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mercoledì 31 maggio 2017

Alfred Jarry, Il signor Faguet e l'alcolismo

"Non attaccate l'alcolismo!". E' questo il titolo di un articolo del Sig. Emile Faguet - nel quale egli lo attacca. Quand'è che non ci sarà più bisogno di ricordare che gli antialcolisti sono dei malati in preda a quel veleno, l'acqua, così dissolvente e corrosivo che la si è scelta tra tutte le sostanze per le abluzioni e le detersioni, e che una goccia versata in un liquido puro, per esempio l'assenzio, lo intorbida?

(La chandelle Verte, 1 marzo 1901)

martedì 30 maggio 2017

Casetta parigina (Roman nouveau, 10)


Casetta parigina

La ricerca di appartamento a Parigi, per uno studente straniero e spiantato, è cosa difficile e disgustosa: il fatto che io fossi in compagnia di un francese, il mio amico Yves, rendeva le cose un po' più più semplici, ma subivamo il trattamento riservato a tutti gli studenti.
Gli appuntamenti per la visita dell'appartamento erano organizzati tramite annunci su un apposito giornaletto settimanale, che Yves e io acquistavamo di prima mattina il giorno della sua uscita in edicola, dedicandoci freneticamente alla ricerca di situazioni abitative che facessero al caso nostro, cioè della nostra povertà. Dopo avere fatto una decina di telefonate per fissare l'appuntamento, ci dividevamo le visite e partivamo per il settore prescelto.
In base all'ordine di arrivo si formava una coda disciplinata di giovani in attesa davanti all'appartamento (la nostra fascia di possibilità era chiaramente da studenti). Ma la maggior parte dei postulanti non riusciva nemmeno a vederlo, l'appartamento. Di solito veniva scelto uno studente tra i primi della fila purché avesse le carte in regola, ossia: un conto in banca, una famiglia ricca che garantisse per lui, possibilmente anche delle lettere di referenza (ma questo per gli appartamenti borghesi). Se riuscivi a vedere l'appartamento non potevi concederti il lusso di dire "ci penso un attimo": o firmavi subito o perdevi l'occasione. In questo modo, dopo parecchie visite, uno si riduceva nello stato d'animo di prendere il primo appartamento possibile, per quanto malridotto, umido, buio e dotato del classico squallido cesso con moquette.
Uno straniero da solo avrebbe trovato più penosa la selezione: l'anno successivo – abbandonai Yves, con suo gran disappunto, perché la notte tornava spesso a casa ubriaco e allora diffondeva musica rap a tutto volume – visitai decine di appartamenti schifosi e costosissimi, le cosiddette chambres de bonnes, ossia le stanzette della servitù ricavate tra un appartamento borghese e l'altro negli edifici ottocenteschi: nove metri quadrati con muri sottilissimi che fanno penetrare penosamente il misero affittuario nella triste intimità della famiglia adiacente.
E tuttavia era difficilissimo trovare in affitto anche una di queste chambres. Mentre mi rifiutava, una volta un proprietario si lamentò con me, quasi commiserandosi, dicendo che dovevo capirlo, lui non ce l'aveva con gli stranieri, però una volta un caraibico lo aveva fregato, era partito senza pagare e i tribunali non avevano fatto nulla per riparare al torto. Non ce l'aveva con me ma non ero francese e non poteva rischiare di nuovo. "La capisco, mi dispiace", dissi consolandolo e andandomene via, rinunciando al suo appartamentino arredato di bel nuovo per studenti francesi.
Ma il primo anno a Parigi avevo al mio fianco Yves. Era la persona meno accomodante del mondo. Gli facevano schifo i padroni e non gliene fregava un cazzo di trovare un appartamento decente: purché ci dessero qualcosa in fretta a un prezzo accettabile. Accettabile, a Parigi significa comunque carissimo, ma c'erano gli aiuti dello stato francese per gli studenti. Fu così che accettammo un appartamentino con due stanze più cucinino, in rue de Lancry, a due passi da Place de la République. 
La nostra vita di studenti di filosofia a Parigi cominciava per davvero.

domenica 28 maggio 2017

Giornate mondiali della gioventù (Roman nouveau, 9)


Di fini d'agosto a Parigi ne ho viste tante perciò mi pare comprensibile che io le confonda le une con le altre. Ma quella del mio primo anno a Parigi la ricordo bene.

Appena arrivato nella metropoli, iniziai a cercare casa insieme a Yves, uno studente di filosofia che avevo conosciuto a Strasburgo durante l'Erasmus e del quale ero diventato amico. Nei giorni del mio sbarco a Parigi si svolgevano anche le Journées Mondiales de la Jeunesse, un mega raduno giovanile mondiale voluto dal papa polacco. Le strade di Parigi formicolavano di scout, e nella metropolitana non c'era spazio per procedere. Spesso per non essere urtati dai cattolici giovinetti bisognava saltare sui rialzi piastrellati che ornano le stazioni parigine della metropolitana. Dovevi aggrapparti a qualsiasi appiglio per non cadere: ti attorniavano fanciulli cattolici in fiore, maschi dalle barbe incerte e femmine dal colorito roseo, con il loro fastidioso strascico di schiamazzi canzoni di merda e immondizie.
Era un'invasione: io la percepivo come tale e Yves, da francese neo-parigino, era ancora più contrariato di me. Lui era cresciuto in una specie di comune fricchettona e odiava i cattolici. In effetti odiava anche i fricchettoni. Durante quei giorni di fine agosto Yves e io cercavamo casa mentre io iniziavo anche la metamorfosi che mi avrebbe trasformato in un tipico studente italiano a Parigi: mi sforzavo di visualizzare l'infinito che finalmente mi si apriva davanti. Ero arrivato nella città dell'infinito dei miei sogni.
Contrariamente alle belle speranze, però, fin dai primi giorni l'accidia mi prendeva esattamente come in Italia. Capitava, una delle prime sere, che mi aggirassi per la città, solo e in preda all’angoscia, guardavo i parigini senza provarne alcun piacere, mi parevano dei perfetti estranei, normali esseri umani privi di qualsiasi aura e charme. Inoltre, dopo un anno trascorso a casa di mio padre nel paese di Cherasco, sentire lo smog mi terrorizzava: pensavo che quell'aria inquinata mi avrebbe procurato il cancro ai polmoni.
Iniziai a domandarmi se venire a Parigi non fosse stato un tragico errore. Scrivevo sul mio diario annotazioni come questa:

10 dicembre 1998
Qualcosa non funziona: mi sveglio a mezzogiorno (perché non ero riuscito ad addormentarmi) e mi prende la voglia lontana di ammazzarmi... La merda è sublime. Il sublime è merda.

Lacaniani (Roman nouveau, 8)


Lacaniani

Per andare a Parigi e incontrare Badiou avevo chiesto ospitalità a un'amica di mio padre. Era una psicoanalista che avevo conosciuto anni prima in Italia. Quella sera, dopo che avevo incontrato Badiou, ero elettrizzato e durante la cena non mi trattenni dal parlarne. Raccontai che Badiou era un seguace di Lacan ma diceva di non avere mai fatto un'analisi; anzi in un suo testo si definiva come "inanalizzato".
Il compagno di Margaret, anche lui psicoanalista, disse che questa era una fortuna: aveva infatti ancora la possibilità di farsi analizzare. Umorismo da strizzacervelli. Il mio leggero risentimento per quell'affermazione - di presunta superiorità dell'analizzato sul non analizzato – fu vendicato quando Margaret si dichiarò "abbastanza lacaniana".
Tu, lacaniana? - disse il suo compagno stupito - non me lo avevi mai detto.
Be' dai, in Francia siamo un po' tutti lacaniani - disse lei per chiudere la discussione.

Andai a dormire soddisfatto: avevo seminato una zizzania non indifferente. 

Lacan definisce l'essere umano, hegelianamente, come mancanza-d'-essere, ed è per questo che un deleuziano non può apprezzarlo. Perché per Deleuze il desiderio è creazione, divenire, pienezza senza vuoti.

giovedì 25 maggio 2017

Concetti badiousiani (Roman nouveau, 7)


Concetti badiousiani


Il libro che ha reso definitivamente famoso Badiou si intitola L'Essere e l'evento. Vidi questo libro per la prima volta nella libreria di Strasburgo nella quale, durante il mio Erasmus, andavo spesso per familiarizzarmi con l'editoria francese, filosofica e non. Era un gran tomo, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Seuil. Ma ancor più che le dimensioni ragguardevoli, superiori a quelle di qualsiasi libro di Derrida o Deleuze, mi impressionavano i segni impressi al suo interno: all'incirca in un terzo delle pagine comparivano simboli logico-matematici che fino ad allora non avevo mai trovato in un libro di filosofia. Questo perché io conoscevo soltanto la filosofia continentale, o umanistica, o letteraria, che dir si voglia, ossia la filosofia che dialoga con la storia della filosofia, trattando i problemi di Platone e Nietzsche come se fossero attuali.
Avevo incontrato i simboli logici prima dell'università, quando leggevo inconsapevolmente libri come Gödel, Escher, Bach. Un'eterna ghirlanda brillante, di Douglas Hofstadter, oppure L'inconscio e gli insiemi infiniti, di Ignacio Matte Blanco. Libri scoperti grazie a quel grandioso manuale liceale di letteratura intitolato Il materiale e l'immaginario. Ma L'Essere e l'evento era il libro di un filosofo continentale, e trattava di filosofi classici come Spinoza, Hegel, Heidegger, ma anche di Cantor e Gödel.
La sua tesi fondamentale era che la matematica è ontologia. Una tesi di derivazione lacaniana, molto ambigua e probabilmente insensata come ho cercato di dimostrare nel mio unico articolo di filosofia pubblicato, ma che permette a Badiou di formalizzare in simboli matematici détournés, risignificati metaforicamente, certi concetti tradizionali della filosofia continentale.
Per esempio i concetti di soggetto, verità ed evento.
Il concetto di soggetto ha una lunga storia, che possiamo limitare, relativamente a Badiou, al percorso che va da Descartes a Lacan. Per Badiou, soggetto non è l'individuo razionale autonomo alla base del moderno senso comune liberale, bensì un effetto astratto: qualcosa che può storicamente incarnarsi in vari modi in seguito all'apparizione miracolosa di una verità (evento) e al derivarne certe conseguenze.
Anche il concetto di verità affonda le sue radici nella filosofia antica, ma Badiou usa il concetto di Lacan: una verità è un'epifania imprevedibile all'interno del precedente quadro di sapere. La dodecafonia e il cubismo sono esempi di verità artistica, la Comune e la rivoluzione bolscevica sono verità politiche, la scoperta dei numeri razionali è una verità scientifica, e il mio vecchio amore per Filippa è un tragico esempio di verità amorosa.
Ma per ora basta di questo.

martedì 23 maggio 2017

École Normale Supérieure (Roman nouveau, 6)


École Normale Supérieure

Un paio di giorni dopo avveniva infatti la proclamazione dei futuri normalisti. Mi recai in Rue d'Ulm al mattino presto e mi feci dire a che ora ci sarebbe stata l'informale cerimonia (una pubblicazione di risultati). Poi andai ad aspettare in un caffè lì vicino.
Prolungai la colazione fino al momento che mi parve opportuno per avvicinarmi a quel tempio del sapere scolastico, nel quale avrei trovato la mia divinità vivente: il professor Alain Badiou, allievo di Althusser, uno che da giovane parlava con Lacan e Foucault e contestava Deleuze!
Entrai all'Ecole Normale facendomi strada tra ragazzi e ragazze sovreccitati (essere ammessi là dentro come studenti significa rischiare di vedere il proprio destino pesantemente realizzato, o più prosaicamente: significa avviarsi a far parte della classe dirigente, di cui peraltro quasi tutti i normalisti sono già figli). Chiesi di Badiou, e qualcuno mi disse che lo avrei trovato nel cortile. Non sapevo bene che faccia avesse, non l'avevo mai visto prima. Sui suoi libri non c'erano fotografie e nel 1997 internet quasi non esisteva (anche se usavo l'email già nel 1993 per corrispondere con la fidanzata andata a Roma per il dottorato) e soprattutto non c'erano le immagini on-line, quindi non potevi verificare sui due piedi che faccia ha un tizio famoso qualsiasi.
Vidi un uomo di mezza età attorniato da alcuni giovani deferenti e qualche adulto e capii che si trattava di lui. Mi avvicinai e aspettai che finisse di parlare col suo interlocutore.
- Buongiorno, mi scusi, è lei monsieur le professeur Badiou? chiesi io con un rispettosissimo sorriso.
- Absolument, rispose Badiou.
Questo "assolutamente" mi parve brillantissimo. “Sono assolutamente io” è una frase bizzarra, sembra sarcastica e priva di senso: invece secondo la teoria matematica delle categorie un oggetto x può essere più o meno simile a se stesso. La specificità di Badiou è in effetti il suo mescolare creativamente matematica e filosofia, in un modo incomprensibile e fastidioso per i matematici, e intimidente per i filosofi digiuni di matematica. Badiou parla d'amore e di politica attraverso formule simboliche più o meno fantasiose. Ha ereditato questo stile formulare da Jacques Lacan, di cui seguiva i Seminari a Parigi negli anni Settanta e Ottanta, e dal quale è stato influenzato moltissimo, come tutti i filosofi della sua generazione.
Nella sua ultima filosofia, che stava elaborando all'epoca in cui arrivai a Parigi, Badiou mutua i suoi concetti ontologici dalla teoria delle categorie, o topoi, di Eilenberg e MacLane. In questa teoria un oggetto x formalizzato in un mondo o trascendentale ha un certo grado di somiglianza con un oggetto y: se il grado di somiglianza è massimo, x e y coincidono, e l'identità (x=x) è un caso particolare di somiglianza categoriale.
Al nostro primo incontro, insomma, Badiou mi diede una lezione che non potevo comprendere, perché quando arrivai a Parigi non sapevo quasi nulla di matematica, e tanto meno di teoria delle categorie.
- Io sono lo studente italiano – gli enunciai cercando di sembrare quanto più possibile diverso da uno scocciatore – che l'ha cercata per l'iscrizione al D.E.A. Mi scusi se la disturbo proprio oggi, in questo contesto e in questa situazione particolare, ma le ho telefonato molte volte e non l'ho mai trovata...
- Ah sì – disse il grand'uomo. E non disse altro.
- Ecco, ripresi allora io, dovrei sapere con certezza se lei acconsente alla mia iscrizione oppure no.
- Non c'è nessun problema, può iscriversi al D.E.A.
- Sotto la sua direzione?
- Sotto la mia direzione.
Gli feci firmare il foglio che mi avevano dato a Paris8, e per tenerglielo fermo lo appoggiai sul tettuccio di un'automobile parcheggiata nel cortile: era rovente e mi bruciai il dorso della mano, ma sopportai stoicamente il dolore per non mettere a rischio la preziosissima firma.
Me ne andai un po' stordito, con la mano dolorante. Questo semplice incontro di natura burocratica mi sembrava allora un evento quasi miracoloso, parecchio inadeguato a me. Mi pareva di subire una metamorfosi, come se stessi iniziando un processo di accrescimento glorioso, ormai circonfuso di luce destinale.
O come si potrebbe più appropriatamente dire: mi sentivo preso in una procedura soggettiva di fedeltà a quell'Evento che per me Badiou rappresentava necessariamente.

lunedì 22 maggio 2017

Paris 8 (Roman nouveau, 5)


Paris 8


L'università di Paris 8 - Vincennes/Saint-Denis si chiama così perché un tempo si trovava a Vincennes, proprio dentro l'omonimo bosco a sud-est di Parigi <mappa>, mentre dal 1980 è stata spostata a Saint-Denis <mappa>.
Lo spostamento di Paris 8 da Vincennes a Saint-Denis non è stato un semplice atto urbanistico-amministrativo ma una vera aggressione politica. A Paris 8 insegnavano, tra gli altri, Deleuze, Lyotard, Foucault; insieme a Nanterre (Paris X), Paris 8 (col numero arabo) era l'università più rivoluzionaria di tutta la capitale francese. Dagli anni Sessanta vi si conducevano esperimenti didattici di stile un po' anarchico. Le video e audio-registrazioni delle lezioni di Deleuze conservano un ricordo di tutto ciò. Nell'aula deleuziana non vigeva alcuna gerarchia, tranne quella dovuta al carisma del professore, che non sedeva in cattedra ma in mezzo agli studenti. Le domande sgorgavano liberamente, tutti potevano chiedere ciò che volevano, in un regime di uguaglianza sostanziale.
Ma quali sono i limiti di una rivoluzione micro-politica accettabili dall'istituzione accademica strutturalmente fascista? Si dice che a un certo punto fu assegnata una maîtrise (laurea) ad un cavallo, in segno di spregio per i diplomi e con gesto mimetico – penso io – della nomina senatoriale del cavallo di Caligola.
Sia come sia, le istituzioni dissero basta. Sindaco di Parigi era Jacques Chirac, immeritatamente destinato a diventare due volte presidente della République: lui e la ministra dell'Instruction publique diedero l'ordine di sgombrare l'università di Vincennes, i cui edifici in muratura furono rasi al suolo dal furore normalizzatore. In seguito alla distruzione punitiva, l'università fu ridislocata a Saint-Denis (donde il doppio nome), agli antipodi di Vincennes, a nord-ovest, in una vera e propria banlieue, città nella città, ghetto abitato in gran parte da arabi e africani, a quel tempo di prima e seconda generazione.
La nuova sede universitaria era costituita da prefabbricati che durarono per decenni, almeno fino a quando ci andai io nel 1997, e soprattutto fu costruita proprio a cavallo di una superstrada, quasi a evidenziare che la punizione per i professori rivoluzionari, che avevano insultato le istituzioni borghesi, doveva ricadere in eterno sugli studenti. Quando dico “a cavallo di una superstrada” intendo proprio che per andare da una parte all'altra dell'università si attraversavano dei ponti e dei corridoi sopraelevati: non li ho mai visti dalla prospettiva degli automobilisti ma suppongo che per loro il tutto debba avere un po' l'aria di un autogrill.
In seguito, poi, i socialisti fecero in modo di dotare l'università della più grande biblioteca universitaria di Francia, come indennizzo per l'umiliazione subita; tuttavia in questa babelica biblioteca, che a me piaceva molto, furono dimenticate cose fondamentali come le prese per i computer.

La prima volta che misi piede a Paris 8 ebbi una sensazione mai conosciuta prima. Io che ero vissuto sempre nella provincia italiana ebbi la percezione diretta di essere parte di una minoranza etnica: era luglio e non c'erano molti studenti, ma a una prima occhiata quelli che erano lì erano tutti arabi o africani. Non mi ero mai trovato in mezzo a tanta gente con la pelle di un colore così più scuro della mia e mi sentii immediatamente fuori posto.
Cercavo la segreteria del dipartimento di filosofia e trovai una stanzetta affollata di persone che con l'ufficio non c'entravano nulla. Ancora non sapevo che quella di filosofia a Paris 8 era una "segreteria collettiva", in cui tutti i presenti rispondevano alle domande di chiunque, se sapevano farlo. Nessuna autorità, nessuna gerarchia: si potrebbe dire che il segretario fosse solo una singolarità della moltitudine. In realtà era un tipo scazzatissimo, ma questo l'ho capito più tardi.
Chiesi del segretario e mi dissero che era via, nessuno sapeva se e quando sarebbe tornato. Dato che era la mia ultima occasione per farmi firmare da Badiou le carte vidimate dalla segreteria, necessarie per poter iniziare l'anno universitario a settembre, provai l'angoscia di vedermi a un passo dalla meta e poi fregato, come per l'Erasmus con Derrida.
Vagando a caso per i corridoi qualcuno mi additò per miracolo il segretario di filosofia, che passava di lì proprio in quel momento: era un signore coi capelli rossi e un nomignolo che mi sembrava arabo e invece era berbero. Aveva un aspetto hippy: barba lunga e incolta, berretto maghrebino, parecchi anelli vistosi e soprattutto un'aria di strafottente importanza che nel corso degli anni mi diede sempre più fastidio. Mi disse che ormai erano cominciate le vacanze e che Badiou potevo trovarlo soltanto alla proclamazione dei vincitori del concorso per l'ingresso all'Ecole Normale Supérieure, in Rue d'Ulm. Decisi pertanto di andare a cercarlo lì, all'Ecole Normale Supérieure, in Rue d'Ulm. Nonostante l'angoscia di rischiare il fallimento della mia impresa, ero anche invogliato dal desiderio di vedere la mitica grande école nella quale avevano prima studiato e poi insegnato i più importanti filosofi francesi del XX secolo.

domenica 21 maggio 2017

Poesia di Tom Morello per Chris Cornell



Sei un principe, un tranello, un'ombra

Sei crepuscolo fuoco stellare e ombra 

Sei un uomo saggio, una ferita condivisa, porti una maschera

Sei una colonna di fumo, un cuore di platino 

Sei un cespuglio infuocato, sei imprigionato, libero 

La tua visione pentera, e tu non vedi

I tuoi frammenti sono sparsi sulla collina

Sei a braccia aperte, sei armato, sei vero

Sei un rivelatore di visioni, un passeggero, una cicatrice mai scomparsa

Sei crepuscolo fuoco stellare e ombra 

Sei il velato segreto, il segreto rivelato, non sei più assediato

Non ci sei più, ora sei qui  per sempre

Sei un bellissimo sposo, un padre amorevole, un corridoio spiritato

Sei lo squillo chiaro delle campane, le montagne riecheggiano la tua canzone 

Forse nessuno ti ha mai conosciuto 

Sei crepuscolo fuoco stellare e ombra

(19 maggio 2017)



You're a prince, you're a snare, you're a shadow

You're twilight and star burn and shade

You're a sage, you're a wound shared, you're masked

You're a pillar of smoke, you're a platinum heart

You're a brush fire, you're caged, you're free

Your vision pierces, you do not see

You are pieces strewn on the hillside

You're open armed, you're armed, you're true

You're a revealer of visions, you're the passenger, you're a never fading scar

You're twilight and star burn and shade

You're the secret veiled, you're the secret revealed, you're surrounded no more

You're not there, now you're always here

You're a handsome groom, a loving father, a haunted stairwell

You're the clear bell ringing, the mountains echo your song

Maybe no one has ever known youYou are twilight and star burn and shade

sabato 20 maggio 2017

L'Erasmus mancato (Roman nouveau 4)

L'Erasmus mancato (forse nota n.1)

Uno dei primi libri importanti di Derrida si intitola La voce e il fenomeno: è un confronto con la fenomenologia husserliana, questa filosofia che si voleva assolutamente rigorosa e che invece Derrida mostra essere vincolata a presupposti criticabilissimi, che assoluti proprio non sono. Nella sua tesi di dottorato, anche Theodor Wiesengrund Adorno  aveva argomentato, da hegeliano, contro l'assoluta e astratta purezza della fenomenologia della coscienza intenzionale. Ma Derrida non pare avere mai preso troppo sul serio Adorno. Il che è quantomeno singolare, data l’importanza del pensiero adorniano per la filosofia critica della seconda metà del XX secolo. Anche in filosofia dobbiamo dire de gustibus? Una parziale spiegazione di questa omissione potrebbe essere la seguente: il discorso di Derrida procede da presupposti heideggeriani ed è vero che Heidegger era certamente il peggior avversario di Adorno, secondo Adorno.
In La voce e il fenomeno, Derrida sostiene che Husserl – al culmine della tradizione metafisica occidentale che Heidegger riuscirà successivamente a s-fondare (i filosofi dicono così, senza alcun senso del ridicolo) aprendone l'oltrepassamento e insomma la via di fuga – consideri la scrittura come un mero supplemento segnico della viva sorgente del logos, ossia l'anima, psiche o coscienza, ripetendo così, Husserl, la posizione della metafisica occidentale eminentemente rappresentata dai casi emblematici di Platone, Rousseau e Lévi-Strauss.
Secondo Derrida la voce viene considerata, per pregiudizio metafisico, l'origine di cui la scrittura è copia. Questo sembrerebbe un punto di vista condivisibile ma per Derrida cela una trappola trascendentale: da dove viene la voce? Che cos'è quello spirito che anche San Paolo contrapponeva alla lettera e che sembra più reale perché presente nel presente?

La musica in quanto suono si svolge nel presente, è simultaneità fonica. E dunque la posizione derridiana mi pareva suscitare molti problemi per la filosofia della musica, la quale musica, in quanto preistoricamente apparentata alla e originata dalla voce umana, poteva ben dirsi avere una primazia rispetto alla sua trascrizione codificata e dunque alla scrittura musicale.

Al mio terzo anno di filosofia a Pavia avevo scoperto che la facoltà di musicologia di Cremona elargiva a studenti pavesi, di filosofia o di altre discipline nemmeno troppo musicologiche, borse Erasmus per studiare a Parigi. Io avevo quel progetto di tesi sulla voce e la musica e decisi pertanto di candidarmi per una borsa che mi avrebbe permesso di andare a studiare con Derrida. E la facoltà di musicologia di Cremona non ebbe problemi ad attribuirmi la borsa di studio.
Ero al settimo cielo: sapevo perfettamente che se fossi andato a Parigi già durante i miei studi universitari il mio destino sarebbe cambiato moltissimo. Voglio dire: è comunque cambiato col mio andare a Parigi dopo la tesi, ma sarebbe cambiato molto di più e in meglio (non posso fare a meno di pensarlo) se vi fossi andato ancora nel pieno della mia innocenza universitaria. A differenza del mio voler andare a Parigi dopo la laurea, il sogno di andare a studiare a Parigi con Derrida per la mia tesi di laurea non era affatto vuoto.
Ma dopo un po' di tempo mi telefonarono da Cremona: la mia borsa di studio non esisteva più, perché gli eurocrati di Bruxelles si erano accorti che venivano elargite borse Erasmus senza i dovuti controlli, e quindi Cremona era stata improvvisamente radiata dal programma europeo. Dopo anni che tanti ne avevano approfittato. Soprattutto, proprio nell'anno in cui ne volevo approfittare io, per altro con fondate ragioni e intenti cristallini ben diversi da quelli dei lazzaroni andati a Parigi a divertirsi.
Non avendo a chi confidare il mio dispiacere, perché agli amici e compagni di collegio, al di là di un dispiacere formale, il mio danno non sembrava, anzi eliminava un’ingiustificabile botta di culo, mi ubriacai a pranzo alla mensa del Collegio Ghislieri, con quel vino schifoso che ci mettevano a disposizione a ogni pasto, confidando forse che non ne potessimo abusare dato il suo grado di velenosità oppure comminando implicitamente una pena agli studenti capaci di bere tale vinaccio. 
Poi salii nella mia camera, che quell'anno dava sulla piazza antistante il Collegio, infilai nel mangiacassette la Bachiana brasileira n. 5 di Heitor Villa-Lobos e lo posizionai sul davanzale in direzione della piazza, diffondendo al massimo volume quella musica composta e selvaggia, coi suoi romantici violoncelli e il soprano dolcemente struggente. Terminato il brano bipartito, spensi tutto e mi misi a dormire, sognando che un giorno sarei andato a Parigi. 
Forse sognai anche che vi sarei morto.