[pubblicato su Vogue.it]
La moda ha uno statuto ambiguo, forse vicino all’arte ma vincolato alla più sfrenata produzione capitalistica di valore economico. Diversamente dal mondo dell’arte contemporanea, dove anche ai massimi livelli sopravvive seppure a fatica qualche forma di resistenza e difesa della persona dell’artista, nel sistema moda il confronto con il vertiginoso ritmo del profitto è molto più serrato, seriale e massmediatico.
Sarebbe assurdo negare che l’artista contemporaneo abbia a che fare con il denaro e le merci, e nella società occidentale l’arte è sempre stata remunerata (nonostante di tanto in tanto qualcuno lamenti la perdita di un’originaria e mitologica assenza di fini commerciali).
Ma il rapporto della moda contemporanea con il denaro e il guadagno è molto più intenso e uno stilista non ha forse molto tempo per riflettere sul proprio percorso e sulla propria attività.
Riesce difficile immaginare un affermato artista contemporaneo, un Maurizio Cattelan o un Damien Hirst, alle prese con le tensioni produttivistiche che sollecitano i creativi delle grandi case di moda. Queste tensioni potrebbero forse avere qualche peso nelle forme depressive che non di rado colpiscono stilisti molto in vista e acclamati da tutti (basti pensare al suicidio di McQueen e alla recente ospedalizzazione di Christophe Decarnin, direttore creativo di Balmain, per depressione).
Si potrebbe avanzare l’ipotesi che il sistema della moda “sprema” dal creativo tutto il possibile, senza curarsi del valore intrinseco della sua creatività. È la vecchia distinzione di Marx: c’è un valore di scambio, ed è quello che manda avanti il sistema del capitale, e c’è anche un valore d’uso, che è il valore autentico che le cose hanno per le persone: questo valore non è misurabile e nessuna retorica della “qualità” può proteggerlo dalla mania occidentale di mercificare e monetizzare ogni cosa.
Del valore intrinseco delle cose stiamo perdendo il senso, se non l’abbiamo già perso del tutto. La moda partecipa a pieno titolo di questo meccanismo perverso, e non può stupire nessuno che anche coloro che più dovrebbero trarre beneficio dal gioco possano invece scoprirsene improvvisamente stritolati. La società dello spettacolo non perdona nemmeno chi dello spettacolo è regista anziché spettatore.