Visualizzazioni totali

mercoledì 3 ottobre 2012

Spazi relazionali per moltitudini in carne e ossa (articolo commissionatomi da una misteriosa rivista)


Gli spazi ipermercatali sono in potenza di infiniti incontri tra individui: le risorse cognitive e comunicative localizzabili in questi luoghi sono dunque sovrabbondanti e la loro attenta considerazione non dovrebbe sfuggire a qualsiasi soggetto interessato alla conoscenza delle dinamiche sociali. Eventualmente per influire positivamente su di esse. 
Avulso dalla scientificità della computer science, il discorso filosofico e culturale contemporaneo sui grandi spazi commerciali ha oscillato tra critiche radicali di scuola marxista (post- o neo-) e considerazioni metafisiche sulla libertà dell’individuo-massa, o piuttosto la mancanza di essa. La filosofia arricchita dall’apporto delle scienze cognitive potrebbe forse iniziare a ripensare queste realtà urbanistiche, economiche e antropologiche guardandole con lenti più variopinte. Tenendo presente che l’epoca degli ipermercati sta forse per tramontare, se è vero che da qualche anno negli USA non se costruiscono più e si iniziano anzi a demolire quelli già esistenti.
Per Guy Debord, il filosofo della Società dello Spettacolo (1971), i termini sono nettissimi: gli spazi extraurbani degli ipermercati sono punti di fuga da una città catturata in un movimento propriamente distruttivo, effetto inevitabile dell’estensione del dominio del capitalismo: “i momenti di riorganizza­zione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transito­riamente attorno a quelle “fabbriche di distribuzione” che sono i supermarkets giganti edificati in terreno nudo, su uno zoccolo di parking; e questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centri­fugo, respinti più lontano via via che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi, dal momento che hanno determinato una ricomposizione parziale dell’agglomerato. Ma l’or­ganizzazione tecnica del consumo non è che in primo piano nel processo della dissoluzione generale che ha in tal modo con­dotto la città a consumare se stessa”.
Luoghi centrifughi per la distribuzione delle merci: nel contesto di una filosofia radicalmente negativa della contemporaneità capitalista, Debord non vede altro, anche se percepisce, più intelligentemente di molti epigoni, la positiva possibilità urbanistica e antropologica (“una ricomposizione parziale dell’agglomerato”).
Nella Società dei consumi (1974), Jean Baudrillard fa invece del centro commerciale il simbolo sintetico dell’intera civiltà contemporanea. In modo caratteristicamente iperbolico, il sociologo francese che teorizzerà la scomparsa della realtà ad opera del virtuale, fa del centro commerciale un luogo totalizzante: “Siamo al punto in cui il consumo comprende tutta la vita, in cui tutte le attività si concatenano nello stesso modo combinatorio, dove il canale delle soddisfazioni è tracciato in anticipo, ora per ora, dove l’“ambiente” è totale, completamente condizionato, ordinato, culturalizzato”. Per Baudrillard il sistema contemporaneo delle merci si trasforma in un flusso indifferenziato di segni, dove tutto è l’equivalente universale di tutto. Questa affascinante visione apocalittica sembra oggi più che altro un’invenzione interpretativa non fondata sulle reali dinamiche cognitive ed esperienziali dei soggetti coinvolti negli spazi del consumo di merci.
Un’altra autorevole voce che ha tematizzato i grandi spazi commerciali è quella dell’antropologo Marc Augé, padre della nozione di “non-luogo”: lo spazio extraurbano di un ipermercato, come quello di un aeroporto o di un lunapark, è interpretato da Augé come spazio senza qualità, o dalle qualità pre-determinate (luminosità, decibel, proporzioni, tutto è deciso una volta per tutte nel prototipo di questi spazi seriali). Qui gli individui non entrerebbero in relazione gli uni con gli altri. Questo concetto di relazione è però un concetto teorico non chiaro né distinto, un ideologema del sistema teorico di Augé: prescindendo da un’assiologia implicita, uno spazio in cui moltitudini di individui confluiscono insieme è uno spazio relazionale per definizione.
In anni più recenti, Vanni Codeluppi ha magistralmente riassunto la tradizione degli studi critici sulle merci e i loro spazi: in Lo spettacolo delle merci, Codeluppi rileva molto bene come i centri commerciali debbano mutuare alcune caratteristiche dai tradizionali luoghi di socialità: piazze, luoghi di transito, vie cittadine, spesso mimando le tradizionali strutture urbane (acciottolati, piccole piazze adorne di panchine e piante). Luoghi stereotipici che rinviano a un’idea platonica di città, ideale per l’homo consumens.
La scienza delle reti (Barabási, 2004) insegna che in ogni sistema complesso e strutturato come una rete esistono nodi centrali (hubs) che collegano tra loro nodi minori altrimenti irrelati. Un nodo ricco di collegamenti inediti com’è lo spazio architettonico e antropologico di un ipermercato periferico, frequentatissimo dalla popolazione metropolitana e suburbana, lungi dall’essere un banale esempio di alienazione contemporanea è al contrario un luogo ricco di senso.
Sarebbe bene iniziare a pensarlo come tale.


Testi citati:

Marc Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.

Albert-László Barabási, Link - la scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, 1976.

Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, 2000.

Guy Debord, La società dello Spettacolo, Sugarco edizioni, 1990.