Visualizzazioni totali

martedì 29 marzo 2011

Pasquale Barubiriza, un giovane musicista geniale

Pasquale è stato mio allievo al corso di psicologia del suono che ho fatto allo IED un paio di anni fa.
Se come esercizio c'era da scrivere una breve presentazione di tre pagine, lui mi spediva via mail interi e complessi saggi filosofico-musicologici di decine e decine di pagine, tutte interessantissime.
Dati i ristretti limiti del nostro corso (essenzialmente sulla Generative Theory of Tonal Music) ho dovuto pregarlo di contenere la sua potenza di fuoco (DFW).

Qui trovate un po' la sua musica:  http://soundcloud.com/barubirizapasquale

Ascoltatela, ne vale la pena, ena ena ena!

lunedì 28 marzo 2011

E' così, la vita

Un'anziana signora dall'aspetto brillante ma non borghese oggi mi ha fermato per parlare con Agostino: un po' mi inquietava, mi faceva pensare alla mia vecchiaia, ma un po' ero anche fiero che una vecchia volesse parlare al mio infante.
Lo guardava con un'intensità che mi pareva amore, ne ero rapito. Lui nicchiava e la ignorava, perciò ho cercato di sopperire io alla mancata soddisfazione della vecchia, rispondendo alle domande che rivolgeva ad Agostino.
E' così, la vita

Rizoma (bozza di un lemma per Doppiozero)

Presentato per la prima volta in un testo omonimo pubblicato dalle Éditions de Minuit nel 1976 e poi ripubblicato come primo capitolo (Introduzione) di Millepiani [cfr. scheda Millepiani[i]] quello di rizoma è un concetto cardinale della coppia filosofica formata dai francesi Gilles Deleuze (filosofo) e da Félix Guattari (antipsichiatra).
“Il rizoma (da rizo-, radice, con il suffisso -oma, rigonfiamento) è una modificazione del fusto con principale funzione di riserva. È ingrossato, sotterraneo con decorso generalmente orizzontale” (da Wikipedia). Tuttavia nel repertorio concettuale di Deleuze & Guattari il rizoma indica tutt’altro che radicamento, verticalità e gerarchia (si pensi alla metaforica heideggeriana legata al Grund): il rizoma cresce infatti orizzontalmente e ha struttura diffusiva, reticolare, anziché arborescente.
Il rizoma è un anti-albero, un’anti-radice, un’anti-struttura.
L’orizzontalità rizomatica è giocata simbolicamente contro l’immagine filosofica di una conoscenza “verticale” (l’albero della conoscenza, dalla Bibbia a Descartes a Varela e Maturana), e alla quale Deleuze & Guattari attribuiscono intrinseca valenza (bio)politica, ovviamente repressiva: “è curioso come l’albero abbia dominato la realtà occidentale e tutto il pensiero occidentale, dalla botanica alla biologia, l’anatomia, ma anche la gnoseologia, la teologia, l’ontologia, tutta la filosofia…: il fondamento-radice, Grund, roots e fundations” (Mille Plateaux, 27)[ii].

Il rizoma è il movimento stesso del desiderio, dall’Anti-Edipo in poi protagonista assoluto della metafisica deleuze-guattariana: “Quando un rizoma è tappato, arborificato, è finita, non passa più  nulla del desiderio; perché è sempre per rizoma che il desiderio si muove e produce” (Mille Plateaux, 22).


Principi di rizomaticità.
Pur annunciandoli come “caratteri approssimativi” del rizoma, Deleuze & Guattari formulano alcuni principi che definiscono il rizoma.
Connessione ed eterogeneità (1 e 2): “qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso con qualsiasi altro punto, e deve esserlo”. Qui la linguistica generativa di Noam Chomsky viene esplicitamente tirata in ballo come esempio negativo, perché la struttura sintattica sottesa a una frase linguistica inizia da un vertice (detto “testa”) e procede per dicotomia.
Molteplicità (3): “le molteplicità sono rizomatiche e denunciano le psuedo-molteplicità arborescenti”. La nozione di molteplicità –già sviluppata nei testi del solo Deleuze – è un altro punto singolare del “sistema” di pensiero (rizomatico) di Deleuze e Guattari. Le molteplicità si oppongono all’unità e anche all’Uno dell’onto-teologia occidentale. Tuttavia per avere delle molteplicità non è sufficiente aggiungere delle dimensioni: occorre invece sottrarre l’uno che darebbe unità al molteplice. Un buon esempio di produzione di molteplice è dato dal pianismo iper-vuituosistico di Glenn Gould: l’accelerazione che egli impone alla musica fa proliferare l’insieme, trasforma i punti musicali in linee. E in un rizoma non ci sono punti o posizioni come “in una struttura, un albero, una radice. Non ci sono nient’altro che linee”.
Rottura asignificante (4): a differenza delle strutture, che si scompongono in segmenti dotati a loro volta di informazione strutturale, un rizoma “può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, riprende a seguire l’una o l’altra delle sue linee e seguendo altre linee”. Qui l’esempio, o meglio l’ipotiposi, del rizoma è il formicaio e il suo apparentemente inarrestabile proliferare, per quante distruzioni parziali possa subire. Ogni rizoma subisce una segmentarizzazione e stratificazione che attribuiscono significato, ma ogni volta che questa “normalizzazione” viene interrotta da una “linea di fuga” (altro concetto maggiore di Deleuze & Guattari) le linee segmentali esplodono e il rizoma si rompe.
Cartografia e decalcomania (5 e 6): il rizoma è eterogeneo ai modelli strutturali e generativi che hanno sempre l’albero come modello di infinita riproducibilità: “la logica dell’albero è una logica del calco e della riproduzione”. Il rizoma è invece una carta, e la carta non riproduce ma crea, in connessione con ciò di cui è carta. È questo è il principio più sensibile per la destituzione di ogni dualismo, in quanto non si tratta di rovesciare il modello della carta a favore di quello del calco, ma di “tentare l’altra operazione, inversa ma non simmetrica”. Con tutto il principio di carità, qui purtroppo non sembra possibile una comprensione chiara di ciò che gli autori intendono. Grosso modo si intuisce che si vorrebbe poter opporre la carta al calco, in un universo logico non dualistico, ma rimane difficile l’intuizione di come sia possibile opporre un’istanza m a un’istanza M scardinando la logica binaria dell’opposizione tra M e m. (Deleuze tratta abbondantemente questo punto a proposito dell’immanenza spinoziana, con sostanza unica, duplicità di attribuiti e molteplicità di modi/emanazioni).


Antidualismo. Come tutti i concetti filosofici militanti di Deleuze & Guattari, e in uno spirito non lontano dalla coeva decostruzione derridiana[iii], il concetto di rizoma non ha il fine di rovesciare una gerarchia istituita per affermare la primazia di ciò che normalmente è considerato secondario (allo stesso modo, la decostruzione pone il secondario in primo piano per destituire ciò che è istituzionalmente primario, non per affermarne la primazia)[iv]. “Ci sono nodi arborescenti nei rizomi e crescite rizomatiche nelle radici” (Mille Plateaux, 30).
L’albero-radice e il rizoma NON si oppongono come due modelli, ma piuttosto il rizoma costituisce la possibilità (trascendentale) di tutte le vie di fuga possibili in una struttura arboriforme. L’obiettivo ultimo, dicono Deleuze & Guattari, è quello di attingere l’impossibile formula: PLURALISMO = MONISMO.
Se l’albero impone il verbo essere, ossia la metafisica (od ontologia) alla base delle categorie di pensiero occidentale, dai presocratici agli analitici, il rizoma ha per tessuto connettivo la congiunzione molteplice: “e… e… e…”.

Rizoma e cervello. L’interesse di Deleuze & Guattari per il cervello testimonia della persistenza di un desiderio di materialismo, contro ogni psicoanalisi e psicologia, umanista o strutturalista (e probabilmente anche contro le scienze cognitive, se i due autori avessero avuto l’occasione di recepirle). Il cervello è un rizoma, nonostante la presenza di strutture come i dendriti, che lascerebbero pensare ad una natura alberiforme. “Molte persone  hanno un albero piantato nella testa, ma il cervello stesso è più un erba che un albero”. L’immagine dell’erba è a sua volta ipotipotica, perché, ci fanno sapere Deleuze & Guattari, il filo d’erba non cresce dagli estremi ma nel mezzo. E il rizoma “non ha un principio né una fine, è sempre in mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo” (Mille Plateaux, 36).

Non è una metafora. Un’ultima osservazione: nello spirito nietzscheano della filosofia di Capitalismo e schizofrenia, la metafora è assolutamente bandita, a vantaggio della natura macchinica (materialista) della realtà: “in nessun caso ci serviamo di metafore” (Deleuze e Parnet, p.25). Pertanto a rigore il concetto di rizoma non deve essere considerato una metafora. Contro le metafore, Deleuze & Guattari giocano fin dall’Anti-Edipo i concetti di “macchina desiderante”, “macchina di macchine”, e successivamente quello di “dispositivo” e di “macchina astratta”.
La pretesa di Deleuze & Guattari è assoluta: rivoluzionare il pensiero ed il linguaggio con una postura di innocenza e ingenuità.

Forse è vero, come disse un giovane studente criticando l’Anti-Edipo, che non basta vedere scritto in un libro “sii felice” per esserlo (e c’è pure il problema del double bind…): ma se il concetto di rizoma vi piace, lasciatevene trasportare a costo di spezzare qualche dura linea segmentale che compone la vostra apparente identità. Potreste scoprire più d’una linea di fuga.
E qualcosa di simile alla gioia.




Bibliografia minima

G. Deleuze, Logica del senso (1967), tr. it. Raffaello Cortina, 2005
G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1968), tr. it. Quodlibet, 1999.
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni (1996), tr. it. Ombrecorte, postfazione di Antonio Negri, 2005.
G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), tr. it. Einaudi, 1975-2002.
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani (1980), tr. it. Castelvecchi, 2003.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1995), tr. it. Einaudi, 2002.


[i] Data la complessità e la circolarità dei temi trattati in Millepiani, si rimanda alla scheda apposita per un’ulteriore proliferazione di senso e sottrazione di apparente unitarietà.
[ii] Nonostante l’iperbole tipicamente postmodernista, di D&G, si tenga presente, leggendo queste righe, che a tutt’oggi la maggior parte dei linguisti generativisti ritiene che l’albero binario sia struttura cognitiva universale, e che qualsiasi materiale cognitivo senza eccezioni possa ricondursi a tale struttura).
[iii] Seppure in uno stile apparentemente opposto, al punto che per l’impossibile coppia Derrida/Deleuze si potrebbe rievocare il concetto kantiano-deleuziano di “sintesi disgiuntiva”. I due filosofi si conoscevano benissimo e si stimavano, a giudicare dal necrologio per Deleuze di Derrida su Libération (nel quale si cita lo sbalorditivo progetto di scrivere insieme un libro su Marx). Tuttavia conosco solo due casi di citazione reciproca, uno a testa: in Platone e il simulacro, poi incluso in Logica del senso, Deleuze cita la prima edizione de La farmacia di Platone di Derrida (Tel Quel, n° 32 e n° 33); a sua volta, nella famigerata conferenza su La differenza (ora in La scrittura e la differenza) Derrida cita il deleuziano Nietzsche e la filosofia. In qualche modo, dopo di allora i due giganti del pensiero francese preferirono ignorarsi, almeno testualmente.
[iv] A rigore in Capitalismo e schizofrenia questo punto non è chiaro: tutte le istanze minoritarie, in effetti sono sempre dichiarate più intense delle istanze maggioritarie.

domenica 27 marzo 2011

L’impossibile teatrico. Carmelo Bene e la filosofia (appunti per una lezione alla Cattolica, 2005?)

Il teatro di Carmelo Bene è un teatro essenzialmente filosofico. Non nel senso che insceni situazioni filosoficamente pregnanti, come nel caso del teatro sartriano, o di quello, più recente, di Alain Badiou. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché è un teatro di pensiero, un teatro intrinsecamente intellettualistico e metafisico: Theatrum mundi secondo la metafora barocca, vale a dire un teatro che non accetta di essere ridotto e contenuto entro i ristretti confini del genere artistico “teatro”. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché sono filosofici il suo linguaggio, i suoi presupposti, i suoi riferimenti, i suoi esiti pratici e teorici.
(Su Carmelo Bene hanno scritto Deleuze e Klossowski, e Carmelo Bene stesso negli ultimi tempi citava Deleuze e Derrida come propri riferimenti filosofici).

Teatro totale.
Il teatro di Carmelo Bene è o vuole essere un teatro totale, oltre quello tentato da Wagner <>.
Quanto scrive Derrida (p.244) a proposito di Artaud è perfettamente estensibile al teatro di Carmelo Bene:

Il teatro non poteva dunque essere un genere tra gli altri, per Artaud, uomo del (c.m.) teatro prima di essere scrittore, poeta o anche uomo di teatro : (...) perché la teatralità esige la totalità dell’esistenza e non tollera più l’istanza interpretativa o la distinzione tra l’autore e l’attore.

[Nota sulla praxis teatrale revoluzionaria: Marx ha posto nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi non devono più limitarsi a interpretare il mondo ma trasformarlo. Da Artaud a Carmelo Bene lo stesso può dirsi per il teatro <ossia: il teatro non deve più limitarsi a rappresentare il mondo ma deve trasformarlo>.]



Il testo minorato: il monologo. Phoné e “scrittura di scena”.
Un teatro filosofico e totale diventa possibile solo attraverso una ben precisa operazione che permette di ribellarsi al Reale, allo stato delle cose presente, alla struttura dominante, che è Potere.
Carmelo Bene amputa i dialoghi, perché i dialoghi veicolano gli elementi di potere, li fanno circolare : «tocca a te parlare» (per Deleuze il linguaggio non è essenzialmente comunicativo ma innanzitutto veicolo di ordine e comando: le “parole d’ordine” sono incorporate nel linguaggio). Le condizioni del dialogo sono rigidamente codificate (Deleuze osserva, criticamente, che i linguisti tentano di determinare gli “universali del dialogo”). La codificazione è data dalla struttura vigente della realtà, che è nello stesso tempo Potere concreto e astratto, politico & metafisico.

Nota : il teatro di Carmelo Bene dal punto di vista ontologico presuppone un continuum astratto concreto di tipo monistico...

Deleuze (p.105) spiega l’assenza di dialogo nel teatro di Carmelo Bene sulla base del proprio concetto di variazione continua : si tratta di un movimento ontologico attuale-virtuale, cioè concreto-astratto (né totalmente concreto né totalmente astratto), una variazione reale irrefrenabile che abolisce lo stato di cose presente, variazione più reale del sostrato variante.
Giustamente Deleuze richiama lo schönberghiano Sprechgesang, il canto-parlato del Pierrot lunaire : la voce monologante di Carmelo Bene va oltre, fa diventare il testo un semplice materiale per la variazione.

Nota : Il testo è la nozione che la filosofia francese detta poststrutturalista o postmoderna ha giocato contro la cosiddetta metafisica della presenza. Il testo, insieme di segni infinitamente interpretabili, dunque sempre differiti, mai completamente presenti, diviene metafora del mondo : il mondo  è testo. E al di fuori del testo, si dice, non vi sarebbe nulla : Il n’y a pas d’hors-texte.
Carmelo Bene ha sviluppato nel suo teatro una linea di fuga dalla metafisica presenzialista e dal testo, attraverso la phoné.

Per Carmelo Bene «il testo è l’attore, il testo è la voce» (Carmelo Bene, p.34), è «scrittura di scena, esaltante linguaggio teatrale nel suo farsi (avvicendarsi di suono-buio-luce-canto-silenzio-musica-voce-gesto-fonema-etc...)» (Carmelo Bene, p.25). Con questo bisogna intendere che l’azione scenica lascia/produce una traccia ontologica nell’essere, incarna l’evento nel corpo dell’attore che lo assume su di sé (lo controeffettua come dice Deleuze); si tratta di un divenire scenico che non ha altra consistenza temporale che quella della sua manifestazione attraverso l’attore-artefice, la macchina attoriale.
Deleuze (p.105-4) rileva l’importanza della scrittura di scena in Carmelo Bene¸ cioè di

indicazioni non testuali, e tuttavia interiori, che non sarebbero soltanto sceniche, le quali funzionerebbero come degli operatori, esprimendo ogni volta la gamma delle variabili attraverso le quali passa l’enunciato, esattamente come in una partitura musicale. Per parte sua è così che scrive Carmelo Bene, di una scrittura che non è solo letteraria né teatrale, ma realmente operatoria. (...) Tutto il teatro di Carmelo Bene deve essere visto, ma anche letto, benché il testo propriamente detto non sia l’essenziale. Non è contraddittorio. Piuttosto è come decifrare una partitura.

E qui si inserisce, secondo Deleuze, una prima critica di Carmelo Bene a Brecht, che avrebbe compiuto la più grande operazione critica ma soltanto nello scritto e non sulla scena. L’operazione critica completa consisterebbe invece nell’amputare gli elementi stabili, mettere tutto in variazione continua, trasporre tutto in modo minore attraverso gli operatori della scrittura scenica, che sono essenzialmente sottrattivi.
Per spiegare l’uso che Carmelo Bene fa della lingua secondo la variazione continua, Deleuze (p.106-7) riprende una frase di Proust da lui spesso citata per esprimere la propria idea di poetica: Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère... L’idea dell’essere stranieri nella propria lingua risuona con quella nietzscheana scelta da Carmelo Bene come paradigma di estraniazione e inquietudine della parola: parlare a se stessi, nel proprio orecchio, ma in pieno mercato, sulla piazza pubblica... (Carmelo Bene, p.25).
Lo stesso Carmelo Bene (p.22) dice del proprio teatro monologante :

Monologare è già concorso in rissa (e, comunque, rissa d’artefice, d’autore). Monologo interiore è parlare-cantare Dio, non le sue lodi, ma la Sua-Nostra mancanza.
Dialogo è l’osteria del dover-essere. Tra religiosi non si dà dialogo. Si ascolta. [Frasi come questa supportano l’interpretazione di quanti, come Walter Pedullà, sostengono che Carmelo Bene testimoni la sopravvivenza ai nostri tempi dello spirito autenticamente religioso]
(...)
E infine : il «monologo» non è un momento come un altro a teatro. È, al contrario, l’intero spettacolo.  Monologo è teatro.

Seguono alcune indicazioni su “come nobilitare il dialogo”: Carmelo Bene (p.22).
Anche il famoso uso del play-back fatto da Carmelo Bene ha la funzione di mettere in crisi la lingua producendo distorsioni temporali e visive (una frase di Blanchot sempre ripresa da Deleuze afferma che parlare non è vedere).
E Deleuze (p.110) nota come al lavoro di afasia linguistica corrisponda in Carmelo Bene un lavoro di impedimento sulle cose e sui gesti (vestiti che fanno inciampare, accessori che rendono difficoltoso il movimento, gesti troppo rigidi o eccessivamente molli, frutti mangiati e continuamente risputati, ecc): è in uno stesso movimento che la lingua sfugge al Potere e l’azione al Controllo che la organizza.


Presenza e assenza.

L’ossessione filosofica e artistica di Carmelo Bene è la metafisica della presenza/assenza, strettamente legata al pathos concettuale della dicotomia vita/morte.

Questa inquietudine dei non-morti.
Che mi dice di muovermi sonnambulo
dalla mia semichiusa bara-letto?
(...)
Perché non-morto? Perché non ancora?
Chi mi pensa? Che mai inquieta i non-morti?

E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota [il mondo-palcoscenico].

La mancanza di cui ragiona Carmelo Bene è l’inconsistenza ontologica dell’essere, cioè degli enti anche umani, i non-ancora-morti (Heidegger li chiamava i mortali in maniera pregnante, cioè in opposizione ai divini e in relazione tetradica con la Terra e il Cielo): tutto è simulacro, cose e persone, dell’unico Reale, l’Essere. In quanto inattingibile il Reale è impossibile, puntiforme e mai disponibile : sempre trascendente.
La trascendenza del reale è religiosa.
È stato Heidegger in SuZ a mettere in luce come la metafisica occidentale, quindi il pensiero tout court, si fondi sulla dimensione temporale e ontologica della presenza. L’Occidente pensa in termini di presenza (per una coscienza). Come diceva già Sant’Agostino: il tempo è (il) presente. Per noi Occidentali il presente appare aproblematico : è “il dato” su cui si orienta il senso comune non meno della scienza (Heidegger parla di “semplice-presenza”).
L’assenza viene pensata come derivata: è mancanza, sottrazione di presenza. L’origine è presenza : tra gli attributi canonici di Dio c’è innanzitutto l’ens, cioè l’esistenza realissima garanzia di ogni altra esistenza. Anche dopo la filosofica morte di Dio, proclamata da Hegel e Nietzsche, l’Occidente continua a pensare l’essere nei termini della presenza.
Ma se si riattualizza la questione del senso dell’essere, che non è l’essere degli enti, categoria più generale di tutte, ma qualcosa di arcioriginario di cui si è obliato il senso, la presenza risulta problematica e derivata.
Per Carmelo Bene, uomo del teatro dotato di straordinaria acudeza metafisica, è originaria l’Assenza, il disessere, e l’attore è il luogo metafisico nel quale l’assenza si manifesta in alcuni dei suoi molteplici (infiniti) aspetti.
Se Antonin Artaud ha teorizzato il superamento della metafisica occidentale fondata sul predominio della presenza attraverso il Teatro della crudeltà, Carmelo Bene ha praticato tale superamento. Lo ha incarnato nel suo corpo intenso-macchina attoriale.


Il teatro e la sua critica sottrattiva.
Il teatro metafisico di Carmelo Bene è un teatro critico. La “critica” di Carmelo Bene è di tipo immanente : Carmelo Bene ha in uggia ogni critica ‘esteriore’ al suo oggetto, dato che la mancanza di cui soffre l’essere (lacanianamente manque-à-être) e quindi anche il teatro, non permette certo di fingere che il teatro sia qualcosa di oggettivabile, magari un’istituzione o un genere artistico, qualcosa insomma di solamente empirico. Per criticare il teatro occorre fare teatro, essere nel teatro, e in un certo senso per Carmelo Bene tutto è già sempre nient’altro che teatro («E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota»).
Il teatro critico, di Carmelo Bene consiste in un rigoroso metodo sottrattivo (Carmelo Bene 39). Carmelo Bene amputa la pièce originaria di uno dei suoi elementi : un Amleto di meno è il titolo dato da Laforgue al suo Amleto e Carmelo Bene segue questa strada della variazione sottrattiva. Ex : in Romeo e Giulietta Carmelo Bene neutralizza Romeo, lo mette tra parentesi, il che produce lo sviluppo del personaggio di Mercuzio, che in Shakespeare era una mera virtualità.
Attraverso questo doppio fenomeno sottrattivo/attualizzante, si costituisce sulla scena un personaggio. Il teatro critico di Carmelo Bene è un teatro costituente, la Critica è una costituzione (D 88), cioè ha una potere di creare ontologicamente (l’idea della creazione ontologica molteplice schizoide e istantanea è tipicamente deleuziana e si ritrova esasperata nella metafisica politica di Toni Negri).
L’uomo del teatro (Derrida) non è più autore né attore o regista. È un operatore (in senso affine a quello matematico : simbolo, elemento che produce trasformazione su un insieme di simboli entro un dato sistema sintattico-semantico). Questa operazione è la sottrazione doppiata dal movimento d’insorgenza di un elemento nuovo (il costituirsi dei nuovi personaggi). Doppio movimento, divenire, variazione.
Per Deleuze dunque, il teatro di Carmelo Bene mette in scena istanze extra-teatrali, ontologiche.
Lo scopo di questa “opera di levare” è sottrarre letteratura, sottrarre testo.
Deleuze (p.103) Il testo va amputato perché è la dominazione della lingua sulla parola. La lettera morta del testo testimonia l’invarianza, l’omogeneità, cioè le caratteristiche della lingua “maggiore”, dominante, istituzionalizzata. (Già Artaud si ergeva contro il testo : cfr. Derrida p.246)
Ex : nel Riccardo III sono amputati il sistema reale e principesco. Sono conservati solo Riccardo III e le donne. Secondo Deleuze ciò produce l’apparizione in scena dell’uomo di guerra, istanza alternativa e opposta a quella dell’uomo di Stato o re. (Dumézil : Tullo Ostilio, Tarquinio il Superbo sono “cattivi re”, personaggi inquietanti, venuti “da fuori”).
La sottrazione riguarda dunque sempre e innanzitutto gli elementi del Potere, gli elementi che rappresentano un sistema di Potere. A teatro tali elementi assicurano la coerenza del soggetto trattato e la coerenza della rappresentazione sulla scena.



Il personaggio, l’attore il Soggetto.
Attore è il suo malessere (Carmelo Bene, p.21)
Nel teatro del non-rappresentabile, l’Attore è infinito. (...) È l’infinito della mancanza di sé.
Mancanza non è un temporaneo venir meno dell’essere. È l’esistenza tutta un venir meno.
Il soggetto-Attore è tale in quanto attore non è (Carmelo Bene, p.16)

Per Carmelo Bene l’attore non è un essere umano, un Dasein, una persona, una coscienza, un’esistenza : non corrisponde a nessuno dei concetti metafisici che i filosofi hanno sempre proiettato sull’individuo vivente, e che corrispondono alla metafisica della semplice-presenza.
Come il personaggio è un tutt’uno con l’insieme del dispositivo scenico, così l’attore (di) Carmelo Bene è una macchina astratta (termine deleuziano), Carmelo Bene parla di macchina attoriale, cioè il dispositivo (agencement) che fa funzionare tutte le istanze in gioco, il terreno di battaglia, il campo di immanenza, la porzione di spaziotempo attraverso cui lo spettacolo-evento può accadere "nel disgustato dolore estetico dell’artefice".
L’attore tradizionale ha un’antica complicità con i prìncipi e i re (Napoleone e Talma). Il potere del teatro non è separabile da una rappresentazione del potere nel teatro, anche se è una rappresentazione critica. Per Deleuze (D 93), Carmelo Bene cambia non solo la materia teatrale ma anche la sua forma : il teatro cessa di essere rappresentazione, e l’attore cessa di essere attore («Il non-attore è artefice per eccellenza» Carmelo Bene 51).
Altri hanno fatto un teatro non-rappresentazionale, non-spettacolare: Artaud, Bob Wilson, Grotowsky, Living Theatre... La specificità di Carmelo Bene secondo Deleuze è però la sottrazione  degli elementi stabili del Potere, la quale libera una nuova potenzialità di teatro, una forza non rappresentativa sempre in disequilibrio (D 94).
Il personaggio che, secondo Deleuze, si costituisce sulla scena di Carmelo Bene è privo di Io. La critica o decostruzione teatrale di Carmelo Bene si appunta anche sull’inconsistenza/inesistenza dell’Io, cui Carmelo Bene sostituisce il Soggetto-phoné. Un soggetto nietzscheanamente oltreumano ; lacanianamente impersonale, irreale ; deleuzianamente un divenire-soggetto, una soggettivazione, una singolarità assoluta cioè radicalmente irrappresentabile (echi francesi dell’antihegelismo di Kierkegaard).



L’ineffabile ontologico e l’esprimibile teatrale-musicistico.
Carmelo Bene 86 «esprimere e cantare quanto non si può dire»: di ciò di cui non si può parlare si deve tacere... La frase di Wittgenstein è stata spesso citata e trasformata (messa in variazione) : Derrida ha scritto che di ciò di cui non si può parlare si deve scrivere. Bencivenga : solo di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere!
L’impresa di Carmelo Bene è dunque un’impresa oltreumana, epocale, qualcosa che richiede naturalmente un diverso paradigma di valutazione e giudizio. Il teatro di Carmelo Bene tocca la dimensione dell’indicibile, quella dimensione che non è necessariamente mistica, ma che, per esempio, la filosofia neo-positivista della prima metà del novecento ha indicato come la sfera delle proposizioni prive di senso, non-scientifiche, pertanto né vere ne false.
Tutta la ricerca di Carmelo Bene è il tentativo di esprimere l’inesprimibile. Possibile? Impossibile? Follia e delirio megalomane? Geniale impresa titanica?
I filosofi analitici direbbero naturalmente che è questione di come si utilizzano le parole. Senza dubbio in Carmelo Bene c’è l’idea che la macchina attoriale esprima realmente qualche genere di ineffabile (a leggere Wittgenstein si comprende che ve ne sono senza dubbio di più tipi, almeno due: un ineffabile ‘alto’, das Mystische, e uno ‘basso’ costituito dall’autoevidenza delle cosiddette relazioni interne logico-linguistiche, quelle che Wittgenstein chiama “grammaticali” : il fatto che non vi possano essere rosso e verde allo stesso tempo nello stesso luogo...).


Piccola bibliografia.
Antonin Artaud : Il teatro e il suo doppio, Einaudi
Carmelo Bene : La voce di Narciso ; Il Saggiatore
idem : Opere, Bompiani.
Gilles Deleuze : Sovrapposizioni, Quodlibet
idem : Mille piani, Castelvecchi-Cooper
idem : Critica e clinica, Raffaello Cortina
Jacques Derrida : La scrittura e la differenza, Einaudi
Maurizio Ferraris: Introduzione a Derrida, Laterza
Martin Heidegger : Essere e tempo, Longanesi
Slavoj Žižek : Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina

Cristianesimo spam e milioni di dollari che mi aspettano

Più caro nel Signore,

Saluti Calvario a voi nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Sono la signora Mary Joseph dal Kuwait. Ero sposata con Mr. John Joseph, che ha lavorato con l'ambasciata del Kuwait in Costa d'Avorio per nove anni prima di morire l'anno scorso. Ci siamo sposati da undici anni senza un bambino. Mio marito è morto dopo una breve malattia che è durata solo quattro giorni. Prima della sua morte, siamo nati di nuovo i cristiani.

Mia caro, lo so che sei sorpreso nel ricevere questa lettera, ma come un figlio del Dio vivente, si dovrebbe sapere che le nostre strade non sono le sue vie. La Bibbia mi dice che lavora in molti modi e tutto funziona al bene di coloro che hanno creduto in Gesù Cristo. Neonato, è anche il leader dello Spirito Santo di Dio che ho scelto voi in obbedienza e l'amore per soddisfare il desiderio del mio defunto marito, che ho sostenuto per la gloria di Dio. Voglio capire che questa benevolenza è in adempimento del desiderio e la decisione del mio defunto marito che io sono convinto di attualizzare.

Dopo la morte del mio amato marito, ho deciso di non risposarsi o avere un figlio fuori dalla mia casa dei coniugi, che la Bibbia è contro. Quando mio marito era vivo ha depositato la somma di dollari 2, 5 milioni dollari (due milioni cinquecentomila dollari) in una banca qui a Abidjan, Costa d'Avorio. Attualmente, questo denaro è ancora in banca.

Recentemente, il mio medico mi ha detto che non sarebbe durato per il periodo di nove mesi a causa del mio problema cancro. Quello che mi disturba di più è la mia malattia ictus. Aver conosciuto la mia condizione, ho deciso di donare questo fondo ad una organizzazione di carità, la chiesa, organizzazione cristiana, o di un vero credente, che utilizzerà questi soldi la strada che sto per istruire qui.

Voglio che questo fondo da utilizzare per gli orfanotrofi, scuole, chiese, le vedove, e il privilegio di persone in meno di moltiplicazione della parola di Dio e per assicurarsi che la casa di Dio è mantenuta. La Bibbia ci ha fatto capire che "Benedetto è la mano che dà". Ho preso questa decisione perché non ha nessun figlio che erediteranno questo denaro e mio marito, i parenti sono increduli e non voglio che gli sforzi di mio marito per essere utilizzati da non credenti.

Non voglio una situazione in cui questi soldi saranno utilizzati in modo empi. È per questo che mi prendere questa decisione. Io non ho paura della morte, quindi so dove sto andando. So che sto per essere nel seno del Signore. Esodo 14 VS 14 dice che "Il Signore combatterà il mio caso e mi tiene la mia pace". Non ho bisogno di alcuna comunicazione telefonica in questo senso a causa della mia condizione di salute e la presenza di parenti di mio marito è sempre intorno a me cercando di rivendicare questo denaro da me che mio marito partì per me. Io non li voglio sapere di quest o sviluppo. Con Dio tutto è possibile.

Io voglio che tu a gestire da soli perché la mia salute non può permettere che a me come mi sono stati immessi in dialisi visita medica periodica. Anche io sto scrivendo questa lettera con l'assistenza di una sorella che utilizza per aiutare me. Io voglio che tu mandami il tuo nome, cognome e indirizzo in modo che posso giurare di una dichiarazione giurata, sotto giuramento, che ufficialmente e legalmente riconosciuti voi come lo parente più prossimo a questo fondo che, anche se io sono morto il vostro reclamo per il fondo nel la banca non sarà in dubbio. Sarò inviando la dichiarazione giurata del giuramento e il certificato di deposito di questo fondo subito dopo la deposizione è pronto.

Non appena riceveremo la sua risposta ti darò il contatto con la banca in Abidjan Costa d'Avorio, dove questo denaro è stato depositato dal mio amato marito. Farò anche questione è la dichiarazione giurata del giurame nto che giuridicamente e approvare ufficialmente che il parente più prossimo e nuovi beneficiari al fondo insieme con il certificato di deposito di questo fondo, che il mio defunto marito utilizzato per pagare i soldi in banca. Voglio che tu sempre pregare per me perché il Signore è il mio pastore.

La mia felicità è che ho vissuto una vita degna di un cristiano. Chiunque che vuole servire il Signore deve servirlo in spirito e verità.

Si prega di essere sempre preghiera per tutta la vita.
Qualsiasi ritardo nella sua risposta mi darà spazio ad approvvigionarsi di un'altra persona con il medesimo scopo.

Sperando di ricevere la vostra risposta urgente.
Restano benedetta nel Signore.

Suo in Cristo
Signora Mary Joseph.

sabato 26 marzo 2011

Corpo a corpo con Wittgenstein, 1

Ho deciso di iniziare a trascrivere e commentare i pensieri di Wittgenstein nei quali incappo con maggior stupore o soddisfazione. In effetti Wtitgenstein rimane uno dei pochi filosofi dai quali traggo ancora queste due emozioni: stupore e soddisfazione. (Un altro è Deleuze, un altro ancora Nozick).
Il mio rapporto intenso col filosofo è antico (almeno dal primo anno di università, se non dall'ultimo di liceo) e molto determinante, specialmente in negativo. Forse ne parlerò in futuro.


Il primo pensiero che voglio commentare proviene dal Big Typescript (uno dei suoi innumerevoli - letteralmente - libri incompiuti, dattiloscritti in più versioni e pubblicati postumi con revisioni e varianti)

Il lavoro del filosofo consiste nel riunire ricordi per uno scopo determinato (BT, 89, 2).
A prima vista la frase sembra falsa: il lavoro del filosofo non consiste forse in tutt'altro? Di che ricordi parla Wittgenstein? Di sicuro non di ricordi personali, biografici.
L'idea mi pare questa: al filosofo le esperienze di pensiero accadono prima che egli si metta al lavoro partendo da esse e dando loro forma e consistenza. Mentre fa filosofia (e per Wittgenstein la filosofia è sempre un'attività inscindibilmente legata all'esercizio del pensiero vivente) il filosofo recupera e commenta esperienze mentali necessariamente precedenti al momento del filosofare. Senza queste intuizioni il lavoro filosofico sarebbe impossibile.
Il filosofo si distingue dal non filosofo proprio per il fatto di non disperdere le proprie intuizioni, al contrario rammemorandole riflessivamente e analizzandone l'intero spettro di possibilità.
E tuttavia, qual è lo scopo determinato di cui parla Wittgenstein? Pare che non possa essere altro che "trovare la parola risolutrice", di cui anche si parla nel BT.
O, come dirà nelle Ricerche filosofiche: "mostrare alla mosca la via per uscire dalla bottiglia in cui è intrappolata" (der Fliege den Ausweg aus dem Fliegenglas zeigen).

L'interpretazione è confermata da un altro pensiero che appare poco oltre: L'apprendimento della filosofia è realmente una reminiscenza. Ci ricordiamo di avere usato le parole realmente in questo modo (BT 89, 19).

giovedì 24 marzo 2011

Terminologia elementare della nonviolenza

Partiamo da un’osservazione fondamentale: per quanto possa sembrare strano, gli studiosi tendono a non utilizzare il termine “pacifismo”, che appare essere una nozione tropo imprecisa e spesso connotata negativamente (è la parola usata dagli avversari dei movimenti per la pace). I termini “pacifismo” e “nonviolenza”, certamente tra i più popolari e utilizzati (spesso a sproposito) dai mass-media, non sono sinonimi. Come dice Nanni Salio, spesso «il linguaggio comune e soprattutto quello impiegato dai media svolge una duplice funzione negativa: nasconde alcuni possibili significati, soprattutto quelli alternativi, e ne veicola altri, stereotipati, funzionali alla cultura dominante, alle tesi che si vogliono dimostrare e alle decisioni politiche che si vogliono imporre. [...]» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.136).
Il linguaggio comune, dunque, anche relativamente al tema della pace abbisogna di analisi chiarificatrici, per evitare confusioni e strumentalizzazioni, per altro all’ordine del giorno.
Possiamo cercare di definire alcuni termini più frequenti:
L’antimilitarismo è «l’opposizione alla dominazione dell’ideologia e dell’istituzione militare sulla società» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.22).
Il pacifismo può essere definito come «il rifiuto intransigente, morale, della violenza anche in mancanza di alternative radicali ed anche per difesa di altri, a volte coincidente con la passività totale (pacifismo assolutistico)» (Cozzo, p.28). Come osserva Muller «il discorso pacifista si squalifica quando lascia credere che eserciti ed armamenti siano le cause delle guerre, presentando la loro soppressione come condizione necessaria e sufficiente per la pace. Per promuovere una politica di disarmo, è invece importante pensare a degli “equivalenti funzionali della guerra” in grado di offrire alle nazioni i mezzi per difendersi contro un’eventuale aggressione.
Proprio perché percepita in modo negativo da parte dell’opinione pubblica, la parola “pacifismo” è speso utilizzata nei discorsi dominanti per designare i movimenti di pace che si oppongono ai vari aspetti della politica militare degli Stati [...]. Nello stesso tempo uno dei mezzi più sicuri per screditare un movimento è di squalificarlo nominandolo. Infatti nella maggior parte dei casi questo nome, che vuole essere un’accusa, viene dato a movimenti che sviluppano analisi e scelgono obiettivi che differiscono radicalmente da quelli del “pacifismo”» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.94).
Ciò non toglie che, specie nella prima metà del XX secolo, autori che oggi designeremmo come nonviolenti facessero uso della parola anche per autodefinirsi.
Il termine nonviolenza è la traduzione letterale del termine sanscrito ahimsa, composto da a privativa e himsa, danno, violenza. La parola ahimsa implica una sfumatura intenzionale che si potrebbe rendere con “assenza del desiderio di nuocere, di uccidere”. Altre proposte, per esempio innocenza, sembrano comunque perdere qualcosa del significato originario. È stato sempre Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. (Anche noi, quando non citiamo, scriveremo sempre “nonviolenza”). Gandhi invece sottolineava proprio questo elemento negativo: «In effetti la stessa espressione “non-violenza”, un’espressione negativa, sta ad indicare uno sforzo diretto ad eliminare la violenza che è inevitabile nella vita.» (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, p.77).
L’espressione resistenza passiva era usata dallo stesso Gandhi fino a quando si rese conto che l’espressione correva il rischio di far pensare a un pacifismo passivo di tipo religioso, inerte di fronte all’ingiustizia. Inoltre Gandhi voleva una parola indiana per una forma di lotta indiana.
Satyagraha è il neologismo è formato a partire da parole della lingua natale di Gandhi (il gujurati). Letteralmente significa forza della verità (Satya:Verità, graha: forza). Gandhi adottò tale termine per distinguere la “nonviolenza del forte” dalla resistenza passiva, la quale può coincidere con la “nonviolenza del debole”.
Con l’espressione movimento/i per la pace si intendono le molteplici forze sociali, intellettuali e professionali che operano per la pace, concretamente e sul piano teorico. «Il movimento per la pace è sempre stato uno “strano” movimento, composito, disomogeneo, con componenti interne che provengono da tradizioni culturali diverse e spesso in conflitto tra loro, con opinioni discordi e privo, in Italia ancor più che altrove, di una leadership riconosciuta autorevole. [...] Sarebbe quindi più corretto parlare di movimento per la pace al plurale invece che al singolare, poiché in realtà il movimento per la pace al singolare è “un movimento che non c’è”». D’altra parte «la prima confusione sta nell’usare come sinonimi il termine movimento pacifista e movimento per la pace. Può sembrare una distinzione sottile, quasi inutile, ma non è così. In tutta la letteratura sull’argomento si usa distinguere un generico movimento pacifista, nel quale confluiscono in alcuni momenti storici larghi settori dell’opinione pubblica, alcune forze politiche e religiose ben definite, dal movimento per la pace inteso come una struttura organizzata e permanente, con un suo ben preciso programma di azione politica proiettato nel tempo, non soltanto contingente e genericamente contrario alle guerre, ma costruttivo, che si basa su un’ampia riflessione teorica e culturale» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.52; p.136).
Infine, con il termine tecnico di peace research si intende un insieme di dottrine accademiche e non accademiche che studiano il problema della pace nella prospettiva di un rinnovato (più comprensivo, olistico) paradigma delle scienze umane. Suo iniziatore è il grande teorico Johan Galtung. L’importanza della peace research consiste nel fornire concetti rigorosi per una teoria della pace e della nonviolenza, strappando defintivamente alla confusione del senso comune un tema davvero vitale.

Il concetto-guida di questo libro è quello di nonviolenza. Riguardo alla definizione della nonviolenza e alla distinzione tra i possibili tipi di nonviolenza occorre analizzare un po’ più da vicino almeno il pensiero di Gandhi, ai cui scritti ci si deve riferire come all’origine teorica della nonviolenza moderna. 
 

sabato 19 marzo 2011

Simone Weil tra pacifismo e nonviolenza (da "Senza violenza")


Come Hannah Arendt, Simone Weil ha tratto dalla politica linfa vitale per il suo pensiero, orientandosi verso un marxismo libertario di impronta anarchica e dalla forte ispirazione etica.
La prima fase del pensiero di Weil, complesso e non di rado contraddittorio, è segnata dal prevalere di temi politici e sociali; nel 1934 però rinunciò a ogni forma di attività politica pratica orientandosi a una riflessione mistico-religiosa con forti tratti pessimistici. Di origine ebraica, si convertì idealmente al cattolicesimo, «per eccellenza la religione degli schiavi», senza mai battezzarsi.

Il pensiero e la vita di Simone Weil (1909-1943) sono improntati al più grande rigore morale e alla ricerca di una difficile coerenza nella verità, da ultimo religiosa: «esigeva che non vi fosse la minima incongruenza fra le proprie convinzioni e la vita» [S. Pétrement, Vita di Simone Weil, p. 65].
Eppure la Weil, pacifista, partecipò brevemente alla guerra di Spagna nell’estate 1936. Un pacifismo contraddittorio, dunque?
Se negli ultimi anni della sua vita appoggerà la Resistenza francese militando nell’organizzazione di De Gaulle, ancora studentessa Simone Weil era stata una pacifista «pura». Aveva aderito nel 1927 al piccolo gruppo La Volonté de Paix e successivamente alla Ligue des droits de l’homme. A quell’epoca era stato per lei fondamentale l’influsso del pacifista Alain (Emile Auguste Chartier), suo professore di filosofia nelle classi di preparazione all’Ecole Normale Supérieure.
Politicamente, Simone Weil era vicina al sindacalismo rivoluzionario. Il concetto marxista di lotta di classe complicava la sua posizione riguardo alla nonviolenza. Nelle Riflessioni sulla guerra del 1933 scrive: «Fino al periodo successivo all’ultima guerra, il movimento rivoluzionario, nelle sue diverse forme, non aveva nulla in comune con il pacifismo [...]. È chiaro che la tradizione marxista non presenta, per quanto concerne la guerra, né unità, né chiarezza. Un punto almeno era comune a tutte le teorie, cioè il rifiuto categorico di condannare la guerra come tale. I marxisti, in particolare Kautsky e Lenin, parafrasavano volentieri l’affermazione di Clausewitz, secondo cui la guerra non farebbe che continuare la politica del tempo di pace, ma con altri mezzi. La conclusione era che bisogna giudicare una guerra non per la violenza dei mezzi impiegati, ma per gli obiettivi perseguiti attraverso questi mezzi» [Riflessioni sulla guerra, in Sulla guerra, p. 29].
Ma, come pensava anche Gandhi riguardo alla relazione mezzi-fini, pretendere di «valutare ogni guerra dai fini perseguiti e non dal carattere dei mezzi impiegati» è «il metodo più difettoso possibile» anche se «ciò non vuol dire che sia meglio condannare in generale l’uso della violenza, come fanno i pacifisti puri; la guerra costituisce in ogni epoca una specie bene determinata di violenza, di cui bisogna studiare il meccanismo prima di formulare un giudizio qualunque» [ivi, p. 31].
Qui Simone Weil gioca la carta del materialismo marxista in maniera originale: «Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualunque fatto umano tenendo conto assai più delle conseguenze necessariamente implicite nel gioco dei mezzi adottati che dei fini perseguiti. Non si può risolvere, e nemmeno porre un problema relativo alla guerra senza avere, innanzitutto, smontato il meccanismo della lotta militare, e cioè senza aver analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali. [...] E la guerra rivela d’essere in ultima analisi una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli Stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi» [ivi, p. 32].
Così dunque la Weil pacifista prima maniera, che non è comunque una «pacifista pura».
Poi viene la breve partecipazione alla guerra di Spagna. Nella sua lettera a Georges Bernanos Simone Weil scrive: «Nel luglio 1936 ero a Parigi. Non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia. Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questa guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi. Era l’inizio dell’agosto 1936» [Lettera a Georges Bernanos, in Sulla guerra, p. 50].
Il ragionamento che la spinge a varcare la frontiera è dunque limpido e coraggioso e il comportamento che ne segue è tutt’altro che contraddittorio.
Partecipare moralmente stando nella retrovia non è eticamente tollerabile: «Simone pensava che, quando non si può più impedire una guerra, bisogna assumere la propria parte in questa sventura con il gruppo al quale si appartiene» [S. Pétrement, Vita di Simone Weil, p. 65].
Stare in disparte non le è possibile per la sua particolare tendenza psicologica alla compassione. Simone de Beauvoir ricorda di lei: «Una grande carestia aveva da poco devastato la Cina e mi avevano raccontato che, nell’apprendere questa notizia era scoppiata in singhiozzi» [ivi, p. 75]. E la sua amica e biografa Simone Pétrement riferisce questa autovalutazione di Simone: «La mia immaginazione funziona sempre in un modo per me molto penoso. Il pensiero delle sofferenze o dei pericoli cui non partecipo mi riempie di orrore, pietà, vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di spirito; solo la percezione della realtà mi libera da tutto ciò» [ivi].
Per percepire la realtà della guerra di Spagna, Simone Weil varcò la frontiera spagnola l’8 agosto 1936 a Port-Bou.
Si integra in un piccolo gruppo internazionale dove c’erano alcuni francesi di sua conoscenza. Le insegnano a maneggiare le armi. Si nota subito la sua scarsa abilità: «I compagni, all’esercitazione, evitavano di passare nella traiettoria del suo fucile» [ivi, p. 365].
Il 17 agosto, dopo che l’aviazione franchista ha sganciato una piccola bomba sul campo: «Tutt’a un tratto capisco che si va in spedizione [...] Allora, sono molto emozionata (non so valutare l’utilità della cosa e so che, se ci prendono, ci fucilano)». Scriverà in seguito: «La prima e la sola volta che ho avuto paura durante la permanenza a Pina» [ivi].
Non c’è dubbio che voglia combattere, nonostante le obiezioni dei delegati che comandavano il gruppo: «Ostinata, precisa che è venuta in Spagna non come turista o osservatrice, ma per combattere e promette di far onore al suo posto nei ranghi del gruppo» [ivi, p. 366].
Mentre i compagni si avviano verso una casa che va fatta sgombrare, a lei ordinano di attendere insieme a un tedesco nominato cuoco: «Ha evidentemente paura. Io no. Ma come tutto, attorno a me, esiste intensamente! Guerra senza prigionieri. Se si è presi si è fucilati». E ancora, con una tranquillità d’animo ancora maggiore se possibile: «Ricognizione aerea. Nascondersi. [...] Io mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono... Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice».
Il giorno dopo, si ustiona gravemente mettendo un piede in una padella piena di olio bollente posta al livello del suolo per non fare scorgere il fuoco dall’alto. Non l’ha vista a causa della sua forte miopia. L’ustione è grave e il padre medico, nel frattempo giunto in Spagna con la moglie, dopo molte insistenze riesce a convincerla a tornare in Francia per farsi curare.
Simone Weil non tornerà più in Spagna. Nella lettera a Bernanos spiega il perché: «Ho lasciato la Spagna mio malgrado e con l’intenzione di ritornarci; in seguito, non ne ho fatto, volontariamente, nulla. Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra, che non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia» [Lettera a Georges Bernanos, in Sulla guerra, p. 50].
Giustificava così il mancato intervento francese a fianco dei repubblicani nella guerra di Spagna: «Anche quando ero in Aragona o in Catalogna, nel bel mezzo del clima di lotta, tra militanti che non riuscivano a trovare termini sufficientemente severi per qualificare la politica di Blum [il presidente del consiglio francese, socialista], io approvavo questa politica. Il punto è che mi rifiuto, per mio conto, di sacrificare deliberatamente la pace, anche se si tratta di salvare un popolo rivoluzionario minacciato di sterminio» [Non intervento generalizzato, in Riflessioni sulla guerra, cit., p. 45].
Giungerà al punto di considerare l’egemonia della Germania hitleriana sull’Europa un male minore della guerra.
Ma dopo l’invasione della Cecoslovacchia cambia idea e inizia a rimproverarsi il precedente pacifismo, ora definito «criminale errore».
In Simone Weil pacifismo e rifiuto della violenza non si sovrappongono. Anzi è proprio dopo l’abbandono delle sue posizioni pacifiste in senso stretto che Weil intensifica la riflessione sulla nonviolenza.
Nei Quaderni, scritti per lo più tra il 1941 e il 1942 e pubblicati postumi, si trova un chiarissimo programma etico: «Sforzarsi di sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza. La non-violenza è buona solo se efficace. Sforzarsi di diventar tali da poter essere non-violenti».


Testi citati:
J.M. Muller, L’esigenza della nonviolenza, EGA, Torino 1994;
S. Pétrement, Vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994;
S. Weil, Sulla guerra, Pratiche editrice, Parma 1988.


(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

Il pacifismo scettico di Sir Bertrand Russell (da "Senza violenza")

Bertrand Russell (1872-1970) è uno dei massimi filosofi del Novecento. Oltre ai suoi libri di logica matematica e filosofia, numerosi sono quelli di politica ed etica. Le guerre mondiali del secolo XX segnano il banco di prova del suo pacifismo: Russell fu non-interventista nella prima guerra ma non nella seconda. Gli sembrava infatti che il pacifismo, nemmeno nella sua versione radicale gandhiana, non potesse ottenere risultati positivi contro il nazismo, poiché «la forza [della nonviolenza] dipende dalla presenza di alcune virtù in coloro contro i quali è usata».
Tuttavia nel secondo dopoguerra fu tra i massimi animatori di iniziative di pace e per il disarmo nucleare.


Il grande filosofo inglese Bertrand Russell si scoprì improvvisamente pacifista nel 1901, all’età di 29 anni. Ebbe una repentina crisi che si potrebbe definire di «misticismo», durante un episodio di acuta sofferenza della moglie dell’amico filosofo Whitehead: «Nel giro di cinque minuti mi passarono per la mente pensieri quali: la solitudine dell’anima umana è insopportabile; nulla può penetrarvi eccetto la più intensa forma di quel tipo di amore predicato dai grandi mistici; tutto ciò che non sorge da questo impulso è dannoso o quanto meno inutile; ne segue che la guerra è un errore, che l’educazione che si riceve nei grandi collegi inglesi è abominevole, che l’uso della forza è deprecabile [...]. Alla fine di quei cinque minuti ero diventato una persona completamente diversa. Per un certo periodo fui dominato da una sorta di illuminazione mistica» [L’autobiografia di Bertrand Russell, I, pp. 239-240].
La nonviolenza non gli era dunque connaturata, com’è invece il caso di altri pacifisti (una per tutti: Simone Weil); nemmeno faceva parte della sua educazione, poiché Russell era un aristocratico nutrito di idee liberali ma anche di amor di patria.
Del resto la sua posizione in materia di pacifismo muterà con il mutare delle condizioni storiche, mettendo in luce un pragmatismo etico inconciliabile con il pacifismo radicale di tipo religioso o con la nonviolenza gandhiana.
In occasione della prima guerra mondiale Russell si impegnò a fondo per la causa pacifista, lottando per il non-intervento: «Mi sembrava impossibile che le nazioni europee commettessero la pazzia di scatenare una guerra, ma non dubitavo che, se la guerra fosse davvero scoppiata, l’Inghilterra sarebbe stata trascinata a parteciparvi. Sentivo invece, con tutta l’anima, che il nostro paese doveva rimanere neutrale e così indussi molti professori e membri dei vari colleges a sottoscrivere una dichiarazione di principio che fu pubblicata sul Manchester Guardian. Il giorno della nostra entrata in guerra quasi tutti cambiarono idea» [ivi, II, p. 11].
L’adesione di Russell al pacifismo non è mediata da considerazioni filosofiche, è piuttosto un atteggiamento spontaneo, emotivo. Né un pacifismo tattico o strategico, insomma, né un pacifismo «della convinzione».
Russell confesserà più tardi che l’adesione al pacifismo non era immune dal suo naturale scetticismo: «Mi sono immaginato di essere ora liberale, ora socialista, ora pacifista, ma nel senso più profondo non sono mai stato né l’una cosa né l’altra né l’altra. Sempre l’intelletto scettico, quando più avrei desiderato che tacesse, ha mormorato i suoi dubbi, mi ha tagliato fuori dai facili entusiasmi degli altri e mi ha trasportato in una solitudine desolata» [ivi, p. 51].
Mentre collabora con associazioni democratiche pacifiste, si rende conto che il consenso verso la guerra è più ampio e spontaneo di quanto non potesse immaginare: «Io, come del resto quasi tutti i pacifisti, avevo sempre, ingenuamente, pensato che le guerre fossero imposte da governi dispotici e machiavellici a popolazioni riluttanti. [...] I primi giorni di guerra furono per me i più sconvolgenti. I miei amici più cari, come, per esempio, i Whitehead, si rivelarono interventisti convinti» [ivi, pp. 12-13].
La guerra gli riserva amare sorprese e offre spunto per considerazioni lucide e sconsolate sulla natura umana: «Fino a quel momento avevo creduto che la gente, in generale, amasse il denaro più di ogni altra cosa; mi resi conto che amavano ancor più la distruzione. Avevo immaginato che gli intellettuali amassero soprattutto la verità, ma qui ancora scoprii che quelli che preferivano la verità alla notorietà erano meno del dieci per cento» [ivi, p. 15].
Col precipitare degli eventi l’impegno concreto di Russell si fa sempre più deciso e coraggioso.
Con l’introduzione della leva obbligatoria si batte a tempo pieno per la difesa degli obiettori di coscienza, che rischiano la pena capitale.
Tiene conferenze pubbliche: «Trascorsi tre settimane nei distretti minerari del Galles [...] Nessuna delle riunioni fu interrotta e trovai sempre che, in maggioranza, il pubblico non era ostile, tutt’altro: così almeno finché mi limitavo a parlare nelle aree industriali. A Londra le cose andavano diversamente» [ivi, p. 28].
Nel 1916 gli viene tolto l’incarico al Trinity College di Cambridge per il suo impegno pacifista inviso alle autorità accademiche e ai colleghi.
Subisce anche un assurdo provvedimento delle autorità: gli viene vietato di recarsi nelle zone industriali e costiere del Paese, nel timore che possa fare segnalazioni ai sommergibili nemici!
Infine, nel maggio 1918, viene imprigionato per sei mesi per avere divulgato su un piccolo giornale pacifista una notizia di interesse militare già relativamente pubblica.
In realtà Russell si è convinto a poco a poco dell’inefficacia, data la situazione, di ogni azione pratica di segno pacifista: «D’altra parte, fosse utile o no l’azione che avevo iniziata, non mi era possibile smettere proprio quando poteva sembrare che fossi spinto ad abbandonare l’opera per timore delle conseguenze.
Resta il fatto che proprio quando mi cacciarono in prigione, ero convinto che tutto quello che cercavamo di fare era inutile» [ivi, p. 44].

Lo scoppio della seconda guerra mondiale vede un Russell convinto della necessità di resistere attivamente, con le armi, alla barbarie nazista: «Ero riuscito a immaginare con acquiescenza, sia pure riluttante, la possibilità di una supremazia della Germania del Kaiser, ritenendo che, per quanto potesse essere un malanno, non sarebbe stato un male così grave come una guerra mondiale con tutte le sue conseguenze. Ben altra cosa era la Germania di Hitler. Provavo una indicibile ripugnanza per i nazisti: crudeli, fanatici e stupidi. Mi erano odiosi, non meno moralmente che intellettualmente. Benché mi aggrappassi ancora alle mie convinzioni pacifiste, lo facevo con sempre maggior difficoltà e, quando, nel 1940, la minaccia di una invasione pesò sull’Inghilterra, compresi che per tutta la prima guerra non avevo mai seriamente contemplato la possibilità di una disfatta totale. Questa idea mi era insopportabile e finalmente, in piena coscienza, decisi che era mio dovere appoggiare tutto ciò che pareva necessario per il conseguimento della vittoria, per quanto difficile si presentasse e per quanto fossero dolorose le conseguenze prevedibili della seconda guerra mondiale» [ivi, pp. 338-339].
Un pacifismo «spontaneo» può facilmente venir meno di fronte all’idea di un avversario «eccezionale» quale il nazifascismo, esempio di violenza senza possibile redenzione.
Severo e quasi caricaturale diviene allora il giudizio di Russell sulla nonviolenza gandhiana: «Avevo tuttavia creduto che il metodo della resistenza passiva o, diciamo meglio, della resistenza senza violenza, potesse avere un raggio d’azione più vasto di quanto non risultò poi alla luce dei fatti.
Certamente ha un grande potere: in India, contro gli inglesi, Gandhi riportò un trionfo. Ma la forza di essa dipende dalla presenza di alcune virtù in coloro contro i quali è usata. Quando gli indiani si stesero sui binari della ferrovia sfidando le autorità a schiacciarli sotto i treni, gli inglesi ristettero dal commettere una crudeltà simile. I nazisti invece non avevano scrupoli in situazioni analoghe. La dottrina predicata da Tolstoj con tanta forza di persuasione, e cioè che i detentori del potere possono essere moralmente rigenerati se si oppone una resistenza passiva, era, evidentemente, senza valore in Germania dopo il 1933» [ivi, II, p. 340].
Con una sincerità oscurata soltanto dal desiderio di non sembrare autocontraddittorio, Russell afferma infine: «Non avevo mai avuto una fede assoluta nell’ideale della resistenza passiva, e non lo rinnegai mai totalmente. Ma in pratica la differenza tra l’opposizione alla prima guerra mondiale e il consenso alla seconda era così grande da non lasciar scorgere il considerevole grado di coerenza teorica che in realtà esisteva fra i [miei] due atteggiamenti» [ivi, II p. 341].
Di fronte a queste affermazioni, la natura del pacifismo scettico di Bertrand Russell appare in tutta chiarezza e con i limiti di una linea di condotta forse non sufficientemente teorizzata dal punto di vista etico e filosofico.
Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale Russell continuò a impegnarsi ammirevolmente per la causa della pace e della giustizia, istituendo il cosiddetto Tribunale Russell, composto da personalità indipendenti con il compito di denunciare i crimini di guerra taciuti dai mass media.
Negli ultimi anni della sua vita, individualmente e attraverso la Bertrand Russell Peace Foundation, Russell ha «dedicato sempre più tempo e pensieri alla guerra del Vietnam» [ivi, III p. 289].
Si è anche impegnato moltissimo per scongiurare il rischio di una guerra nucleare, scrivendo appelli ai capi di stato delle superpotenze: nel 1955, tra l’altro, è stato il promotore del cosiddetto Manifesto Russell-Einstein contro l’uso delle armi atomiche.


Testi citati:
B. Russell, L’autobiografia di Bertrand Russell, Longanesi, Milano 1969.



(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

martedì 15 marzo 2011

Il pianeta malato, Underworld e Spazio 1999 (un mio appunto del 2007)


"Nel 1971 Debord scrive un saggio, Il pianeta malato, che sembra scritto oggi. Parla di inquinamento come produzione materiale e allo stesso tempo spettacolare (ideologica), inquinamento come cosa e come discorso sulla cosa.
Vent’anni dopo Don De Lillo ha scritto il suo capolavoro, Underworld che ha come protagonista un esperto di smaltimento di rifiuti anche radioattivi, e come fil rouge per tenere unite le molte storie dall’andamento più che centrifugo rispetto a un inesistente centro, la storia della palla da baseball della storica partita …, perfetto emblema del nulla ideologico in cui l’America e l’Occidente erano già precipitati prima dell’11 settembre.
Non sarà certo un caso ma un cosiddetto segno dei tempi, se anche la famosa serie fantascientifica per la televisione, Spazio 1999, inizia proprio con il distacco della luna dalla sua orbita in seguito all’esplosione dei depositi lunari di scorie radioattive, rappresentando spettacolarmente come errata una soluzione ideologica, per quanto fantascientifica, al problema nucleare (la storiella che i rifiuti nucleari si possano spedire nello spazio ricorre ancora oggi, e comunque era di moda negli anni settanta e ottanta, anni di fanciullezza per gli spettatori di Spazio 1999)."

Aggiungo che per uno della mia generazione (1972), prima ancora dell'incidente di Chernobyl, fu determinante la visione di The day after: la paura del disastro, la ricerca mentale di possibili rifugi antiatomici, la comparazione del rischio rispetto ad altri paesi diversi dall'Italia, la paura  della pioggia radioattiva e dell'eventuale dopo, hanno sempre accompagnato la mia paranoica infanzia.
Sono cresciuto con la paura della distruzione atomica; una paura quasi scomparsa (per l'assoribimento  involontario della nuova ideologia post-'89) fino al 2001, e ora definitivamente ritornata per la colpevole stoltezza dei governanti occidentali che insistono sulla via perdente dell'energia atomica.

Ogni divina maledizione scenda sul loro empio capo.

domenica 13 marzo 2011

Contro il nucleare



Fabrizio Illuminati è un fisico e intellettuale di vaglia.
Questo il suo illuminato parere contro l'energia nucleare, che ringrazio di avere postato in una discussione su Facebook.
(Per chi fosse interessato, qui Fabrizio si è espresso anche sulla decrescita).
 
Cercando di andare oltre la polemica che si carica inevitabilmente di connotati emotivi man mano che arrivano le notizie del disastro giapponese, vorrei provare a riassumere i principali argomenti che secondo me sconsigliano di investire nel nucleare per il nostro futuro energetico.

Innanzitutto un confronto significativo è il dato della nuova potenza elettrica installata nel mondo nel 2010. Fotovoltaico: 16 GW. Nucleare: 0 GW. Per quanto riguarda il fotovoltaico, si tratta di una cifra quasi doppia rispetto a quella installata nel mondo nel 2009 (9 GW). Si tratta chiaramente di una crescita esponenziale. Siamo ancora a circa l'1% della potenza elettrica installata nel mondo, ma è chiaro che la rivoluzione solare è cominciata. Che gli USA non siano alla testa di questa rivoluzione, dispiace, ovviamente (ci sono motivi, non belli, su cui volendo possiamo tornare). Che lo siano paesi come la Germania, la Cina, il Brasile, ed altri, è invece molto rilevante.

Le bufale sui problemi di localizzazione degli impianti fotovoltaici e sulla loro estensione, che si sentono ripetere periodicamente, le commenterei in altra sede. E' certamente vero che c'è un problema nazionale, legato a fenomeni di arretratezza culturale, corruzione, e assi crimine-amministrazione, ma, appunto, questo è un problema tipicamente italico, risolvibile (se si vuole), e che avrebbe conseguenze incomparabilmente più catastrofiche nel caso della localizzazione, costruzione, ed esercizio degli ipotetici impianti nucleari.

Venendo al nucleare, prima ancora di discutere dei problemi relativi ai rischi e al problema del trattamento delle scorie, che pure sono fondamentali, cerchiamo di ragionare proprio in termini puramente energetici. Il nucleare conviene? E' energeticamente ed economicamente la scelta giusta per il futuro? Ci sono argomenti molto forti per rispondere "no", e che spiegano perché nel mondo, sostanzialmente, non si costruiscano più centrali nucleari da molto tempo, a parte quelle di sostituzione, e perfino quelle programmate da Obama sono di sostituzione di quelle che saranno obsolete tra 10-15 anni. Provo a sviluppare il ragionamento per punti.

1) Giustamente si dice che il petrolio, il carbone, e il gas naturale, che sono combustibili fossili, sono destinati ad esaurirsi in tempi più o meno prossimi, al folle tasso di consumo attuale. Sicuramente il petrolio è quello che sta messo peggio, nel senso che secondo le stime geologiche più accreditate, siamo vicini al picco storico della produzione (qualcuno sostiene che sia già avvenuto o stia già avvenendo, altri propendono per una data compresa tra il 2015 e il 2030). Dopodiché la diminuzione della produzione procederà inesorabile, all'inizio lentamente, poi sempre più veloce. Risorse aggiuntive potranno venire dallo sfruttamento delle scisti e delle sabbie bituminose (specialmente canadesi e venezuelane), dei pozzi marini profondi (non particolarmente abbondanti e di difficilissimo accesso), delle risorse polari (non straordinarie e di ancora più difficile accesso). Anche non volendo tenere conto dei giganteschi danni ambientali che lo sfruttamento di tali risorse aggiuntive provocherebbe (ma è insensato non farlo), in ogni caso si tratterebbe di recuperi costosissimi e che ritarderebbero l'inevitabile magari di 20-30 anni. E' vero, c'è ancora relativamente parecchio carbone, e sembra ci sia ancora parecchio gas (questo è già meno chiaro). Però bruciare carbone produce CO_2 a livelli che il petrolio in confronto impallidisce, più altre schifezze notevolissime, come la micidiale anidride solforosa SO_2. E anche lì, comunque, si recuperano altri 50-100 anni, se va bene.

2) E' quindi vero e sacrosanto che bisogna ridurre la dipendenza dai combustibili fossili perché A) sono appunto risorse non rinnovabili, e B) perché contribuiscono in maniera determinante ed essenziale al riscaldamento globale.

3) I sostenitori del nucleare da fissione (quello da fusione è di là da venire e probabilmente sarà così per sempre) sostengono che il ritorno al nucleare risolve entrambi i problemi A) e B) di cui al punto 2) qui sopra. Inoltre, sostengono C) che tra tutte le fonti alternative possibili (solare, eolico, geotermico, idroelettrico, e tutte le loro varie possibili combinazione e integrazioni, inclusi sistemi di immagazzinamento dell'energia con accumulatori, condensatori, vasche ad idrogeno, ad aria compressa, bacini idro, ecc ecc), il nucleare è quello che assicura il più basso costo per kWh di energia prodotta.

4) Purtroppo, il punto 3) è falso, in misura preoccupantemente larga e certa. Infatti, attualmente la produzione e il consumo del combustibile nucleare sono interamente basati sul ciclo dell'uranio, che è elemento fossile e non rinnovabile... esattamente come il petrolio e il carbone. In particolare, l'unico isotopo esistente in natura in quantità apprezzabili che possa essere sottoposto a fissione nucleare innescata da neutroni termici, e perciò adatto ad essere utilizzato nelle centrali è l'Uranio 235. Per far funzionare una centrale nucleare bisogna perciò "arricchire" l'Uranio presente in natura (per mezzo della tecnica della separazione isotopica) per aumentare la percentuale di Uranio 235. Un processo lungo, costoso, complesso (come ben sanno gli Iraniani). Per far funzionare una centrale bisogna arricchire la miscela naturale (in cui il 235 è presente solo per lo 0,7%) fino ad arrivare a una concentrazione del 235 pari a circa il 20%. Per costruire una bomba, bisogna arrivare al 90% circa, e la difficoltà aumenta esponenzialmente all'aumentare della concentrazione (per questo, per fortuna, non è affatto semplice costruire una bomba).

5) Quanto Uranio c'è ancora nel mondo? E quando si esaurirà, al tasso di consumo attuale? E' difficile rispondere con precisione a queste domande, sappiamo però (cito da fonte IEA e Wikipedia) che "Per soddisfare la crescente domanda molti paesi consumatori e produttori hanno iniziato ad intaccare le cosiddette fonti secondarie di Uranio, ossia le scorte accumulate in deposito nei decenni precedenti (incluse le testate nucleari). Come risultato il prezzo dell'uranio sul mercato mondiale ha subìto una forte impennata, passando dai 7 $/libbra del 2001 al picco di 135 $/libbra del 2007. Nel 2001 il prezzo dell'Uranio incideva per il 5-7% sul totale dei costi riguardanti la produzione di energia nucleare. Secondo dati della WNA, a gennaio 2010, il costo attuale di 115 $/kg incide per circa il 40% sul costo del combustibile, che a sua volta incide per circa 0.71 c$ sul costo di generazione di ogni kWh.".

6) Quindi, nel giro di un decennio, il costo del combustibile passa da essere il 5% sul totale dei costi ad essere il 40%. Inoltre, è di pochi mesi fa (luglio 2010) l'annuncio ufficiale, riportato dai veri mezzi di comunicazione, che il costo del kWh solare ha incrociato ed è sceso per la prima volta sotto a quello del kWh nucleare (a circa 15 c$), dopo 10 anni di costante abbassamento del primo e di costante rialzo del secondo. Mi sembrano dati che parlano da soli. In generale, possiamo essere ragionevolmente sicuri che la produzione di Uranio 235 potrà piccare entro poche decine di anni, per poi avviarsi verso un declino sempre più rapido.

7) La produzione di CO_2 legata al kWh nucleare è modesta, ma non trascurabile. Una centrale in esercizio essenzialmente non produce CO_2. Tuttavia le cose cambiano se si tiene conto dei processi di estrazione dell'Uranio, di costruzione, di manuntenzione, e di dismissione di una centrale, processi che sono paurosamente energy-intensive e capital-consuming. Inoltre sono processi di fatto continui, che accompagnano il funzionamento di una centrale a fissione durante l'arco di tutta la sua esistenza (Le barre di combustibile vanno periodicamente ricaricate, ad esempio). Anche qui è difficile fare conti precisissimi, ma si può affermare che si tratta di quantità rilevanti, inferiori naturalmente a quelle prodotte da petrolio, carbone, e gas, ma non trascurabili, e certamente molto molto superiori alle quantità di CO_2 rilasciate, ad esempio, nella produzione di moduli fotovoltaici o pale eoliche.

Ho tralasciato completamente gli enormi problemi riguardanti i rischi di esercizio, i grandi incidenti, lo smantellamento, la dismissione, e l'immagazzinamento delle scorie. Faccio solo presente, a proposito delle "grandi aree" che il fotovoltaico sottrarrebbe irreversibilmente alla bellezza del mondo, che un'intera regione dell'Ucraina, quella intorno a Prypiat e Chernobyl, è completamente inabitabile da uomini e animali dal 1986, e che mezzo milione di persone è stato dislocato per sempre. Forse sarebbe meglio ogni tanto preoccuparsi delle travi, prima di inveire contro le canne...

giovedì 10 marzo 2011

Tommaso Ariemma e la filosofia della chirurgia estetica

[Pubblicato su Vogue.it]

Il giovane filosofo Tommaso Ariemma si occupa di temi classici della filosofia contemporanea “continentale”: l’arte, il corpo, la nudità, l’animale. La recente pubblicazione di un suo libro sulla chirurgia estetica, Contro la falsa bellezza (Il Melangolo) ci offre l’occasione per porgli qualche domanda.

In alcune righe del suo ultimo romanzo, Houellebecq esalta la chirurgia estetica, in particolare quella per il seno, affermando che procrastina di forse dieci anni la fine della vita sessuale della coppia. Possiamo considerarlo un punto di vista iperbolicamente falso, ma l'elemento di verità non potrebbe consistere nel fatto che la chirurgia estetica non avrebbe per obiettivo la "bellezza" bensì l'attrattiva sessuale (come dominio esteso della lotta) nella società dello spettacolo?

No, credo che la questione resti quella della bellezza, o meglio della falsa bellezza (come preferisco chiamarla). Ciò che accade nella sessualità è solo un aspetto (sebbene importantissimo) dell’applicazione di tale falsità. La considerazione che emerge dal romanzo di Houellebecq è importante, perché fa vedere il modo in cui agisce la diffusione della chirurgia estetica: insidiandosi nella quotidianità del vissuto. Se non ti “rifai” (a quest’espressione chiave è dedicato un capitolo intero del mio libro), perdi: avvenenza, autostima, il posto di lavoro etc... Viviamo in un’epoca in cui la diffusione della chirurgia estetica esercita un vero e proprio “terrorismo della falsa bellezza”, ovvero del conformismo estetico.

Naturalmente il conformismo estetico di cui lei parla non è un fenomeno isolato ma fa parte della mentalità propria dell’uomo unidimensionale della società contemporanea. Concentrarsi sulla cura estetica e chirurgica del corpo fornisce una prospettiva critica privilegiata?

Più che di campo privilegiato, direi che si tratta innanzitutto del punto a partire dal quale ho scelto di porre questioni filosofiche. Le mie ricerche filosofiche precedenti si sono concentrate sui concetti di esposizione, nudità, singolarità. La diffusione della chirurgia estetica si è imposta a un certo punto come questione ineludibile. Questione che, nel campo dell’estetica filosofica, non è mai stata trattata in modo specifico. Il mio libro è il primo testo al mondo, per quanto ne sappia, di filosofia della chirurgia estetica. A partire dalla diffusione di quest’ultima, come tento di dimostrare, è possibile entrare nel merito di importanti questioni filosofiche sull’ordine e il caos, sul tutto e le parti, sulla percezione di sé e del mondo, sulle tendenze non solo estetiche, ma anche politiche della nostra cultura.

Lei considera la falsa bellezza come un fenomeno eminentemente culturale. Non crede però che vi sia un fondamento naturale della bellezza “vera” (penso a certi studi psicologici sulla perfezione delle proporzioni perfette che - al contrario di quanto si crede comunemente - non muterebbero nel corso della storia umana)?

L’unico fondamento naturale che accolgo è il pluralismo della bellezza. La bellezza può essere universale solo se resta irriducibile. Sembra una contraddizione, ma non lo è affatto. Se vincoliamo la bellezza a un preciso criterio, ci ritroviamo all’interno di una falsa bellezza, circoscritta, limitata, e dunque non più universale. Sostenere una bellezza unica, fondata naturalmente, è un po’ come sostenere un colore della pelle umana naturalmente superiore agli altri. Il pluralismo estetico è il vero fondamento.