Durante gli anni universitari, dopo Wittgenstein e prima di incontrare Deleuze (lo racconterò), la mia ossessione era Derrida. Mi affascinava ma non lo capivo. Percepivo nei suoi testi una luminosa aura potentissima, percezione certo dovuta all'effetto-guru, che mi faceva arrivare a dubitare della sua natura umana ("ma secondo te, chiesi una volta al compagno di studi, alla sera Derrida si infila anche lui le ciabatte? Mi pare impossibile!").
Dopo qualche tempo scoprii i libri di Maurizio Ferraris, che mi sembravano spiegarmi facilmente Derrida, quasi riducendomelo in formule. Ricordo qualcosa del tipo: "la presenza è un'assenza differente e differita"...
Ferraris mi urbanizzava Derrida, come sapevo che Gadamer aveva fatto con Heidegger (ciononostante leggendo Heidegger non sentivo il bisogno di un'esegesi d'altri che invece Derrida mi provocava).
Così, del tutto insoddisfatto degli insegnamenti pavesi, un giorno mi feci coraggio - non senza avere studiato per un anno a Strasburgo con i derridiani DOC Nancy e Lacoue-Labarthe - e telefonai a Ferraris (avevo cercato il suo numero sull'elenco telefonico).
Alla prima telefonata rispose una donna dall'accento straniero, dicendomi che il professore non era in casa. Alla seconda telefonata rispose Maurizio, molto gentile e dandomi un appuntamento a Torino all'uscita dall'università.
Abitavo ancora a Bra, perciò il giorno dell'appuntamento dovevo svegliarmi e prendere il treno per recarmi all'appuntamento. Misteriosamente la sveglia non suonò e mi ritrovai appena in tempo per tentare di prendere il treno successivo: lo persi, dunque pensai di andare a Torino con l'auto di mia madre, ma appena fuori dalla stazione mi resi conto che l'auto era senza benzina. Piangendo per la disperazione telefonai alla mia ex-fidanzata, spiegandole la mia angoscia e facendomi tranquillizzare da lei. Poi partii alla volta di Torino e arrivai in ritardo all'appuntamento. Ferraris era già ripartito per Milano.
Gli ritelefonai profondendomi in scuse e lui, sempre gentile, mi propose di vederci qualche giorno dopo, a Milano a casa sua.
Mi fece accomodare su una specie di chaise longue, o scomodissima poltrona con dei braccioli mobili e girevoli sui quali non potevo sostentare i gomiti. Bisognava stare eretti con un doloroso sforzo delle reni, il che sminuiva necessariamente la lucidità della mia performance comunicativa.
Gli spiegai che dopo avere studiato Derrida, in Francia avevo scoperto Deleuze e mi ero reso conto che il tema della scrittura poteva costituire un ottimo terreno di confronto tra i due pensatori che - nonstante ciò che si riteneva comunemente - dovevano necessariamente avere parecchio in comune. Tutto stava a trovarlo.
Ferraris mi raccontò che Deleuze non l'aveva conosciuto, ma che di lui Derrida criticava le assurde unghie lasciate crescere a dismisura, arricciate.
Ferraris mi disse che sì certo Derrida e Deleuze erano i massimi filosofi francesi, Lyotard un po' meno, e tuttavia, siccome erano due pensatori enormi e troppo vicini a noi, per confrontarli si sarebbe dovuto fare qualcosa come un détour, un heideggeriano Schritt zurueck ("passo indietro", ma questo lo dico io adesso, Maurizio parlava schietto).
Era il periodo che lui studiava Kant, questo l'avevo capito leggendo i ringraziamenti di certi suoi articoli recenti. In effetti ora so che era il periodo in cui preparava la sua virata anti-ermeneutica e quasi-analitica, che lo avvicinò a filosofi come Casati e Varzi.
Io però non ero per niente soddisfatto del détour propostomi, anche se cercai di non darlo a vedere: Kant non mi piaceva, sapevo che per Deleuze era un nemico, e in ogni caso mi puzzava di grande sgobbata e per giunta inutile.
Io volevo confrontare Deleuze e Derrida, che m'importava di Kant!
Seduto su quella scomodissima poltrona - mentre mi si configurava in mente che le possibilità di fare una tesi con Ferraris si riducevano col succedersi degli istanti - a un certo punto per darmi un contegno mi tirai leggermente su, inarcando faticosamente le vertebre lombari e feci, con nonchalance: "dovrò andare in caccia dei testi nei quali Deleuze e Derrida parlano di Kant".
Anziché scomporsi per la mia espressione neologistica ("andare in caccia"), Ferraris la ripeté facendola sua: "ecco, bravo, lei vada pure in caccia di quei testi e poi...".
Non lo disse per sfottermi, ma per quell'istinto mimetico immediato che contraddistingue Maurizio, qualcosa che lo rende elocutivamente spregiudicato e anche libero, fantasioso e piuttosto divertente, qunado non francamente brillante.
Nonostante la mia goffaggine, che secondo me mi rendeva un laureando del tutto improbabile, Maurizio mi regalò il suo nuovo libro, L'immaginazione, primo di una serie abbastanza lunga di libri ricevuti da lui.
In cambio, io non mi sono poi laureato con lui, e per giunta ho potuto soltanto fargli dono di Narradiohead.
Ignoro se Maurizio l'abbia letto e che cosa ne abbia pensato e non glielo chiederò mai.
E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
venerdì 21 maggio 2010
Facebook Therapy (FB&filosofia)
Secondo Freud, si sa, l'analisi è interminabile, eppure prima o poi termina (tranne che nel caso di Woody Allen) semplicemente a causa della finitezza delle nostre vite, e per ragioni pratiche, di soldi, tempo e accettabilità del raggiunto livello di analisi.
La frequentazione di Facebook presenta un'analogia con la terapia psicoanalitica: è pensabile che un giorno si smetterà di frequentarlo, quando ne saremo abbastanza appagati, e abbastanza sicuri di non potere fare nessuna nuova esperienza.
In principio si può stare su Facebook per tutta la vita, ma da un punto di vista pratico è sensato presupporre che arriverà il giorno di dire addio agli amici di FB.
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Nel passare dalle note su FB ai post di questo blog, mi rendo conto che quassù manca il pulsante "mi piace", e che questa mancanza mi fa desiderare meno di postare i miei pensieri.
Mi rendo conto che HO BISOGNO di quei piccoli feedback che mi arrivano ogni volta che posto qualcosa su FB. Mi rendo anzi conto che FB è fatta esattamente di quello, che senza quei piccoli atti di comunicazione non vivrebbe affatto.
Il punto è che sul blog non hai questi piccoli feedback del tutto non impegnativi: gli eventuali lettori potrebbero al massimo scrivere un commento, che però richiede un impegno maggiore.
Il fatto stesso che un blog si debba "andare a leggerlo" fa la differenza rispetto a FB: lì ci sono le notifiche che in maniera un po' random espongono l'utente a un flusso di eventi testuali e multimediali.
Su FB non bisogna impegnarsi per fare una scelta positiva ("vado a leggere il blog di Acotto") ma semplicmente cliccare se si vuole dare un'occhiata anche solo di sfuggita, oppure non cliccare se l'evento postato da qualche amico di FB, magari un simpatico sconosciuto, non sembra per nulla interessante.
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Nella terapia di gruppo il terapeuta interviene quando tutto rischia di esplodere, tiene le redini del gruppo, rintuzza e dà torto o ragione, mette ognuno al suo posto.
Su FB ci si può soltanto affidare al grande Altro di cui parla Lacan, l'istanza superiore sintetica che però non esiste realmente ma solo nell'Immaginario.
Litigare su FB è particolarmente impoverente perché alla fine nessun grande Altro interviene a darti alcun segno, e a lite terminata ti senti più solo di prima.
L'errore di quelli che guardano a FB come se fosse un laboratorio artistico e letterario, è dimenticare che si tratta innanzitutto di un laboratorio psicologico.
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Quando si fa una terapia di gruppo, le persone che compongono il gruppo diventano "persone fidate", se non proprio grate: sai che ci saranno sempre, o almeno per un bel po', che potrai sempre confrontarti con loro, in positivo e in negativo, attivamente o passivamente, almeno finché tu o loro non deciderete di abbandonare il gruppo e la terapia (cosa che in ogni caso avviene discutendone NEL GRUPPO).
Su FB, invece, le amicizie, alleanze e consorterie, non sono mai sicure, ma piuttosto tendono a una certa spettralità, sono evanescenti, possono scomparire di botto e da un giorno all'altro uno può avere l'impressione di essersi fino ad allora confidato con i mulini a vento.
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