’après nous opposer “l’être-rien” et “le non-être” ce n’est qu’un jeu linguistique philosophique, un jargon dépourvu de sens non-philosophique. “Etre-rien” est une expression dépourvue de sens précis, si ce n’est le même que n’avoir pas de propriétés dicibles. Le seul sens non rigoureux que nous pouvons y attribuer est du genre mystique : cela n’est pas méprisable en soi mais il nous semble que pour le valider il faudrait un contexte philosophique et rhétorique différent de celui de Badiou.
L’expression (dépourvue de sens) “le non-être”, n’est que la susbtantivation d’une négation apposée au substantif “l’être” (dans notre acception iii). Depuis Parménide l’on sait qu’il y a ici un danger pour l’analyse. Non-être est une expression équivalente à néant. Et, comme le reprochait Carnap à Heidegger, il y a une erreur
qui consiste à prendre le mot «Néant» pour le nom d’un objet, parce qu’on l’utilise sous cette forme dans la langue usuelle pour formuler un énoncé existentiel négatif (...). En revanche dans une langue correcte on obtient le même but, en se servant non pas d’un nom particulier, mais d’une forme logique spécifique de l’énoncé.
Un commentaire de Quine sur le terme “rien” nous semble présenter le problème le plus clairement possible:
Un terme singulier indéfini dont l’ambiguïté a spécialement invité à la confusion, réelle et feinte, est «rien» ou «personne». Comme boutade terne, la formule est assez familière, ainsi dans la chanson de Gershwin «j’ai une abondance de rien» [...] ou dans ce passage de Lewis Carroll: «J’ai dépassé personne dans la rue – Alors personne marche plus lentement que vous». Locke lui-même, si nous admettons l’interprétation peu généreuse de la part de Hume, serait tombé sans rire dans la même confusion lorsqu’il a défendu le principe universel de causalité, en arguant que, si un événement manque de cause, il doit avoir «rien» pour cause, ce qui ne peut pas être une cause. Heidegger, si nous pouvons le lire de manière littérale, a été abusé par la même confusion dans sa déclaration «Das Nichts nichtet». Et Platon, paraît avoir eu des difficultés avec Parménide au sujet de ce petit sophisme.
Ce qui est troublant au sujet du terme singulier indéfini «rien», c’est sa tendance à prendre le masque d’un terme défini.
On ne peut donc pas savoir, du moins si on ne définit pas des critères de signification (que Badiou ne définit pas) ce que c’est que “l’imprésentable”, et donc sa forme.
Les arguments a) et b), essentiels au dispositif de L’être et l’événement, ne respectent donc pas la grammaire naturelle des termes “un” et “rien” : on pourrait fixer une grammaire artificielle pour des raisons stylistiques mais alors il faudrait les énoncer pour se faire comprendre.
L’argument b) est celui qui porte le poids majeur: faire de le nom de l’être-en-tant-qu’être permet le déploiement du discours méta-ontologique de L’être et l’événement.
La thèse "les mathématiques sont l’ontologie" est donc fondée sur la position invérifiable (car soustraite à toutes questions de sens empiriquement contrôlable) de ce qu’on pourrait appeler le sens de l’être de l’ensemble vide .
5. En tout cas les mathématiques ne sont pas l’ontologie
Il faut se méfier de la face «naïve» du formalisme et du mathématisme, dont l’une des fonctions secondaires a été, ne l’oublions pas, dans la métaphysique, celle de compléter et de confirmer la théologie logocentrique qu’ils pouvaient contester d’autre part.
Jacques Derrida, Positions
Le contenu de la définition que Badiou donne de l’ontologie serait peut-être recevable pourvu qu’on réussisse à lui attribuer un sens compréhensible et précis en dehors du jargon idiosyncrasique de Badiou. Comme le dit Bouveresse :
Dans le cas des énoncés philosophiques, la question est donc moins de savoir s’ils n’ont pas de sens en eux-mêmes que de savoir si nous avons réussi et même simplement cherché à leur en donner un.
Finalement, selon nous, on ne peut peut-être pas parvenir à donner un sens à l’assertion selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie. Cela pour au moins deux raisons: a) cette assertion est basée sur la position que est le nom propre de l’être-en-tant-qu’être, ce qui finit par signifier l’identification de (la dicibilité de) l’être-en-tant-qu’être avec (les propriétés mathématiques de) l’ensemble vide. Au début il y a la position selon laquelle l’être est ineffable en dehors de ses formes mathématiques, mais c’est une position jamais déclarée et qu’il faudrait éclaircir; b) l’ontologie et la métaphysique n’ont pas nécessairement à parler de la Différence Ontologique entre l’Être et les étants, à moins de vouloir poursuivre (mais alors pour quels fins?) la fabulation de Heidegger.
L’expression “être-en-tant-qu’être” devrait traduire le tò òn è òn aristotélicien. Comme le dit le philosophe analytique italien Achille Varzi :
dans un certain sens l’expression est vide [même si] il y a un sens dans lequel l’ontologie peut être raisonnablement définie comme la science de l’être en tant qu’être: elle s’occupe de ces propriétés générales et structurelles qui caractérisent tout ce qui existe, indépendamment de ce qui existe. Dans ce sens elle s’occupe de ce qui existe simplement en tant qu’il existe. Par exemple, les relations de dépendance ontologique qui subsistent entre les parties et le tout constituent un sujet d’enquête indépendamment de la nature des entités en question.
La thèse selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie se fonde (et ne se fonde que) sur une redéfinition radicale, une paraphrase révolutionnaire, du sens du terme “ontologie”. Qu’en est-il alors de l’ontologie “réaliste” (anti-kantienne) qui s’occupe du monde empirique et des mondes possibles ?
Il résulte qu’il est impossible de discuter cette thèse sans employer le mot ontologie dans le même sens de Badiou. A moins d’accepter pleinement son jargon, il faut avouer que l’assertion « les mathématiques sont l’ontologie » est dépourvue de sens. Badiou n’a pas de raisons pour affirmer cette thèse si ce n’est son désir de traduire l’anti-métaphysique heideggérienne en des termes mathématiques dans le style lacanien.
La proposition « les mathématiques sont l’ontologie » est en effet proposée alternativement comme un “énoncé philosophique” , une “thèse” , une “hypothèse” , une “assertion” : c’est dire que, au moins au niveau terminologique, le statut assertif n’est pas clair. La seule chose que Badiou garantit est que cette proposition méta-ontologique est
rendue nécessaire par la situation actuelle cumulée des mathématiques (après Cantor, Gödel et Cohen) et de la philosophie (après Heidegger).
On nous permettra de douter que cette nécessité soit réelle. Si l’on accepte qu’il y a d’autres ontologies que celles de l’être-en-tant-qu’être, l’assertion les mathématiques sont l’ontologie n’est pas valable, ni au niveau descriptif ni au niveau prescriptif. Badiou a certes des raisons pour affirmer sa thèse, dans son propre jeu de langage, mais tout à fait relativement et sans aucune prétention de véridicité. Il affirme d’ailleurs avec clarté et honnêteté que
le mode propre sur lequel une philosophie convoque une expérience de pensée dans son espace conceptuel relève strictement, non de la loi supposée de l’objet, mais des objectifs et des opérateurs de cette philosophie elle-même.
Voici à titre d’exemple un passage qui affiche l’impossibilité d’argumenter la thèse "les mathématiques sont l’ontologie" :
Quelle que soit la prodigieuse diversité des «objets» et des structures mathématiques, ils sont tous désignables comme des multiplicités pures édifiées, de façon réglée, à partir du seul ensemble vide. La question de la nature exacte du rapport des mathématiques à l’être est donc entièrement concentrée – pour l’époque où nous sommes – dans la décision axiomatique qui autorise la théorie des ensembles (nous soulignons).
Le “donc” n’indique pas du tout une déduction valide: que la théorie des ensembles permette la transcription des mathématiques dans le langage ensembliste n’implique aucunement que les mathématiques “expriment l’être”, sauf à poser que ce qu’on appelle depuis Aristote l’être-en-tant-qu’être trouve une parfaite correspondance en mathématique par cet objet théorique qu’est l’ensemble vide (mais alors comment?).
Les mathématiques sont l’ontologie est une affirmation injustifiée au niveau théorique comme au niveau empirique et historique. Badiou prétend justifier sa position armé de la notion de décision (ou pensée) axiomatique:
Mais qu’est-ce qu’une pensée qui ne définit jamais ce qu’elle pense ? Qui donc ne l’expose jamais comme objet ? Une pensée qui même s’interdit de recourir, dans l’écriture qui l’enchaîne au pensable, à quelque nom que ce soit de ce pensable ? C’est, évidemment, une pensée axiomatique. Une pensée axiomatique saisit la disposition de termes non définis. Elle ne rencontre jamais ni une définition de ces termes ni une explicitation praticable de ce qui n’est pas eux. Les énoncés primordiaux d’une telle pensée exposent le pensable sans le thématiser .
Il nous semble que l’idée d’une pensée qui procède exclusivement par des termes non-définis soit complètement imaginaire (d’autant plus que Badiou définit plusieurs termes).
6. Ontologie et métaphysique analytiques.
En matière d’ontologie il n’y a pas que Heidegger. Il existe aussi une “métaphysique analytique”. Les philosophes analytiques et les cognitivistes ont en matière d’ontologie des idées bien différentes que celles de Badiou. Pour les philosophes analytiques qui ont essayé de “régimenter” le langage naturel (Quine) ou pour ceux qui ont étudié le langage commun (Austin, Searle) on ne peut pas proférer des phrases comme «le néant néantit», si ce n’est à l’intérieur d’un jeu de langage particulier qui correspond à une forme de vie particulière (le philosophe académique français).
Dans l’absence de critères de significations explicites et partagés il ne peut pas y avoir de signification, ni de signification philosophique possible, et l’ontologie peut se faire la fabula heideggérienne d’un Être oublié.
Qu’est-ce que c’est l’ontologie du point de vue analytique? Voici deux définitions possibles:
L’ontologie, en tant que branche de la philosophie, est la science de ce qui est, des types et des structures des objets, des propriétés, des événements, des processus et des relations qui ont lieu dans chaque région de la réalité. « Ontologie » est souvent employé par les philosophes comme synonyme de « métaphysique » [...]
Parfois « ontologie » est employé en un sens plus large, pour désigner l’étude de ce qui peut exister, lorsque « métaphysique » est employé pour l’étude de ce qui, parmi les différentes alternatives possibles, correspond à la réalité .
En effet, si la métaphysique [...] s’occupe fondamentalement de la nature ultime de tout ce qui existe, revient aussi à la métaphysique la tâche préliminaire d’établir qu’est-ce qui existe, ou du moins de fixer des critères pour établir ce que serait raisonnable d’inclure dans un inventaire précis du monde. La mise au point de tels critères définit justement la question ontologique [...] .
Ici ce n’est pas question d’être-en-tant-qu’être: l’ontologie est définie comme la science de ce qui existe. La philosophie analytique, que Badiou désigne comme le “tournant langagier” de la philosophie, enquête autour des propriétés des choses du monde réel et des mondes possibles. Ce qui implique que le réel ne soit pas “l’impossible” lacanien, mais un champ d’enquête pour cette discipline rigoureuse qu’est l’ontologie analytique.
Voici un petit catalogue, fourni par Kevin Mulligan, de questions propres de la métaphysique et de l’ontologie du point de vue analytique:
Qu'est-ce que c’est exister ?
Qu'est-ce que c’est une substance ?
Qu'est-ce que c’est un tout ?
Qu'est-ce que c’est une relation ?
Qu'est-ce que c’est la dépendance ?
Qu'est-ce que c’est la causalité ?
Qu'est-ce que c’est une propriété ?
Qu'est-ce que c’est un état ?
Qu'est-ce que c’est l’identité ?
Qu'est-ce que c’est un type ?
Qu'est-ce que c’est la survenance ?
Une ontologie qui enquête les «types d’objets et leurs structures, les propriétés, les événements, les procédures et les relations dans toute partie de la réalité » contraint à se procurer une doctrine du sensible.
Cela requerrait sans doute d’autres instruments philosophiques que ceux choisis par Badiou.
7. L’ontologie de Badiou entraîne beaucoup de problèmes relatifs à ce qui n’est pas mathématisable. L’exemple de la pensée.
Un point très insatisfaisant pour nous de la philosophie de Badiou est le fait qu’elle ne se prononce jamais sur la nature de la pensée et n’analyse pas suffisamment cette notion centrale de la philosophie.
L’ontologie-mathématique permettrait selon Badiou de choisir sa propre «orientation de/dans la pensée». L’oscillation entre les prépositions “de” et “dans” semble symptomatique du fait que Badiou ne décide pas sur la nature de la pensée. La pensée semble être un certain «dedans» (orientation de: la pensée a une orientation métaphorique vers des objets noétiques) et aussi un certain «dehors» (orientation dans: la pensée comme élément immatériel, finalement le même que l’être).
On comprend que dans le lexique conceptuel de Badiou l’orientation de/dans la pensée est l’origine des choix ontologiques, c'est-à-dire du choix, conscient ou inconscient, d’une ontologie-mathématique plutôt que d’une autre.
Quelques questions majeures se posent pourtant: 1) s’il existe quelque chose de semblable, qu'est-ce que c'est la pensée pour Badiou?; 1.bis) si ce n’est pas une chose mais un événement, quels sont les critères d’identités de cet événement particulier (différent de tout autre événement) que serait la pensée? ; 2) (si c’est bien une chose) quelles seraient les propriétés de la pensée? ; 3) qu'est-ce que ce serait une propriété de la pensée comme une orientation?
Voyons quelque possibilité de réponse.
1) Il est vrai que Badiou revendique pour une pensée “axiomatique” le droit de ne pas définir ce qu’elle pense, mais la notion de pensée reste ainsi bien mystérieuse. Une citation peut nous orienter dans la théorie implicite de Badiou sur la pensée:
Une pensée n’est rien d’autre que le désir d’en finir avec l’exorbitant excès de l’état (...) La pensée est, proprement, ce que la dé-mesure [entre un ensemble et l’ensemble de ses parties], ontologiquement attestée, ne peut satisfaire. L’insatisfaction, cette loi historique de la pensée dont la cause gît où l’être n’est plus exactement dicible, se donne communément dans trois grandes tentatives de parer à l’excès (...) Car c’est bien, dans le désir qu’est la pensée, de l’injustice innombrable de l’état qu’il est question.
Que la pensée soit un désir, ce n’est qu’une métaphore. Il nous semble bien difficile pour un philosophe contemporain de ne pas se confronter avec les connaissances scientifiques actuelles en matière d’esprit et de cerveau, lorsqu’on parle de pensée en philosophie. Badiou ne se confronte pas du tout avec la philosophie contemporaine de l’esprit, ce qui rend sa théorie de la pensée assez idiosyncrasique, métaphorique, anti-scientifique, incompréhensible ou impossible à souscrire.
Pour une ontologie analytique, soit la pensée n’est rien, soit elle est une chose ou une propriété ou un événement.
Même voulant rester à l’intérieur du système de Badiou, on peut se demander si la pensée, dans le cas où elle est une chose, fait partie du monde ou pas, c’est-à-dire si c’est une chose sensible ou une chose abstraite.
Si la pensée faisait partie du monde sensible, ni l’ontologie-mathématique ni la méta-ontologie de Badiou ne pourraient pas en traiter, la première ne prononçant que, la seconde ne se prononçant que sur, les formes de l’être-en-tant-qu’être, et non pas sur les étants.
Dans cette perspective, étant donné qu’il n’a pas d’indices pour imaginer que pour Badiou la pensée soit une chose abstraite comme un nombre ou une propriété, elle deviendrait probablement quelque chose comme une condition de pensabilité-dicibilité du monde, donc un transcendantal, atteint par l’ineffabilité propre des transcendantaux kantiens.
1.2) Si la pensée était un événement, il faudrait poser la question de ses critères d’identification, comme le fait Slavoj Zizek dans son The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology. Comment distinguer un événement d’un non-événement qui pourrait être proclamé tel par quelque pseudo-sujet événementiel?
La réponse ici semble simple : le véritable événement est celui qui “troue le Savoir”, comme le dit Badiou, ou qui bouleverse la situation cognitive établie dans un système humain quelconque, dirions nous. Mais est-ce si simple? Gênes 2001 a-t-il été un événement ou pas? Et que dire du 11 septembre?
En tout cas on ne voit pas bien ou nous amènerait suivre cette direction pour décider que la pensée chez Badiou a le statut d’événement...
2) D’ailleurs Badiou doit avoir au moins une théorie sur les propriétés de la pensée, car il la dit “unique”:
Il est à mon sens erroné de dire que deux orientations différentes prescrivent deux mathématiques différentes, soit deux pensées différentes. C’est à l’intérieur d’une pensée unique que s’affrontent les orientations.
Mais en sus de son unicité la pensée a d’autres propriété ou est-elle ce que J.C. Milner appelle une «pensée sans qualité» ? Pourquoi ne pas s’attarder sur la nature de l’unicité de la pensée? Cette notion posée comme intuitive (Badiou ne l’explique pas du tout), si elle était expliquée nous permettrait sans doute de supposer que Badiou n’est pas loin de croire à la réalité de quelque chose comme un “langage de l’esprit” à la Jerry Fodor, Steven Pinker et d’autres cognitivistes. Cette hypothèse nous permettrait peut-être de confronter le discours de Badiou avec celui des sciences cognitives. Cela nous semblerait très intéressant. Mais le discours de Badiou devrait pouvoir se confronter (si ce n’est aux sciences de la nature) au moins au monde sensible et à la sphère intentionnelle, bannie par Badiou, et rien n’est moins certain que cette confrontation soit possible (ni même désirée par Badiou).
Avec l’affirmation parménidienne, tardive et quelque peu étonnante (vu son matérialisme dialectique mathématisé des années soixante-dix), selon laquelle l’être est le même que la pensée , c’est comme si Badiou renonçait à jamais à formuler des propositions empiriquement contrôlables qui se référeraient à la pensée.
3) A propos de son orientation, Badiou attribue à la pensée trois directions possibles : a) une orientation “grammairienne ou programmatique”, b) une “doctrine déployée des indiscernables”, c) une “logique de la transcendance”. Ces trois orientations de la pensée sont justifiées de façon non-empirique , et elles se trouvent en correspondance, respectivement, avec
la doctrine des ensembles constructibles, créée par Gödel et raffinée par Jensen [...] la doctrine des ensembles génériques, créée par Cohen [...] la doctrine des grands cardinaux, à laquelle ont contribué tous les spécialistes de la théorie des ensembles. [Badiou trouve aussi des correspondances, respectivement, avec la philosophie de Leibniz, celle de Rousseau et] toute la métaphysique classique [...] fût-ce sous le mode de l’eschatologie communiste.
Dans le Court traité d’ontologie transitoire la théorie des orientations de la pensée est reprise avec plus de clarté:
Il faudrait donc disposer d’une théorie des orientations dans la pensée, comme territoire réel de ce qui peut activer la pensée mathématique comme pensée. (…) Ces orientations sont l’orientation constructiviste, l’orientation transcendante, l’orientation générique.
La première norme l’existence par des constructions explicites et, en définitive, subordonne le jugement d’existence à des protocoles langagiers finis et contrôlables. Disons que toute existence se soutient d’un algorithme, qui permet d’atteindre effectivement un cas de ce dont il s’agit.
La deuxième, la transcendante, norme l’existence par l’admission de ce qu’on peut appeler une surexistence, ou un point de bouclage hiérarchique qui dispose en deçà de lui-même l’univers de tout ce qui existe. Disons que, cette fois, toute existence s’inscrit dans une totalité qui lui assigne une place.
La troisième pose que l’existence est sans norme, sinon la consistance discursive. Elle privilégie les zones indéfinies, les multiples soustraits à toute récollection prédicative, les points d’excès et les donations soustractives. Disons que toute existence est prise dans une errance qui fait diagonale pour les montages supposés la surprendre.
On a l’impression de comprendre, mais, au juste, après tout qu'est-ce que c'est une orientation de la pensée?
Dans le Court traité Badiou propose une pseudo-définition: une orientation de la pensée serait
une norme immanente qui ne constitue pas la pensée, mais l’oriente. Nous appellerons orientation dans la pensée ce qui règle dans cette pensée les assertions d’existence. Soit ce qui, formellement, autorise l’inscription d’un quantificateur existentiel en tête d’une formule qui fixe les propriétés qu’on suppose à une région d’être. Ou ce qui, ontologiquement, fixe l’univers de la présentation pure du pensable. Une orientation dans la pensée s’étend non seulement aux assertions fondatrices, ou aux axiomes, mais aussi aux protocoles démonstratifs, dès que leur enjeu est existentiel (nous soulignons).
Ce n’est pas une véritable définition car Badiou dit, de façon parfaitement circulaire, qu’une orientation dans la pensée est ce qui oriente la pensée. Est-ce cela qu’entend Badiou disant qu’une pensée axiomatique ne définit pas ses termes? Pourtant il y a bien quelque chose comme une définition négative: une orientation de la pensée est «une norme immanente qui ne constitue pas la pensée». Or, les normes constitutives étant celles qu’on ne peut pas transgresser par définition: par exemple, dans le jeux des échecs le cheval ne peut pas bouger comme la reine, et le joueur qui l’ignore ne pourrait pas jouer au même jeu. La pensée pour Badiou serait donc quelque chose qui ne pourrait pas avoir affaire à des normes constitutives mais bien à des normes non-constitutives, parmi lesquelles il y aurait les orientations? On en sait rien.
Les réponses à ces questions seraient liées à la théorie badiousienne de la pensée, sauf que cette théorie n’est pas explicitée.
Conclusion.
La dernière parole parménidienne de Badiou selon laquelle l’être est le même que la pensée nous laisse soupçonner que le discours badiousien est en train de devenir de plus en plus clos, et qu’à sa mise entre parenthèses du monde ontique s’ajoute désormais la suspension volontaire d’un concept et d’un sens transmissibles de la pensée (comme de la philosophie).
Nous avons voulu parcourir quelques lieux de l’ouvrage très riche et complexe de notre philosophe. Nous savons que notre reconstruction de ce système de pensée n’a pas beaucoup de chances pour ne pas déplaire aux interprètes plus proches de Badiou, parmi lesquels nous avons été quelque temps, sans doute de façon inadéquate. Pourtant il nous semblait important de faire voir qu’en dépit de plusieurs éléments intéressants, à notre avis, de cette philosophie, l’architecture globale reste gravement affaiblie par une fondation inconsistante d’origine ouvertement lacanienne.
D’après Robert Nozick les systèmes philosophiques peuvent ressembler soit à une tour à la fondation mince et friable (on construit sur les intuitions philosophiques initiales comme si tout devait être déduit du Principe), soit à un temple grec comme le Parthénon, dont les colonnes sont les différentes intuitions sur lesquelles on bâtit une architrave de propositions philosophiques qui peuvent rester valables et intéressantes même après l’écroulement de certaines parties du temple. Des propositions de quelque façon déliées de la prétendue fondation.
Or, prolongeant cette belle image, il nous semble que le système de Badiou ressemblerait à une sorte de pyramide puissante et solide mais, hélas, entièrement bâtie sur un seul point presque inexistant.
Ça ne doit pas être un hasard si pour Badiou le réel est justement un point impossible.
Sono saltate le note a pié di pagina e scomparsi i simboli matematici. Prima o poi rimedierò.
1. Le discours philosophique de Badiou est totalement déterminé par la figure de Heidegger
Il faut être formblind pour penser que l’ontologie heideggérienne soit, dans un sens quelconque, fondamentale.
(Mulligan K., Métaphysique et ontologie)
Alain Badiou a posé au commencement de L’être et l’événement que «Heidegger est le dernier philosophe universellement reconnaissable» (p.7) et que «"l’ontologie" philosophique contemporaine est entièrement dominée par le nom de Heidegger» (p.15). Il reçoit ainsi comme acquise la filiation heideggérienne propre d’une grande partie de la philosophie dite “continentale”.
Il est vrai que selon Badiou il faudrait dépasser Heidegger, dont le style de pensée resterait pris dans le régime poétique, un régime somme toute fondé sur la présence en dépit du projet anti-métaphysique du philosophe allemand.
Mais, faisant de Heidegger le dernier Philosophe de ce qu’il appelle le “référentiel contemporain”, c’est-à-dire le paradigme philosophique dominant, Badiou ne s’éloigne pas des confins de ce qu’il appelle lui-même l’historicisme de la philosophie. A ce propos, dans Conditions il a affirmé que :
1. La philosophie est aujourd’hui paralysée par le rapport à sa propre histoire.
Cette paralysie résulte de ce que, examinant philosophiquement l’histoire de la philosophie, nos contemporains sont presque tous d’accord pour dire que cette histoire est entrée dans l’époque, peut-être interminable, de sa clôture. (...) Ou alors la philosophie n’est justement plus que sa propre histoire, elle devient le musée d’elle-même. (...) L’idée dominante est que la métaphysique est historiquement épuisée, mais que l’au-delà de cet épuisement ne nous est pas encore donné. (...)
2. La philosophie doit rompre, de l’intérieur d’elle-même, avec l’historicisme.
Rompre avec l’historicisme, quel est le sens de cette injonction ? Nous voulons dire que la présentation philosophique doit s’autodéterminer initialement sans référence à son histoire. Elle doit avoir l’audace de présenter ses concepts sans les faire préalablement comparaître devant le tribunal de leur moment historique .
On pourrait consentir avec Badiou si l’on référait ce diagnostic à la philosophie continentale. La philosophie analytique, au contraire, se caractérise par un rapport tout d’abord théorique aux concepts et aux problèmes philosophiques, l’histoire des idées n’étant pas méconnue ni refoulée, mais ne bornant pas la liberté d’analyse théorique des concepts et des problèmes philosophiques. Cela nous semble suffisant pour admettre que “la philosophie” ne se trouve pas dans la nécessité de sortir ni de l’historicisme, ni de la métaphysique. Les affirmations “épocales” à ce propos ne sont que l’effet d’un certain style de pensée philosophique, dont les propositions peuvent bien être évaluées à la lumière de quelques critères de vérité.
Or, si Heidegger posait que la métaphysique coïnciderait avec l’oubli de l’être dont on peut encore espérer sortir par la voie poétique, Badiou n’accepte pas cette position du Dernier Philosophe:
Heidegger pense que nous sommes historialement régis par l’oubli de l’être, et même par l’oubli de cet oubli. Je proposerai pour ma part un violent oubli de l’histoire de la philosophie, donc un violent oubli de tout le montage historial de l’oubli de l’être .
Il faut oublier Heidegger, et avec violence. Pour dépasser l’historicisme philosophique fondé sur le langage poétique et sur le privilège de la présence, Badiou déclare que : a) les mathématiques sont l’ontologie ; b) le nom propre de l’être-en-tant-qu’être est l’ensemble vide.
Fixons tout de suite le fait qu’il s’agit de deux postulats méta-ontologiques.
2. La thèse : les mathématiques sont l’ontologie, est méta-ontologique. Elle ne vise pas le monde mais le discours
Au moins jusqu’à L’être et l’événement, Badiou renonçait explicitement au discours philosophique sur le monde:
La thèse que je soutiens ne déclare nullement que l’être est mathématique, c'est-à-dire composé d’objectivités mathématiques. C’est une thèse non sur le monde, mais sur le discours. Elle affirme que les mathématiques, dans tout leur devenir historique, prononcent ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être (nous soulignons).
Ce qui peut être dit dans le domaine ontologique peut se dire en mathématiques. L’“onto-mathématique” remplace le langage naturel, et même celui artificiel, dans l’expression de ce qui est dicible de l’être-en-tant-qu’être. Badiou ne s’engage pas dans la thèse selon laquelle l’être serait intrinsèquement mathématique, mais l’effet rhétorique de son discours est souvent celui de laisser oublier au lecteur que ce dont on parle est le discours ontologique, donc la mathématique, et nullement le monde en soi.
Mais quel est, à l’intérieur du système de pensée de Badiou, le rapport entre le discours méta-ontologique (la philosophie) et le monde (réel), entre l’ontologie (les mathématiques) et le monde, et finalement entre l’ontologie et la méta-ontologie? Finalement, la relation entre l’ontologique et l’ontique, entre le langage formel mathématique et le monde, à l’intérieur du système de Badiou reste une question mystérieuse.
Mais ce ne peut pas être un hasard le fait que Badiou n’affronte pas cette question par lui-même. Badiou ne s’engage nullement dans une analytique du Dasein heideggérien et de son être au monde . Il y a chez notre philosophe quelque chose comme un refoulement de l’ontique, de l’empirique, et nous croyons que l’on n’a pas suffisamment remarqué cette question philosophique, à notre avis évidente et majeure.
3. L’être-en-tant-qu’être et l’ensemble vide
On peut soutenir que l’expression aristotélicienne à la base de l’histoire de la métaphysique, “être-en-tant-qu’être”, n’a pas de sens, du moins si on ne s’explique pas sur la référence de l’expression, commençant par “être”.
Depuis Quine, ce qu’on pourrait appeler la “déontologie de l’ontologie” prévoit qu’on déclare sur quoi on est disposé à quantifier .
Selon la suggestion du philosophe analytique italien Achille Varzi , si l’on pose que pour tous les êtres il y a des propriétés p telles que tous les êtres les possèdent, on pourrait se référer à ces propriétés générales avec l’expression “être-en-tant-qu’être”.
Lisant L’être et l’événement on peut comprendre que l’être-en-tant-qu’être est pour Badiou le fondement des portions des situations structurées qui constituent la texture générale de tout exprimable individualisé par l’“opération” du compte-pour-un . Tout ce qui est, est consistant et son identité est déterminée. “Etre” signifie “être-un”, mais comme l’un n’existe pas (cfr. infra, §4) être signifie être “compté-pour-un”, être intentionné comme un tout. “Avant” d’être compté-pour-un, ce qui apparaît n’est qu’un ensemble (multiple) inconsistant, (encore) sans identité.
C’est la façon de Badiou d’installer dans sa philosophie l’ontologie du non-étant propre de Lacan , en tant que doctrine capable de visualiser une (imaginaire) pré-situation ontologique en amont de l’apparaître des étants. Mais cette ontologie de l’absence des entia, ou “mé-ontologie”, est une ontologie seulement possible et la poser en forme de système d’axiomes ne suffit pas à lui conférer une force universelle.
D’après nous les problèmes philosophiques liés au verbe “être” doivent tout d’abord subir une analyse grammaticale. Suivant Carnap, les distinctions fondamentales à faire sont les suivantes:
[“être”] joue tantôt le rôle de copule pour un prédicat (je suis affamé), tantôt celui d’indicateur d’existence («je suis»). (...) la forme du verbe pris dans sa seconde acception, celle de l’existence (...) produit l’illusion d’un prédicat, là où il n’y en a pas. Or, on sait depuis longtemps que l’existence n’est pas un caractère attributif (...) La forme logique dans laquelle [la logique moderne] introduit le signe de l’existence est telle que ce signe ne peut pas se rapporter à des signes d’objets comme peut le faire un prédicat, il ne peut se rapporter qu’à un prédicat (...). Un énoncé existentiel n’est pas dans la forme «a existe» (...) mais: «il existe une chose dont la nature est telle ou telle» .
Premièrement, donc, il faut distinguer «être» comme marque d’existence et comme copule. Deuxièmement, en sus du verbe être (i) la langue française dispose d’un substantif l’étant (ii) et d’un autre substantif l’être (iii). Il faut fixer que Badiou parle toujours de l’être dans cette troisième acception, ce qui est dans le sillage de l’orthodoxie heideggérienne.
Or, pour Badiou l’être est formalisé par la marque de l’ensemble vide: “”. Badiou n’argumente pas la rationalité de cette formalisation qui pourtant implique une portée ontologique de la formalisation même. On perçoit vaguement qu’au fondement de cette idée il y a une analogie entre l’ensemble vide mathématique et l’être-en-tant-qu’être (qui dans la perspective heideggérienne est l’être-qui-n’est-pas-l’être-des-étants). Mais si la thèse « est le nom propre de l’être» sur laquelle se fonde le système de Badiou nous paraissait dépourvue de sens?
En effet, si l’expression “être-en-tant-qu’être” signifiait quelque chose, il faudrait pourtant justifier pourquoi se référer à cette signification avec un symbole mathématique qui n’a pas de signification en dehors du formalisme mathématique. Ce couplage du symbolisme mathématique avec l’ontologie d’origine aristotélicienne n’est pas soutenu par des arguments explicites.
Badiou ne dit pas que l’ensemble vide serait l’être, ce qui ferait apparaître clairement le non-sens de la thèse. Mais de toute façon parler du “nom propre” de l’être (“être” dans notre acception iii) ne va pas de soi. La marque de l’ensemble vide () est prise ici dans sa suppositio materialis pour en proclamer la référence à l’être (iii) pris, lui, dans sa suppositio formalis. C’est une stratégie de pensée quelque peu rusée, car il n’y a pas de vrai glissement entre le denotans et le denotatum , mais on ne s’efforce pas d’empêcher l’illusion qu’il y en ait un et qu’il soit considéré valable (comme si Badiou disait que l’ensemble vide est l’être ou que l’être est l’ensemble vide). En effet l’être n’est pas l’ensemble vide, ce qui laisserait complètement ouverte la question de ce que c’est l’être. Badiou ne s’en occupe pas, il ne s’occupe que de son nom propre.
4. L’Un et le rien
Dans L’être et l’événement deux pseudo-arguments sont invoqués en support de la thèse que serait le nom propre de l’être.
a) «Il n’y a pas d’un» : Badiou argumente que l’unité et l’identité de chaque étant n’est qu’un effet ontologique de ce qu’il appelle le compte-pour-un:
il n’est cependant pas question de céder sur ce que Lacan épingle au symbolique comme son principe: il y a de l’un. (...) Ce qu’il faut énoncer c’est que l’un, qui n’est pas, existe seulement comme opération. Ou encore : il n’y a pas d’un, il n’y a que le compte-pour-un. [...] Il convient de prendre tout à fait au sérieux que «un» soit un nombre. Et, sauf à pythagoriser, il n’y a pas de lieu de poser que l’être, en tant qu’être, soit nombre.
«L’un n’est pas» et «il n’y a pas d’un» ne sont pas des propositions douées de sens: “un”, en tant que substantif, est un nom de nombre naturel, et la grammaire (au sens de Wittgenstein) d’un nom de nombre ne supporte pas une prédication d’existence si ce n’est à l’intérieur d’une ontologie pythagoricienne, explicitement refusée par Badiou. A propos de ce genre de problèmes syntaxiques, Carnap proposait d’adopter une “théorie des types” dans une langue artificielle correcte afin d’éliminer d’emblée la possibilité de former des “simili-énoncés” comme «César est un nombre premier».
b) Le deuxième argument vise le néant. Badiou soutient la dicibilité d’un certain type de rien. Réellement il n’y a pas du néant, mais il y en a au niveau formel, car le néant est désigné par une forme mathématique:
(…) l’être-rien se distingue tout autant du non-être que le « il y a » se distingue de l’être. (…) il y a un être du rien, en tant que forme de l’imprésentable.
D’après nous opposer “l’être-rien” et “le non-être” ce n’est qu’un jeu linguistique philosophique, un jargon dépourvu de sens non-philosophique. “Etre-rien” est une expression dépourvue de sens précis, si ce n’est le même que n’avoir pas de propriétés dicibles. Le seul sens non rigoureux que nous pouvons y attribuer est du genre mystique : cela n’est pas méprisable en soi mais il nous semble que pour le valider il faudrait un contexte philosophique et rhétorique différent de celui de Badiou.
L’expression (dépourvue de sens) “le non-être”, n’est que la susbtantivation d’une négation apposée au substantif “l’être” (dans notre acception iii). Depuis Parménide l’on sait qu’il y a ici un danger pour l’analyse. Non-être est une expression équivalente à néant. Et, comme le reprochait Carnap à Heidegger, il y a une erreur
qui consiste à prendre le mot «Néant» pour le nom d’un objet, parce qu’on l’utilise sous cette forme dans la langue usuelle pour formuler un énoncé existentiel négatif (...). En revanche dans une langue correcte on obtient le même but, en se servant non pas d’un nom particulier, mais d’une forme logique spécifique de l’énoncé.
Un commentaire de Quine sur le terme “rien” nous semble présenter le problème le plus clairement possible:
Un terme singulier indéfini dont l’ambiguïté a spécialement invité à la confusion, réelle et feinte, est «rien» ou «personne». Comme boutade terne, la formule est assez familière, ainsi dans la chanson de Gershwin «j’ai une abondance de rien» [...] ou dans ce passage de Lewis Carroll: «J’ai dépassé personne dans la rue – Alors personne marche plus lentement que vous». Locke lui-même, si nous admettons l’interprétation peu généreuse de la part de Hume, serait tombé sans rire dans la même confusion lorsqu’il a défendu le principe universel de causalité, en arguant que, si un événement manque de cause, il doit avoir «rien» pour cause, ce qui ne peut pas être une cause. Heidegger, si nous pouvons le lire de manière littérale, a été abusé par la même confusion dans sa déclaration «Das Nichts nichtet». Et Platon, paraît avoir eu des difficultés avec Parménide au sujet de ce petit sophisme.
Ce qui est troublant au sujet du terme singulier indéfini «rien», c’est sa tendance à prendre le masque d’un terme défini.
On ne peut donc pas savoir, du moins si on ne définit pas des critères de signification (que Badiou ne définit pas) ce que c’est que “l’imprésentable”, et donc sa forme.
Les arguments a) et b), essentiels au dispositif de L’être et l’événement, ne respectent donc pas la grammaire naturelle des termes “un” et “rien” : on pourrait fixer une grammaire artificielle pour des raisons stylistiques mais alors il faudrait les énoncer pour se faire comprendre.
L’argument b) est celui qui porte le poids majeur: faire de le nom de l’être-en-tant-qu’être permet le déploiement du discours méta-ontologique de L’être et l’événement.
La thèse "les mathématiques sont l’ontologie" est donc fondée sur la position invérifiable (car soustraite à toutes questions de sens empiriquement contrôlable) de ce qu’on pourrait appeler le sens de l’être de l’ensemble vide .
5. En tout cas les mathématiques ne sont pas l’ontologie
Il faut se méfier de la face «naïve» du formalisme et du mathématisme, dont l’une des fonctions secondaires a été, ne l’oublions pas, dans la métaphysique, celle de compléter et de confirmer la théologie logocentrique qu’ils pouvaient contester d’autre part.
Jacques Derrida, Positions
Le contenu de la définition que Badiou donne de l’ontologie serait peut-être recevable pourvu qu’on réussisse à lui attribuer un sens compréhensible et précis en dehors du jargon idiosyncrasique de Badiou. Comme le dit Bouveresse :
Dans le cas des énoncés philosophiques, la question est donc moins de savoir s’ils n’ont pas de sens en eux-mêmes que de savoir si nous avons réussi et même simplement cherché à leur en donner un.
Finalement, selon nous, on ne peut peut-être pas parvenir à donner un sens à l’assertion selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie. Cela pour au moins deux raisons: a) cette assertion est basée sur la position que est le nom propre de l’être-en-tant-qu’être, ce qui finit par signifier l’identification de (la dicibilité de) l’être-en-tant-qu’être avec (les propriétés mathématiques de) l’ensemble vide. Au début il y a la position selon laquelle l’être est ineffable en dehors de ses formes mathématiques, mais c’est une position jamais déclarée et qu’il faudrait éclaircir; b) l’ontologie et la métaphysique n’ont pas nécessairement à parler de la Différence Ontologique entre l’Être et les étants, à moins de vouloir poursuivre (mais alors pour quels fins?) la fabulation de Heidegger.
L’expression “être-en-tant-qu’être” devrait traduire le tò òn è òn aristotélicien. Comme le dit le philosophe analytique italien Achille Varzi :
dans un certain sens l’expression est vide [même si] il y a un sens dans lequel l’ontologie peut être raisonnablement définie comme la science de l’être en tant qu’être: elle s’occupe de ces propriétés générales et structurelles qui caractérisent tout ce qui existe, indépendamment de ce qui existe. Dans ce sens elle s’occupe de ce qui existe simplement en tant qu’il existe. Par exemple, les relations de dépendance ontologique qui subsistent entre les parties et le tout constituent un sujet d’enquête indépendamment de la nature des entités en question.
La thèse selon laquelle les mathématiques sont l’ontologie se fonde (et ne se fonde que) sur une redéfinition radicale, une paraphrase révolutionnaire, du sens du terme “ontologie”. Qu’en est-il alors de l’ontologie “réaliste” (anti-kantienne) qui s’occupe du monde empirique et des mondes possibles ?
Il résulte qu’il est impossible de discuter cette thèse sans employer le mot ontologie dans le même sens de Badiou. A moins d’accepter pleinement son jargon, il faut avouer que l’assertion « les mathématiques sont l’ontologie » est dépourvue de sens. Badiou n’a pas de raisons pour affirmer cette thèse si ce n’est son désir de traduire l’anti-métaphysique heideggérienne en des termes mathématiques dans le style lacanien.
La proposition « les mathématiques sont l’ontologie » est en effet proposée alternativement comme un “énoncé philosophique” , une “thèse” , une “hypothèse” , une “assertion” : c’est dire que, au moins au niveau terminologique, le statut assertif n’est pas clair. La seule chose que Badiou garantit est que cette proposition méta-ontologique est
rendue nécessaire par la situation actuelle cumulée des mathématiques (après Cantor, Gödel et Cohen) et de la philosophie (après Heidegger).
On nous permettra de douter que cette nécessité soit réelle. Si l’on accepte qu’il y a d’autres ontologies que celles de l’être-en-tant-qu’être, l’assertion les mathématiques sont l’ontologie n’est pas valable, ni au niveau descriptif ni au niveau prescriptif. Badiou a certes des raisons pour affirmer sa thèse, dans son propre jeu de langage, mais tout à fait relativement et sans aucune prétention de véridicité. Il affirme d’ailleurs avec clarté et honnêteté que
le mode propre sur lequel une philosophie convoque une expérience de pensée dans son espace conceptuel relève strictement, non de la loi supposée de l’objet, mais des objectifs et des opérateurs de cette philosophie elle-même.
Voici à titre d’exemple un passage qui affiche l’impossibilité d’argumenter la thèse "les mathématiques sont l’ontologie" :
Quelle que soit la prodigieuse diversité des «objets» et des structures mathématiques, ils sont tous désignables comme des multiplicités pures édifiées, de façon réglée, à partir du seul ensemble vide. La question de la nature exacte du rapport des mathématiques à l’être est donc entièrement concentrée – pour l’époque où nous sommes – dans la décision axiomatique qui autorise la théorie des ensembles (nous soulignons).
Le “donc” n’indique pas du tout une déduction valide: que la théorie des ensembles permette la transcription des mathématiques dans le langage ensembliste n’implique aucunement que les mathématiques “expriment l’être”, sauf à poser que ce qu’on appelle depuis Aristote l’être-en-tant-qu’être trouve une parfaite correspondance en mathématique par cet objet théorique qu’est l’ensemble vide (mais alors comment?).
Les mathématiques sont l’ontologie est une affirmation injustifiée au niveau théorique comme au niveau empirique et historique. Badiou prétend justifier sa position armé de la notion de décision (ou pensée) axiomatique:
Mais qu’est-ce qu’une pensée qui ne définit jamais ce qu’elle pense ? Qui donc ne l’expose jamais comme objet ? Une pensée qui même s’interdit de recourir, dans l’écriture qui l’enchaîne au pensable, à quelque nom que ce soit de ce pensable ? C’est, évidemment, une pensée axiomatique. Une pensée axiomatique saisit la disposition de termes non définis. Elle ne rencontre jamais ni une définition de ces termes ni une explicitation praticable de ce qui n’est pas eux. Les énoncés primordiaux d’une telle pensée exposent le pensable sans le thématiser .
Il nous semble que l’idée d’une pensée qui procède exclusivement par des termes non-définis soit complètement imaginaire (d’autant plus que Badiou définit plusieurs termes).
6. Ontologie et métaphysique analytiques.
En matière d’ontologie il n’y a pas que Heidegger. Il existe aussi une “métaphysique analytique”. Les philosophes analytiques et les cognitivistes ont en matière d’ontologie des idées bien différentes que celles de Badiou. Pour les philosophes analytiques qui ont essayé de “régimenter” le langage naturel (Quine) ou pour ceux qui ont étudié le langage commun (Austin, Searle) on ne peut pas proférer des phrases comme «le néant néantit», si ce n’est à l’intérieur d’un jeu de langage particulier qui correspond à une forme de vie particulière (le philosophe académique français).
Dans l’absence de critères de significations explicites et partagés il ne peut pas y avoir de signification, ni de signification philosophique possible, et l’ontologie peut se faire la fabula heideggérienne d’un Être oublié.
Qu’est-ce que c’est l’ontologie du point de vue analytique? Voici deux définitions possibles:
L’ontologie, en tant que branche de la philosophie, est la science de ce qui est, des types et des structures des objets, des propriétés, des événements, des processus et des relations qui ont lieu dans chaque région de la réalité. « Ontologie » est souvent employé par les philosophes comme synonyme de « métaphysique » [...]
Parfois « ontologie » est employé en un sens plus large, pour désigner l’étude de ce qui peut exister, lorsque « métaphysique » est employé pour l’étude de ce qui, parmi les différentes alternatives possibles, correspond à la réalité .
En effet, si la métaphysique [...] s’occupe fondamentalement de la nature ultime de tout ce qui existe, revient aussi à la métaphysique la tâche préliminaire d’établir qu’est-ce qui existe, ou du moins de fixer des critères pour établir ce que serait raisonnable d’inclure dans un inventaire précis du monde. La mise au point de tels critères définit justement la question ontologique [...] .
Ici ce n’est pas question d’être-en-tant-qu’être: l’ontologie est définie comme la science de ce qui existe. La philosophie analytique, que Badiou désigne comme le “tournant langagier” de la philosophie, enquête autour des propriétés des choses du monde réel et des mondes possibles. Ce qui implique que le réel ne soit pas “l’impossible” lacanien, mais un champ d’enquête pour cette discipline rigoureuse qu’est l’ontologie analytique.
Voici un petit catalogue, fourni par Kevin Mulligan, de questions propres de la métaphysique et de l’ontologie du point de vue analytique:
Qu'est-ce que c’est exister ?
Qu'est-ce que c’est une substance ?
Qu'est-ce que c’est un tout ?
Qu'est-ce que c’est une relation ?
Qu'est-ce que c’est la dépendance ?
Qu'est-ce que c’est la causalité ?
Qu'est-ce que c’est une propriété ?
Qu'est-ce que c’est un état ?
Qu'est-ce que c’est l’identité ?
Qu'est-ce que c’est un type ?
Qu'est-ce que c’est la survenance ?
Une ontologie qui enquête les «types d’objets et leurs structures, les propriétés, les événements, les procédures et les relations dans toute partie de la réalité » contraint à se procurer une doctrine du sensible.
Cela requerrait sans doute d’autres instruments philosophiques que ceux choisis par Badiou.
7. L’ontologie de Badiou entraîne beaucoup de problèmes relatifs à ce qui n’est pas mathématisable. L’exemple de la pensée.
Un point très insatisfaisant pour nous de la philosophie de Badiou est le fait qu’elle ne se prononce jamais sur la nature de la pensée et n’analyse pas suffisamment cette notion centrale de la philosophie.
L’ontologie-mathématique permettrait selon Badiou de choisir sa propre «orientation de/dans la pensée». L’oscillation entre les prépositions “de” et “dans” semble symptomatique du fait que Badiou ne décide pas sur la nature de la pensée. La pensée semble être un certain «dedans» (orientation de: la pensée a une orientation métaphorique vers des objets noétiques) et aussi un certain «dehors» (orientation dans: la pensée comme élément immatériel, finalement le même que l’être).
On comprend que dans le lexique conceptuel de Badiou l’orientation de/dans la pensée est l’origine des choix ontologiques, c'est-à-dire du choix, conscient ou inconscient, d’une ontologie-mathématique plutôt que d’une autre.
Quelques questions majeures se posent pourtant: 1) s’il existe quelque chose de semblable, qu'est-ce que c'est la pensée pour Badiou?; 1.bis) si ce n’est pas une chose mais un événement, quels sont les critères d’identités de cet événement particulier (différent de tout autre événement) que serait la pensée? ; 2) (si c’est bien une chose) quelles seraient les propriétés de la pensée? ; 3) qu'est-ce que ce serait une propriété de la pensée comme une orientation?
Voyons quelque possibilité de réponse.
1) Il est vrai que Badiou revendique pour une pensée “axiomatique” le droit de ne pas définir ce qu’elle pense, mais la notion de pensée reste ainsi bien mystérieuse. Une citation peut nous orienter dans la théorie implicite de Badiou sur la pensée:
Une pensée n’est rien d’autre que le désir d’en finir avec l’exorbitant excès de l’état (...) La pensée est, proprement, ce que la dé-mesure [entre un ensemble et l’ensemble de ses parties], ontologiquement attestée, ne peut satisfaire. L’insatisfaction, cette loi historique de la pensée dont la cause gît où l’être n’est plus exactement dicible, se donne communément dans trois grandes tentatives de parer à l’excès (...) Car c’est bien, dans le désir qu’est la pensée, de l’injustice innombrable de l’état qu’il est question.
Que la pensée soit un désir, ce n’est qu’une métaphore. Il nous semble bien difficile pour un philosophe contemporain de ne pas se confronter avec les connaissances scientifiques actuelles en matière d’esprit et de cerveau, lorsqu’on parle de pensée en philosophie. Badiou ne se confronte pas du tout avec la philosophie contemporaine de l’esprit, ce qui rend sa théorie de la pensée assez idiosyncrasique, métaphorique, anti-scientifique, incompréhensible ou impossible à souscrire.
Pour une ontologie analytique, soit la pensée n’est rien, soit elle est une chose ou une propriété ou un événement.
Même voulant rester à l’intérieur du système de Badiou, on peut se demander si la pensée, dans le cas où elle est une chose, fait partie du monde ou pas, c’est-à-dire si c’est une chose sensible ou une chose abstraite.
Si la pensée faisait partie du monde sensible, ni l’ontologie-mathématique ni la méta-ontologie de Badiou ne pourraient pas en traiter, la première ne prononçant que, la seconde ne se prononçant que sur, les formes de l’être-en-tant-qu’être, et non pas sur les étants.
Dans cette perspective, étant donné qu’il n’a pas d’indices pour imaginer que pour Badiou la pensée soit une chose abstraite comme un nombre ou une propriété, elle deviendrait probablement quelque chose comme une condition de pensabilité-dicibilité du monde, donc un transcendantal, atteint par l’ineffabilité propre des transcendantaux kantiens.
1.2) Si la pensée était un événement, il faudrait poser la question de ses critères d’identification, comme le fait Slavoj Zizek dans son The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology. Comment distinguer un événement d’un non-événement qui pourrait être proclamé tel par quelque pseudo-sujet événementiel?
La réponse ici semble simple : le véritable événement est celui qui “troue le Savoir”, comme le dit Badiou, ou qui bouleverse la situation cognitive établie dans un système humain quelconque, dirions nous. Mais est-ce si simple? Gênes 2001 a-t-il été un événement ou pas? Et que dire du 11 septembre?
En tout cas on ne voit pas bien ou nous amènerait suivre cette direction pour décider que la pensée chez Badiou a le statut d’événement...
2) D’ailleurs Badiou doit avoir au moins une théorie sur les propriétés de la pensée, car il la dit “unique”:
Il est à mon sens erroné de dire que deux orientations différentes prescrivent deux mathématiques différentes, soit deux pensées différentes. C’est à l’intérieur d’une pensée unique que s’affrontent les orientations.
Mais en sus de son unicité la pensée a d’autres propriété ou est-elle ce que J.C. Milner appelle une «pensée sans qualité» ? Pourquoi ne pas s’attarder sur la nature de l’unicité de la pensée? Cette notion posée comme intuitive (Badiou ne l’explique pas du tout), si elle était expliquée nous permettrait sans doute de supposer que Badiou n’est pas loin de croire à la réalité de quelque chose comme un “langage de l’esprit” à la Jerry Fodor, Steven Pinker et d’autres cognitivistes. Cette hypothèse nous permettrait peut-être de confronter le discours de Badiou avec celui des sciences cognitives. Cela nous semblerait très intéressant. Mais le discours de Badiou devrait pouvoir se confronter (si ce n’est aux sciences de la nature) au moins au monde sensible et à la sphère intentionnelle, bannie par Badiou, et rien n’est moins certain que cette confrontation soit possible (ni même désirée par Badiou).
Avec l’affirmation parménidienne, tardive et quelque peu étonnante (vu son matérialisme dialectique mathématisé des années soixante-dix), selon laquelle l’être est le même que la pensée , c’est comme si Badiou renonçait à jamais à formuler des propositions empiriquement contrôlables qui se référeraient à la pensée.
3) A propos de son orientation, Badiou attribue à la pensée trois directions possibles : a) une orientation “grammairienne ou programmatique”, b) une “doctrine déployée des indiscernables”, c) une “logique de la transcendance”. Ces trois orientations de la pensée sont justifiées de façon non-empirique , et elles se trouvent en correspondance, respectivement, avec
la doctrine des ensembles constructibles, créée par Gödel et raffinée par Jensen [...] la doctrine des ensembles génériques, créée par Cohen [...] la doctrine des grands cardinaux, à laquelle ont contribué tous les spécialistes de la théorie des ensembles. [Badiou trouve aussi des correspondances, respectivement, avec la philosophie de Leibniz, celle de Rousseau et] toute la métaphysique classique [...] fût-ce sous le mode de l’eschatologie communiste.
Dans le Court traité d’ontologie transitoire la théorie des orientations de la pensée est reprise avec plus de clarté:
Il faudrait donc disposer d’une théorie des orientations dans la pensée, comme territoire réel de ce qui peut activer la pensée mathématique comme pensée. (…) Ces orientations sont l’orientation constructiviste, l’orientation transcendante, l’orientation générique.
La première norme l’existence par des constructions explicites et, en définitive, subordonne le jugement d’existence à des protocoles langagiers finis et contrôlables. Disons que toute existence se soutient d’un algorithme, qui permet d’atteindre effectivement un cas de ce dont il s’agit.
La deuxième, la transcendante, norme l’existence par l’admission de ce qu’on peut appeler une surexistence, ou un point de bouclage hiérarchique qui dispose en deçà de lui-même l’univers de tout ce qui existe. Disons que, cette fois, toute existence s’inscrit dans une totalité qui lui assigne une place.
La troisième pose que l’existence est sans norme, sinon la consistance discursive. Elle privilégie les zones indéfinies, les multiples soustraits à toute récollection prédicative, les points d’excès et les donations soustractives. Disons que toute existence est prise dans une errance qui fait diagonale pour les montages supposés la surprendre.
On a l’impression de comprendre, mais, au juste, après tout qu'est-ce que c'est une orientation de la pensée?
Dans le Court traité Badiou propose une pseudo-définition: une orientation de la pensée serait
une norme immanente qui ne constitue pas la pensée, mais l’oriente. Nous appellerons orientation dans la pensée ce qui règle dans cette pensée les assertions d’existence. Soit ce qui, formellement, autorise l’inscription d’un quantificateur existentiel en tête d’une formule qui fixe les propriétés qu’on suppose à une région d’être. Ou ce qui, ontologiquement, fixe l’univers de la présentation pure du pensable. Une orientation dans la pensée s’étend non seulement aux assertions fondatrices, ou aux axiomes, mais aussi aux protocoles démonstratifs, dès que leur enjeu est existentiel (nous soulignons).
Ce n’est pas une véritable définition car Badiou dit, de façon parfaitement circulaire, qu’une orientation dans la pensée est ce qui oriente la pensée. Est-ce cela qu’entend Badiou disant qu’une pensée axiomatique ne définit pas ses termes? Pourtant il y a bien quelque chose comme une définition négative: une orientation de la pensée est «une norme immanente qui ne constitue pas la pensée». Or, les normes constitutives étant celles qu’on ne peut pas transgresser par définition: par exemple, dans le jeux des échecs le cheval ne peut pas bouger comme la reine, et le joueur qui l’ignore ne pourrait pas jouer au même jeu. La pensée pour Badiou serait donc quelque chose qui ne pourrait pas avoir affaire à des normes constitutives mais bien à des normes non-constitutives, parmi lesquelles il y aurait les orientations? On en sait rien.
Les réponses à ces questions seraient liées à la théorie badiousienne de la pensée, sauf que cette théorie n’est pas explicitée.
Conclusion.
La dernière parole parménidienne de Badiou selon laquelle l’être est le même que la pensée nous laisse soupçonner que le discours badiousien est en train de devenir de plus en plus clos, et qu’à sa mise entre parenthèses du monde ontique s’ajoute désormais la suspension volontaire d’un concept et d’un sens transmissibles de la pensée (comme de la philosophie).
Nous avons voulu parcourir quelques lieux de l’ouvrage très riche et complexe de notre philosophe. Nous savons que notre reconstruction de ce système de pensée n’a pas beaucoup de chances pour ne pas déplaire aux interprètes plus proches de Badiou, parmi lesquels nous avons été quelque temps, sans doute de façon inadéquate. Pourtant il nous semblait important de faire voir qu’en dépit de plusieurs éléments intéressants, à notre avis, de cette philosophie, l’architecture globale reste gravement affaiblie par une fondation inconsistante d’origine ouvertement lacanienne.
D’après Robert Nozick les systèmes philosophiques peuvent ressembler soit à une tour à la fondation mince et friable (on construit sur les intuitions philosophiques initiales comme si tout devait être déduit du Principe), soit à un temple grec comme le Parthénon, dont les colonnes sont les différentes intuitions sur lesquelles on bâtit une architrave de propositions philosophiques qui peuvent rester valables et intéressantes même après l’écroulement de certaines parties du temple. Des propositions de quelque façon déliées de la prétendue fondation.
Or, prolongeant cette belle image, il nous semble que le système de Badiou ressemblerait à une sorte de pyramide puissante et solide mais, hélas, entièrement bâtie sur un seul point presque inexistant.
Ça ne doit pas être un hasard si pour Badiou le réel est justement un point impossible.
G8enova per noi (un racconto mai finito)
... che ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
che ben sicuri mai non siamo
non ci inghiotte e non torniamo più.
Paolo Conte
Io mi porto il casco avevo detto a Diego, lui mi aveva detto che ero scemo e che la polizia mi avrebbe identificato come Autonomo e riempito di botte.
Non ero convinto ma alla fine ho lasciato perdere, tanto il casco non mi sarebbe servito a nulla.
Arrivare siamo arrivati tardissimo: col treno ci hanno fatti passare da Piacenza anziché da Voghera, abbiamo impiegato cinque ore, era un treno speciale perché le linee ferroviarie erano occupate dai treni speciali che venivano da tutta Italia, e c’erano forse anche cosiddetti problemi di sicurezza.
Io ero appena arrivato dalla Puglia appositamente per andare a Genova, avevo interrotto le vacanze per partecipare a quell’evento storico che immaginavo sarebbe stata Genova 2001.
La sera del mio arrivo dalla Puglia chiamo Leo e lui mi dice che quel giorno c’era stato un morto, mi sono sentito gelare il sangue e la prima cosa simile alla paura mi ha attraversato la schiena, ho pensato: questa volta fanno sul serio e siamo in pericolo.
Sono andato a casa di Leo, entrando ho incontrato Patrizia che vedevo per la prima volta. Mi è parsa subito una gran bella ragazza.
La paura mi era già passata perché mi ero detto che adesso più che mai non si poteva esitare a partire per manifestare. Avevano ucciso un compagno, un ragazzo, e nessuno poteva rinunciare a urlare in faccia agli assassini che le masse non hanno paura e agiscono anche a costo di morire.
A casa di Leo si discusse se partire o no. Leo, come me, era convintissimo di sì, però lui aveva una specie di sorridente incoscienza che mi metteva inquietudine: come se non gliene fregasse, anzi come se lo eccitasse l’idea di esporsi al pericolo. È strano come il pericolo dei fascisti possa eccitare uno come Leo, specie quando ha bevuto.
Come se la possibilità della morte diventasse eroica e giocosa se vissuta in compagnia.
Uno degli amici di Leo rinunciò a venire a Genova perché si diceva turbato e disgustato, come se con l’uccisione di Carlo Giuliani si fosse « passato davvero il segno ». Quale segno?
Silvia aveva paura, si capiva che avrebbe preferito non venire, ma Leo si divertiva a provocarla ostentando spavalderia. Io argomentavo per far colpo su Patrizia - in seguito mi ha detto che sparavo un mare di cazzate - attingevo concetti da Toni Negri, parlavo di moltitudini e di ontologia delle masse che si manifestano come tali.
Al mattino c’era il ritrovo di PRC di Milano alla stazione di Porta Garibaldi. Sul treno accanto a noi c’era un gruppo di lesbiche. La loro capa era amica di Patrizia quindi noi stavamo vicini alle lesbiche nello scompartimento, anche se quelle ci ignoravano, ma c’era un clima collettivo più grande dello scompartimento.
Io per lo più ho parlato con Leonardo: a lui piaceva la lesbica più carina accanto a me.
Dopo cinque ore di viaggio, appena scesi dal treno si è capito subito che era un casino perché non c’era uno straccio di organizzazione alla stazione di Nervi. Forse si era esaurita nella mattinata, l’accoglienza organizzata, poiché era già l’una e chissà quante migliaia di persone erano atterrate lì come noi, oppure l'organizzazione c’era ma io non l’ho vista, perché mi aspettavo qualcosa di più definito e protettivo, compagni con le scritte Genova Social Forum e cose così.
Invece sembrava lo sbaraglio e a differenza di altre manifestazioni che avevo viste in precedenza, qui si avvertiva che la disorganizzazione poteva essere molto pericolosa, come infatti è stato.
Iniziammo subito a camminare dirigendoci verso Genova città. C’era il sole faceva molto caldo, era un caldo estivo che mi sembrava strano, perché non eravamo lì per andare al mare ma per manifestare la nostra idea e personalmente volevo piangere la morte di Carlo Giuliani.
Carlo Giuliani il giorno che è morto voleva andare al mare. Indossava il costume da bagno sotto i pantaloni, perché aveva deciso di andare al mare, ma quando ha visto la violenza della polizia ha deciso di restare a combattere. Così è morto.
I primi poliziotti che abbiamo visto appena arrivati a Genova erano un piccolo gruppo, verso Nervi, ci sono passati accanto senza che succedesse niente, noi non eravamo un insieme compatto identificabile, non c’erano bandiere o altro e nessuno ha gridato assassini.
Era il nostro primo impatto con la giornata che doveva attenderci, non eravamo ancora spaventati, non mi aspettavo niente di serio e pensavo che il peggio era già successo: avevano ucciso Carlo Giuliani che altro potevano fare se non starsene tranquilli e defilati?
A un certo punto però vidi tutte le innumerevoli persone davanti fare dietro-front e iniziare a correre verso di me: mi è balzato il cuore in gola e ho iniziato a correre anch’io perché nessuno mi aveva detto che non bisogna correre, l’ho sentito dire quel giorno pochi momenti dopo, ho capito che è una questione pratica, dovresti stare fermo e contrastare il panico se no è uno sfacelo, ma naturalmente se ci fosse stata una vera carica della polizia credo che ogni disarmato avrebbe avuto il diritto di darsela a gambe. Invece non c’era nessuna carica in quel momento e tutti si sono fermati presto e hanno ricominciato a marciare in avanti un po’ più nervosi di prima della corsa.
L’atmosfera parve rasserenarsi perché nel mio gruppetto nessuno aveva sentito dire che al mattino avevano già sparato i lacrimogeni per spezzare in due il corteo e che noi eravamo alla fine del secondo spezzone. Queste cose le ho capite dopo, ma in tempo reale marciavo senza pensare, avevo paura che da un momento all’altro la gente ricominciasse a correre e mi domandavo come comportarmi.
Arrivati più in centro verso Corso Italia, dai balconi delle case ci tiravano giù l’acqua per rinfrescarci, secchiate d’acqua e tutti applaudivano alle vecchiette sui balconi che apparivano come vecchie compagne partigiane. Alcune svuotavano una bottiglia riempita d’acqua sulla folla, altre vere e proprie tinozze da cui l’acqua scendeva come pioggerella, ma era poca e tutti speravano di capitare sotto al lancio d’acqua fresca.
Non si capiva benissimo quali gruppi ci fossero, cercavo bandiere e scritte note tipo Rifondazione invece vedevo strane bandiere colorate, una in particolare mai vista prima a strisce tutte colorate giallo rosso verde azzurro ecc. Adesso so che era la bandiera della pace inventata da Aldo Capitini, ma allora non sapevo ancora che cosa significava. C’erano quelli coi tamburi molto folcloristici che battevano ritmicamente, pareva fossero brasiliani o qualcosa di simile, comunque dell’America Latina, invece dovevano essere per lo più italiani. Mi ricordo bandiere di Rifondazione, dei Cobas, di certe federazioni della Cgil, anche se la Cgil nazionale non aveva aderito, bandiere della Fiom, sapevo che c’erano molti cattolici come i mass-media avevano detto e ripetuto ma non ricordo se riuscivo a distinguerli e le famose mani bianche di Lilliput non le ho viste.
[...]
Qualcuno ha urlato incazzato: compagni fate cordone fate cordone, io ho deciso che potevo fare cordone anche se non ero dei loro. A un certo punto si è avvicinato un ragazzo coi dread e i pantaloni mimetici voleva oltrepassare il cordone entrare nel nostro corteo ma i capi hanno urlato compagni attenzione non fatelo entrare e tutti i compagni allora si sono messi a gridare vai via vai via chi cazzo sei? Sbalordito da tanta veemenza il ragazzo ha detto: compagni, mi lasciate da solo? Io ho sentito come una specie di morsa dentro, che contrastava la paura che quello fosse veramente uno dei black-bloc e mi sono vergognato di lasciarlo lì ma non ero più io a decidere, era la collettività del gruppo del corteo di cui ero soltanto un segmento del cordone di sicurezza. I cordoni di sicurezza non prendono decisioni, ma quella vergogna in seguito mi ha fatto diventare anarchico.
si vedevano le macchine distrutte i resti della battaglia sull’asfalto i bidoni incendiati le banche sfasciate puzzo di plastica sembrava una città bombardata una città bombardata me la immagino così anche se non l’ho mai vista.
[...]
a Milano la manifestazione era spontanea cioè nessuno aveva organizzato a livello dei mass-media ma soltanto Radio Popolare e il passaparola tra compagni e gente che era andata a Genova o che non ci era andata ma adesso sentiva che bisognava partecipare allo sdegno di tutti contro il regime dei terroristi.
urlavamo assassini assassini e levavamo il pugno io non lo avevo mai fatto così non mi ero mai sentito accomunato a persone diverse da me che con quel gesto si identificavano con la mia idea astratta e invisibile che nel suo cuore era uguale alla loro era la loro stessa idea d’amore.
con Diego e Alexandra fabbricammo dei volantini con la foto del Manifesto di Giuliani morto con la pozza di sangue trasformata nel profilo dell’Italia e sotto ci mettemmo un testo, anzi due perché Diego ed io non ci siamo accordati sul contenuto così io ho scritto un testo e lui un altro, il mio più politico il suo più etico.
quando li abbiamo fotocopiati sono entrato io nel negozio perché Diego aveva paura di venire riconosciuto, il commesso a un certo punto li ha guardati e in un breve istante ha capito, è come se avesse sorriso, non me li ha fatti pagare come doveva, me li ha per metà regalati si era unito anche lui al nostro odio.
mentre attaccavamo i manifestini sono passati degli sbirri in auto, Alex faceva il palo, abbiamo mollato il secchio con la colla dietro una colonna e ci siamo allontanati di qualche metro in direzioni separate insomma avevamo paura forse persino troppa ma non volevamo farci beccare dai poliziotti con i manifestini credo che ci avrebbero fatto un gran culo perché in quei giorni le cosiddette forze dell’ordine avevano paura anche loro e sentivano di dover manifestare il loro fascismo personale e strutturale quindi credo che se ci avessero presi ci avrebbero portati in questura e menati di sicuro.
ma sinceramente in quel momento non me ne poteva fregare di meno di venire menato da un centurione fascista e se fosse dipeso da me avrei tappezzato la città di manifesti a più non posso che dicessero la verità cioè noi avevamo ragione in eterno e loro per sempre torto e mai più Giuliani sarebbe vissuto a causa del loro torto, ma la nostra ragione lo avrebbe fatto sopravvivere in eterno più idealmente vivo di quanto quegli assassini non sono stati mai
ma queste son parole, e non ho mai sentito che un cuore un cuore affranto si cura con l’udito
che quel posto dove andiamo
che ben sicuri mai non siamo
non ci inghiotte e non torniamo più.
Paolo Conte
Io mi porto il casco avevo detto a Diego, lui mi aveva detto che ero scemo e che la polizia mi avrebbe identificato come Autonomo e riempito di botte.
Non ero convinto ma alla fine ho lasciato perdere, tanto il casco non mi sarebbe servito a nulla.
Arrivare siamo arrivati tardissimo: col treno ci hanno fatti passare da Piacenza anziché da Voghera, abbiamo impiegato cinque ore, era un treno speciale perché le linee ferroviarie erano occupate dai treni speciali che venivano da tutta Italia, e c’erano forse anche cosiddetti problemi di sicurezza.
Io ero appena arrivato dalla Puglia appositamente per andare a Genova, avevo interrotto le vacanze per partecipare a quell’evento storico che immaginavo sarebbe stata Genova 2001.
La sera del mio arrivo dalla Puglia chiamo Leo e lui mi dice che quel giorno c’era stato un morto, mi sono sentito gelare il sangue e la prima cosa simile alla paura mi ha attraversato la schiena, ho pensato: questa volta fanno sul serio e siamo in pericolo.
Sono andato a casa di Leo, entrando ho incontrato Patrizia che vedevo per la prima volta. Mi è parsa subito una gran bella ragazza.
La paura mi era già passata perché mi ero detto che adesso più che mai non si poteva esitare a partire per manifestare. Avevano ucciso un compagno, un ragazzo, e nessuno poteva rinunciare a urlare in faccia agli assassini che le masse non hanno paura e agiscono anche a costo di morire.
A casa di Leo si discusse se partire o no. Leo, come me, era convintissimo di sì, però lui aveva una specie di sorridente incoscienza che mi metteva inquietudine: come se non gliene fregasse, anzi come se lo eccitasse l’idea di esporsi al pericolo. È strano come il pericolo dei fascisti possa eccitare uno come Leo, specie quando ha bevuto.
Come se la possibilità della morte diventasse eroica e giocosa se vissuta in compagnia.
Uno degli amici di Leo rinunciò a venire a Genova perché si diceva turbato e disgustato, come se con l’uccisione di Carlo Giuliani si fosse « passato davvero il segno ». Quale segno?
Silvia aveva paura, si capiva che avrebbe preferito non venire, ma Leo si divertiva a provocarla ostentando spavalderia. Io argomentavo per far colpo su Patrizia - in seguito mi ha detto che sparavo un mare di cazzate - attingevo concetti da Toni Negri, parlavo di moltitudini e di ontologia delle masse che si manifestano come tali.
Al mattino c’era il ritrovo di PRC di Milano alla stazione di Porta Garibaldi. Sul treno accanto a noi c’era un gruppo di lesbiche. La loro capa era amica di Patrizia quindi noi stavamo vicini alle lesbiche nello scompartimento, anche se quelle ci ignoravano, ma c’era un clima collettivo più grande dello scompartimento.
Io per lo più ho parlato con Leonardo: a lui piaceva la lesbica più carina accanto a me.
Dopo cinque ore di viaggio, appena scesi dal treno si è capito subito che era un casino perché non c’era uno straccio di organizzazione alla stazione di Nervi. Forse si era esaurita nella mattinata, l’accoglienza organizzata, poiché era già l’una e chissà quante migliaia di persone erano atterrate lì come noi, oppure l'organizzazione c’era ma io non l’ho vista, perché mi aspettavo qualcosa di più definito e protettivo, compagni con le scritte Genova Social Forum e cose così.
Invece sembrava lo sbaraglio e a differenza di altre manifestazioni che avevo viste in precedenza, qui si avvertiva che la disorganizzazione poteva essere molto pericolosa, come infatti è stato.
Iniziammo subito a camminare dirigendoci verso Genova città. C’era il sole faceva molto caldo, era un caldo estivo che mi sembrava strano, perché non eravamo lì per andare al mare ma per manifestare la nostra idea e personalmente volevo piangere la morte di Carlo Giuliani.
Carlo Giuliani il giorno che è morto voleva andare al mare. Indossava il costume da bagno sotto i pantaloni, perché aveva deciso di andare al mare, ma quando ha visto la violenza della polizia ha deciso di restare a combattere. Così è morto.
I primi poliziotti che abbiamo visto appena arrivati a Genova erano un piccolo gruppo, verso Nervi, ci sono passati accanto senza che succedesse niente, noi non eravamo un insieme compatto identificabile, non c’erano bandiere o altro e nessuno ha gridato assassini.
Era il nostro primo impatto con la giornata che doveva attenderci, non eravamo ancora spaventati, non mi aspettavo niente di serio e pensavo che il peggio era già successo: avevano ucciso Carlo Giuliani che altro potevano fare se non starsene tranquilli e defilati?
A un certo punto però vidi tutte le innumerevoli persone davanti fare dietro-front e iniziare a correre verso di me: mi è balzato il cuore in gola e ho iniziato a correre anch’io perché nessuno mi aveva detto che non bisogna correre, l’ho sentito dire quel giorno pochi momenti dopo, ho capito che è una questione pratica, dovresti stare fermo e contrastare il panico se no è uno sfacelo, ma naturalmente se ci fosse stata una vera carica della polizia credo che ogni disarmato avrebbe avuto il diritto di darsela a gambe. Invece non c’era nessuna carica in quel momento e tutti si sono fermati presto e hanno ricominciato a marciare in avanti un po’ più nervosi di prima della corsa.
L’atmosfera parve rasserenarsi perché nel mio gruppetto nessuno aveva sentito dire che al mattino avevano già sparato i lacrimogeni per spezzare in due il corteo e che noi eravamo alla fine del secondo spezzone. Queste cose le ho capite dopo, ma in tempo reale marciavo senza pensare, avevo paura che da un momento all’altro la gente ricominciasse a correre e mi domandavo come comportarmi.
Arrivati più in centro verso Corso Italia, dai balconi delle case ci tiravano giù l’acqua per rinfrescarci, secchiate d’acqua e tutti applaudivano alle vecchiette sui balconi che apparivano come vecchie compagne partigiane. Alcune svuotavano una bottiglia riempita d’acqua sulla folla, altre vere e proprie tinozze da cui l’acqua scendeva come pioggerella, ma era poca e tutti speravano di capitare sotto al lancio d’acqua fresca.
Non si capiva benissimo quali gruppi ci fossero, cercavo bandiere e scritte note tipo Rifondazione invece vedevo strane bandiere colorate, una in particolare mai vista prima a strisce tutte colorate giallo rosso verde azzurro ecc. Adesso so che era la bandiera della pace inventata da Aldo Capitini, ma allora non sapevo ancora che cosa significava. C’erano quelli coi tamburi molto folcloristici che battevano ritmicamente, pareva fossero brasiliani o qualcosa di simile, comunque dell’America Latina, invece dovevano essere per lo più italiani. Mi ricordo bandiere di Rifondazione, dei Cobas, di certe federazioni della Cgil, anche se la Cgil nazionale non aveva aderito, bandiere della Fiom, sapevo che c’erano molti cattolici come i mass-media avevano detto e ripetuto ma non ricordo se riuscivo a distinguerli e le famose mani bianche di Lilliput non le ho viste.
[...]
Qualcuno ha urlato incazzato: compagni fate cordone fate cordone, io ho deciso che potevo fare cordone anche se non ero dei loro. A un certo punto si è avvicinato un ragazzo coi dread e i pantaloni mimetici voleva oltrepassare il cordone entrare nel nostro corteo ma i capi hanno urlato compagni attenzione non fatelo entrare e tutti i compagni allora si sono messi a gridare vai via vai via chi cazzo sei? Sbalordito da tanta veemenza il ragazzo ha detto: compagni, mi lasciate da solo? Io ho sentito come una specie di morsa dentro, che contrastava la paura che quello fosse veramente uno dei black-bloc e mi sono vergognato di lasciarlo lì ma non ero più io a decidere, era la collettività del gruppo del corteo di cui ero soltanto un segmento del cordone di sicurezza. I cordoni di sicurezza non prendono decisioni, ma quella vergogna in seguito mi ha fatto diventare anarchico.
si vedevano le macchine distrutte i resti della battaglia sull’asfalto i bidoni incendiati le banche sfasciate puzzo di plastica sembrava una città bombardata una città bombardata me la immagino così anche se non l’ho mai vista.
[...]
a Milano la manifestazione era spontanea cioè nessuno aveva organizzato a livello dei mass-media ma soltanto Radio Popolare e il passaparola tra compagni e gente che era andata a Genova o che non ci era andata ma adesso sentiva che bisognava partecipare allo sdegno di tutti contro il regime dei terroristi.
urlavamo assassini assassini e levavamo il pugno io non lo avevo mai fatto così non mi ero mai sentito accomunato a persone diverse da me che con quel gesto si identificavano con la mia idea astratta e invisibile che nel suo cuore era uguale alla loro era la loro stessa idea d’amore.
con Diego e Alexandra fabbricammo dei volantini con la foto del Manifesto di Giuliani morto con la pozza di sangue trasformata nel profilo dell’Italia e sotto ci mettemmo un testo, anzi due perché Diego ed io non ci siamo accordati sul contenuto così io ho scritto un testo e lui un altro, il mio più politico il suo più etico.
quando li abbiamo fotocopiati sono entrato io nel negozio perché Diego aveva paura di venire riconosciuto, il commesso a un certo punto li ha guardati e in un breve istante ha capito, è come se avesse sorriso, non me li ha fatti pagare come doveva, me li ha per metà regalati si era unito anche lui al nostro odio.
mentre attaccavamo i manifestini sono passati degli sbirri in auto, Alex faceva il palo, abbiamo mollato il secchio con la colla dietro una colonna e ci siamo allontanati di qualche metro in direzioni separate insomma avevamo paura forse persino troppa ma non volevamo farci beccare dai poliziotti con i manifestini credo che ci avrebbero fatto un gran culo perché in quei giorni le cosiddette forze dell’ordine avevano paura anche loro e sentivano di dover manifestare il loro fascismo personale e strutturale quindi credo che se ci avessero presi ci avrebbero portati in questura e menati di sicuro.
ma sinceramente in quel momento non me ne poteva fregare di meno di venire menato da un centurione fascista e se fosse dipeso da me avrei tappezzato la città di manifesti a più non posso che dicessero la verità cioè noi avevamo ragione in eterno e loro per sempre torto e mai più Giuliani sarebbe vissuto a causa del loro torto, ma la nostra ragione lo avrebbe fatto sopravvivere in eterno più idealmente vivo di quanto quegli assassini non sono stati mai
ma queste son parole, e non ho mai sentito che un cuore un cuore affranto si cura con l’udito
Twitteratura
Quando il Sole 24 Ore ne parlò e lanciò il gioco tra i suoi lettori, mi sembrò di non potermi trattenere... Con Erwin poi, ce ne siamo dedicati un paio. Il Sole ha pubblicato il 2 e il 4, ma la cosa buffa è che al 4 hanno cambiato i verbi, mettendoli all'indicativo!
Raccontwitter 1
By Edoardo Acotto · giovedì 19 novembre 2009
La lotta sembrava volgere al termine: il Comunista giaceva a terra e il Capitalista trionfava. Fu solo a quel punto che arrivò l'Anarchico.
Raccontwitter 2 (quarta versione)
By Edoardo Acotto · domenica 6 dicembre 2009
Da ragazzo ero un brillante tennista ma in fondo non significava niente. Mi chiamo David. Ho scritto dei capolavori e poi mi sono impiccato.
Raccontwitter 3
By Edoardo Acotto · domenica 22 novembre 2009
Deleuze pensava il molteplice, il divenire. Ebbe la tisi, smise di bere. Ormai vecchio e soffocato dall’enfisema si proiettò dalla finestra.
Raccontwitter 4
By Edoardo Acotto · domenica 22 novembre 2009
Il cavaliere attraverserà lande fiabesche, ucciderà draghi, sposerà principesse. Sul letto di morte il figlio gli dirà: padre, hai sognato.
Raccontwitter 5
By Edoardo Acotto · venerdì 27 novembre 2009
Una notte, riposto il libro del suicida, Erwin ricordò improvvisamente la morte: gli sembrò inevitabile e provò terrore. Poi si addormentò.
Raccontwitter 1
By Edoardo Acotto · giovedì 19 novembre 2009
La lotta sembrava volgere al termine: il Comunista giaceva a terra e il Capitalista trionfava. Fu solo a quel punto che arrivò l'Anarchico.
Raccontwitter 2 (quarta versione)
By Edoardo Acotto · domenica 6 dicembre 2009
Da ragazzo ero un brillante tennista ma in fondo non significava niente. Mi chiamo David. Ho scritto dei capolavori e poi mi sono impiccato.
Raccontwitter 3
By Edoardo Acotto · domenica 22 novembre 2009
Deleuze pensava il molteplice, il divenire. Ebbe la tisi, smise di bere. Ormai vecchio e soffocato dall’enfisema si proiettò dalla finestra.
Raccontwitter 4
By Edoardo Acotto · domenica 22 novembre 2009
Il cavaliere attraverserà lande fiabesche, ucciderà draghi, sposerà principesse. Sul letto di morte il figlio gli dirà: padre, hai sognato.
Raccontwitter 5
By Edoardo Acotto · venerdì 27 novembre 2009
Una notte, riposto il libro del suicida, Erwin ricordò improvvisamente la morte: gli sembrò inevitabile e provò terrore. Poi si addormentò.
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