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lunedì 29 ottobre 2012

La disperazione di Penelope, Ghiannis Ritsos


Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare;
non erano
gli stracci da mendicante, il travestimento – no;
segni evidenti:
la cicatrice sul ginocchio, il vigore, l'astuzia nello
sguardo. Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una scusa,
un rinvio, ancora un po' di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent'anni,
vent'anni di attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta
su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come
se guardasse
morti i suoi stessi desideri. E "Benvenuto" disse,
sentendo estranea, lontana la propria voce. Nell'angolo
il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto; e tutti gli uccelli
che aveva tessuto
con fili vermigli tra il fogliame verde, a un tratto,
in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi sul cielo piatto della sua ultima rassegnazione.

 
1968; da Pietre Ripetizioni Sbarre, 1972: Ripetizioni, seconda serie; trad. Nicola Crocetti

domenica 21 ottobre 2012

Luigi Einaudi sull'orario di insegnamento nella scuola italiana: cent'anni trascorsi invano?

Ringrazio INFINITAMENTE Stefano Beniamino Vaselli per aver reperito questo testo interessantissimo, il cui senso riceve una luce perfetta dagli avvenimenti recenti.
Ricordiamoli brevemente: il ministro della Pubblica Istruzione impone un aumento del 30% dell'orario di lezione a parità di stipendio, non senza aver prima invocato la necessità di usare "il bastone e la carota" per gli insegnanti italiani.
Questo testo è un eccezionale bastone politico e una carota intellettuale ad usum ministri.



Luigi Einaudi, Economista e uomo politico liberale, II Presidente della Repubblica Italiana, I° Presidente Eletto dal Parlamento dell'Italia libera.
(1913) “LA CRISI SCOLASTICA E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI.

… Da vent'anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all'ufficio, seduti ad emarginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l'insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell'orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l'orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d'oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l'esponente e nello stesso tempo un'aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media …".

(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).
“SCUOLA EDUCATIVA O SCUOLA CALEIDOSCOPIO? (A proposito del disegno di legge Credaro) di Luigi Einaudi

… A me sembra che 18 ore di lezione alla settimana sia il massimo che possa fare un insegnante, il quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente ed attendere ai gabinetti di fìsica o chimica; il quale, sopra tutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero provvedere al bene della scuola doveva aumentare gli stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo assoluto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore settimanali in istituti sì pubblici che privati; non solo, ma doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni private a scolari proprii od altrui. Meglio costringere all'ozio assoluto l'insegnante protervo nel non voler prendere un libro in mano, che costringerlo o permettergli di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere giudicato leggero solo da chi non ha l'abitudine dell'insegnamento …”.
http://www.archive.org/stream/gliidealidiuneco00eina/gliidealidiuneco00eina_djvu.txt

lunedì 8 ottobre 2012

LETTERA APERTA AI MILITANTI DI ALBA, Soggetto Politico tutt'altro che Nuovo

Cari definitivamente ex compagni di ALBA,
oggi senza alcun motivo serio mi avete bannato dal vostro gruppo Facebook di Torino (un gruppo per altro creato da me e popolato di numerosi miei amici e conoscenti ma poi ceduto a voi per dissensi sulla linea comunicativa: voi volevate censurare ogni messaggio fastidioso, io volevo la massima trasparenza).
Questo, naturalmente, è solo l'epilogo della nostra storia comune, all'inizio della quale io ero uno dei due coordinatori torinesi, e alla fine della quale mi ritrovo ad essere stato da voi dimissionato perché iscrittomi nel frattempo al Partito Pirata (nel quale mi trovo benissimo) e  quindi a vostro parere inaffidabile e forse sospetto di tradimento.
Oggi avete anche cancellato diversi post nei quali Rinaldo Locati, l'altro iniziale coordinatore torinese, dopo mesi di vostra frequentazione esprimeva veementemente le sue critiche...
Trovo che per un progetto politico nato all'insegna della democrazia spinta, adottate dei metoducci ben meschini e ridicoli.
Se pensate di poter controllare la comunicazione in Rete siete ridicoli e patetici. (Per esempio quando mi bannate, se sapeste l'ABC dovreste ricordarvi che io di account FB ne ho almeno 2... Ops: e se avessi anche dei fake per spiarvi e farvi gli scherzi? Brrrrrrrr, che paura!).
Ora BANNATEMI SUBITO PER LA SECONDA VOLTA, esercitate questo piccolo potere che vi sentite di avere in virtù dell'investitura che ALBA, il grande Soggetto Politico Nuovo vi ha dato.
FORZA! Bannate! Non potete fare molto altro, ma questo almeno fatelo, CANCELLATE, RIPULITE, ORDINATE, e poi quando fate i vostri congressi sorridete alle masse come quei rivoluzionari perbene che volete essere. Qualcuno tra voi si è persino permesso di invocare la biopolitica dei farmaci per censurare l'opinione di un compagno: un'idea fascista che però sulla vostra bella bacheca non viene censurata. Evidentemente secondo voi la piccola violenza repressiva delle parole da duri va benissimo, se serve per mantenere il vostro ordine: il desiderio di pulizia e innocenza a quanto pare non nuoce troppo alla vostra bella immagine di un'ALBA dorata (ah no, scusate, quello è il nome del partito nazista greco, che strana coincidenza di nomi).
Ma quale immagine pensate di avere costruito? Chi vi segue, oltre ai lettori del Manifesto e a qualche sperduto elettore di una Sinistra ormai morta e sepolta e, all'inizio, qualche babbeo come me? E soprattutto, che siate popolari o meno, COME VI PERMETTETE di censurare il parere di chi vi ha seguito fin dall'inizio, come Rinaldo e il sottoscritto, per poi rimanere profondamente delusi dalla vostra inconcludenza, falsità e opportunismo?
COME VI PERMETTETE? Chi credete di essere, chi credete di rappresentare oltre ai vostri professori universitari le cui parole vi bevete come fossero oro colato? Se foste intelligenti democratici vi mettereste a lavorare per ottenere il consenso dei cittadini e non perdereste tempo a far congressi sui congressi per poi guardare ansiosi e cupidi la televisione ("qualcuno può guardare se nel TGR regionale hanno parlato del convegno?").
Certo, da postmoderni intuitivi e rozzi sapete bene che se nessuno vede l'albero che cade nel fitto della foresta è come se l'albero non fosse caduto per davvero: volete apparire perché temete di non essere, di non essere altro che un gruppuscolo che ha creduto bastasse il Manifesto per fare politica.
(Detto per inciso, siccome siete mediamente abbastanza vecchi ricorderete bene che nel 1972 il Manifesto si presentò alle politiche ottenendo un meritato 0,67% dei voti: io penso che anche impegnandovi non riuscirete a fare molto meglio :-).
Se faceste un buon lavoro politico non avreste tempo da perdere per tenere in ordine il vostro giardinetto su Facebook (un social network di cui per altro non capite nulla, come della Rete in generale: inutile ricordarvi che qualche tempo fa Diego Di Caro e io abbiamo provato a convincervi dell'utilità di avvicinarvi alla democrazia digitale: è stato come voler cavare sangue da una rapa, come voler far volare un asino, ci avete risposto con un assordante e strafottente silenzio, forse perché non avete proprio idea di che cosa sia la politica oggi).

Ora, io ho altro a cui pensare, ma sappiate che da oggi non perderò occasione per dire chi siete veramente: una sinistra vecchia e stanca con qualche ambizioso rinforzo semigiovanile e con un'ingiustificata smania di conquistare spazio nella politica rappresentativa, che per altro vi meriterebbe completamente (peccato per voi che non vi siate dati da fare prima per entrare nel gioco delle poltrone parlamentari).
Soprattutto, non perderò occasione per dire come trattate le persone benintenzionate che con il vostro più gran disappunto non si limitino a eseguire i comandi del vostro Gruppo Dirigente. Già perché voi non siete una struttura democratica, avete un Gruppo Dirigente che vi comanda dall'alto quali iniziative prendere, il dibattito interno non sapete che cosa sia, e sui contenuti politici della vostra proposta siete in alto mare e aspettate tranquilli che ve la confezionino i vostri professori.

Di una cosa sono più contento che di ogni altra: di vedere che alla fine della mia relazione con voi coloro con cui mi sono maggiormente scontrato all'inizio sono gli stessi con cui mi trovo più d'accordo adesso: i compagni Rinaldo Locati, Jasmina Radivojevic e Lino Sturiale. Questo rivolgimento potrebbe insegnare che il confronto e persino lo scontro dialettico, può portare ad insperate sintesi, che il vostro unanimismo perbenista non avrebbe nemmeno permesso di concepire. Ma dubito fortemente che qualcuno di voi possa cogliere l'ironia preziosa di questo insegnamento.

Buona fortuna a tutti, e che la vostra ALBA non vi sia grave.
In ogni caso non credo che siate preparati alla durezza del meriggio.


giovedì 4 ottobre 2012

Deleuze si specchia (vecchio incipit per un blog di fotografia mai aperto)


Deleuze si specchia tra due specchi.
Specchio del mio desiderio, chi è il più singolare del virtuale?
E' nel tra-due che avviene la Differenza, o molteplicità intensa.
Specchiandosi tra due specchi mentre viene fotografato in uno d’essi, Deleuze si sdoppia e si moltiplica all’infinito.
E' una singolarità molteplice: una singolarità con il cappello attuale nebulizzato in un’infinità di copricapi virtuali.
Indossa un soprabito impersonale. La molteplicità in effetti è impersonale, una persona è un fascio di singolarità, non garantita da alcun dio o io.
Deleuze è moltiplicato dal dividersi dell’istante temporale, verso il passato eterno e verso il futuro infinito.
Guarda l’obiettivo. Mi guarda. In ogni fotografia che lo ritrae, Deleuze mi guarda sempre, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona, come se lui fosse una persona. Come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui.
Deleuze è una singolarità molteplice, fatta di attuale e di virtuale; il virtuale e l’attuale sono indiscernibili e si scambiano.
Guardando la foto, di primo acchito abbiamo l’impressione di sapere bene qual è il piano del reale e qual è il lato del virtuale. Eppure. Che cosa ce lo garantisce?
La macchina fotografica non può riprendere entrambi gli specchi, perché attuale e virtuale non coesistono mai completamenete. E c’è di mezzo colui che ritrae Deleuze che mi guarda, mi guarda come se lui fosse una persona, come se io fossi una persona e lui volesse mostrarmi che mentre lo vedo sono visto da lui. Ma è falso, sono le potenze del falso che si guardano attraverso i nostri occhi, attuali i miei, virtuali i suoi, o meglio ancora: attuali i suoi, alllora, virtuali i miei, in questo futuro attualizzatosi almeno per me.
Lui non c'è più, nel frattempo, ma le sue singolarità infinite sono ancora qui, con me, formano una nebulosa di concetti che non cessano di avviluppare la noosfera, la sezione di essa che mi è dato vedere dalla mia prospettiva.
In fondo, nell'Essere univoco, Deleuze e io e voi siamo tutti lì, ci teniamo molta compagnia, facciamo giochi bellissimi che non finiscono mai.

mercoledì 3 ottobre 2012

Spazi relazionali per moltitudini in carne e ossa (articolo commissionatomi da una misteriosa rivista)


Gli spazi ipermercatali sono in potenza di infiniti incontri tra individui: le risorse cognitive e comunicative localizzabili in questi luoghi sono dunque sovrabbondanti e la loro attenta considerazione non dovrebbe sfuggire a qualsiasi soggetto interessato alla conoscenza delle dinamiche sociali. Eventualmente per influire positivamente su di esse. 
Avulso dalla scientificità della computer science, il discorso filosofico e culturale contemporaneo sui grandi spazi commerciali ha oscillato tra critiche radicali di scuola marxista (post- o neo-) e considerazioni metafisiche sulla libertà dell’individuo-massa, o piuttosto la mancanza di essa. La filosofia arricchita dall’apporto delle scienze cognitive potrebbe forse iniziare a ripensare queste realtà urbanistiche, economiche e antropologiche guardandole con lenti più variopinte. Tenendo presente che l’epoca degli ipermercati sta forse per tramontare, se è vero che da qualche anno negli USA non se costruiscono più e si iniziano anzi a demolire quelli già esistenti.
Per Guy Debord, il filosofo della Società dello Spettacolo (1971), i termini sono nettissimi: gli spazi extraurbani degli ipermercati sono punti di fuga da una città catturata in un movimento propriamente distruttivo, effetto inevitabile dell’estensione del dominio del capitalismo: “i momenti di riorganizza­zione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transito­riamente attorno a quelle “fabbriche di distribuzione” che sono i supermarkets giganti edificati in terreno nudo, su uno zoccolo di parking; e questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centri­fugo, respinti più lontano via via che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, dal momento che hanno determinato una ricomposizione parziale dell’agglomerato. Ma l’or­ganizzazione tecnica del consumo non è che in primo piano nel processo della dissoluzione generale che ha in tal modo con­dotto la città a consumare se stessa”.
Luoghi centrifughi per la distribuzione delle merci: nel contesto di una filosofia radicalmente negativa della contemporaneità capitalista, Debord non vede altro, anche se percepisce, più intelligentemente di molti epigoni, la positiva possibilità urbanistica e antropologica (“una ricomposizione parziale dell’agglomerato”).
Nella Società dei consumi (1974), Jean Baudrillard fa invece del centro commerciale il simbolo sintetico dell’intera civiltà contemporanea. In modo caratteristicamente iperbolico, il sociologo francese che teorizzerà la scomparsa della realtà ad opera del virtuale, fa del centro commerciale un luogo totalizzante: “Siamo al punto in cui il consumo comprende tutta la vita, in cui tutte le attività si concatenano nello stesso modo combinatorio, dove il canale delle soddisfazioni è tracciato in anticipo, ora per ora, dove l’“ambiente” è totale, completamente condizionato, ordinato, culturalizzato”. Per Baudrillard il sistema contemporaneo delle merci si trasforma in un flusso indifferenziato di segni, dove tutto è l’equivalente universale di tutto. Questa affascinante visione apocalittica sembra oggi più che altro un’invenzione interpretativa non fondata sulle reali dinamiche cognitive ed esperienziali dei soggetti coinvolti negli spazi del consumo di merci.
Un’altra autorevole voce che ha tematizzato i grandi spazi commerciali è quella dell’antropologo Marc Augé, padre della nozione di “non-luogo”: lo spazio extraurbano di un ipermercato, come quello di un aeroporto o di un lunapark, è interpretato da Augé come spazio senza qualità, o dalle qualità pre-determinate (luminosità, decibel, proporzioni, tutto è deciso una volta per tutte nel prototipo di questi spazi seriali). Qui gli individui non entrerebbero in relazione gli uni con gli altri. Questo concetto di relazione è però un concetto teorico non chiaro né distinto, un ideologema del sistema teorico di Augé: prescindendo da un’assiologia implicita, uno spazio in cui moltitudini di individui confluiscono insieme è uno spazio relazionale per definizione.
In anni più recenti, Vanni Codeluppi ha magistralmente riassunto la tradizione degli studi critici sulle merci e i loro spazi: in Lo spettacolo delle merci, Codeluppi rileva molto bene come i centri commerciali debbano mutuare alcune caratteristiche dai tradizionali luoghi di socialità: piazze, luoghi di transito, vie cittadine, spesso mimando le tradizionali strutture urbane (acciottolati, piccole piazze adorne di panchine e piante). Luoghi stereotipici che rinviano a un’idea platonica di città, ideale per l’homo consumens.
La scienza delle reti (Barabási, 2004) insegna che in ogni sistema complesso e strutturato come una rete esistono nodi centrali (hubs) che collegano tra loro nodi minori altrimenti irrelati. Un nodo ricco di collegamenti inediti com’è lo spazio architettonico e antropologico di un ipermercato periferico, frequentatissimo dalla popolazione metropolitana e suburbana, lungi dall’essere un banale esempio di alienazione contemporanea è al contrario un luogo ricco di senso.
Sarebbe bene iniziare a pensarlo come tale.


Testi citati:

Marc Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.

Albert-László Barabási, Link - la scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, 1976.

Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, 2000.

Guy Debord, La società dello Spettacolo, Sugarco edizioni, 1990.

martedì 2 ottobre 2012

La filosofia è una malattia (vecchio appunto)

Leggendo un bel libretto di uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti mi sono reso conto che per me la filosofia ha un sottofondo psicologico che lui, uno dei miei filosofi italiani viventi preferiti, trascura completamente.
Un po' come quando ho intervistato il mio Maestro di musica, mi sono accorto che parlava di studio della musica in termini esclusivamente positivi, eppure la mia esperienza mi dice il contrario: sofferenze di vario genere possono accompagnare lo studio della musica, naturalmente se qualcosa è andato storto.
Ma sembra che le cose vadano storte molto spesso.