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sabato 25 dicembre 2010

Benvenuti nel deserto del Natale (improponibile per Vogue.it...)

A dare retta al filosofo Oswald Spengler, si direbbe che il tramonto dell’Occidente sia iniziato più di un secolo fa, anche se non se ne vede ancora la fine.
In epoche di crisi come la nostra, i simboli a lungo lasciati vivere indisturbati diventano simboli scottanti, all’incrocio di terreni di battaglie ideologiche (si pensi al crocefisso in aula).
Babbo Natale è uno di questi simboli, apparentemente innocui, segnali di epoche storiche appena trascorse, eppure irrecuperabili: la sua sorte sembra essere definitivamente segnata.
In Nightmare before Christmas Tim Burton riservava a Santa Klaus (“Babbo Nachele”) una divertentissima serie di crudeltà: a causa di un equivoco veniva rapito e torturato prima di essere quasi ucciso da alcuni abitanti del regno di Halloween che avevano mal interpretato la volontà del suo sovrano, Jack Skeletron.
Il capolavoro di Burton inscena diverse inquietudini proprie dell’immaginario natalizio: non in tutti i mondi si può capire il messaggio di gioia e bontà di cui è latore Babbo Natale. Se si abita un mondo orripilante (come quello di cui il mondo di Halloween è un’iperbole) il messaggio sarà inevitabilmente distorto e impregnato dell’orrore noto.
In una società che fatica ad andare avanti, per non dire peggio, chi può ancora provare una gioia autentica di fronte a un simbolo fasullo come Babbo Natale? (La leggenda metropolitana secondo cui il Santa Klaus a noi noto sarebbe un’invenzione della Coca Cola è falsa, ma significativa).
A fronte di persone il cui tenore di vita non è tale da permettere grandi sprechi nemmeno sotto le feste, a meno di indebitarsi, ci sono numerose altre persone che vorrebbero proteggere il loro mondo dorato, e continuare a far credere ai loro bambini che Babbo Natale esiste e porta i doni ai bimbi buoni.
Purtroppo Babbo Natale non esiste, come ben sapevano le generazioni italiane precedenti il dominio del consumismo. E dopo una breve parentesi legata alla volontà di felicità della generazione del boom economico, di cui la Generazione X è figlia, ora questo è più evidente che mai: nessuna finzione edificante è possibile, e di fronte ai bambini si estende quello che, con un prestito da Matrix, lo psicoanalista e filosofo sloveno Slavoj Zizek chiama il deserto del reale.
Benvenuti nel deserto del Natale.

mercoledì 22 dicembre 2010

Memorie d'altri tempi. Roberto Casati

Roberto Casati è il filosofo in carne e ossa più importante della mia vita, ma fino al 1997 non sapevo chi fosse, perché fino ad allora mi ero occupato di filosofia francese postmoderna.
La filosofia analitica era per me qualcosa di remoto e incomprensibile (mi risulta ancora abbastanza indigesta a dire il vero).
Quando per la prima volta osai fargli una domanda (eravamo a casa di un'amica comune) gli chiesi per quale ragione le scienze cognitive fossero così importanti per la filosofia e lui mi rispose che le scienze cognitive liberano la filosofia dalla dittatura delle intuizioni.
Se in passato ogni filosofo poteva avere la sua intuizione metafisica su questo e quello, ora invece le intuizioni devono passare il vaglio del riscontro sperimentale.
Per esempio il "filosofo in poltrona" afferma che tutti gli uomini pensano di essere dotati di buon senso: questo può essere vero come falso, che ne sa il filosofo, finché se ne sta seduto sulla sua comoda poltrona? In questo senso, fare eseprimenti sul reale funzionamento della cognizione umana rende evitabili gli errori dovuti alle intuizioni sbagliate.

In effetti, poi, ho capito che anche facendo esperimenti, alle intuizioni non si sfugge.

Memorie d'altri tempi. Capodanni paradossali, 2

Facevamo il liceo. Avevamo diciotto anni. C'era anche un mio compagno che adesso è un politico importante in un partito nazista di merda.
Andammo a Spotorno, a casa di un'amica.
Bevevamo parecchio già prima della mezzanotte.

[continua]

Dispacci di memoria involontaria, 3

A Parigi, in un momento di visita dottorale, quand'ero vegetariano, una sera andai a una cena con amici e amiche del mio amico ospite, e dopo ci si diresse tutti in un locale ove ballare e fare tardi. Indossavo un brutto piumino, credo, e all'ingresso del locale il buttafuori mi disse che non potevo entrare perché non avevo la camicia - avevo una dolcevita.
Secondo me la colpa era del piumino di Zara verde schifoso da 34 euro.
Pensai per un attimo che anche gli altri sarebbero rimasti fuori se io non potevo entrare invece entrarono tutti, anche il mio amico che mi disse che gli dispiaceva, cazzo.
Tornai da solo a casa sua, aprii il frigorifero, divorai mezzo salame per la rabbia.

domenica 19 dicembre 2010

Memorie d'altri tempi. Capodanni paradossali, 1

[me ne sono ricordato solo questa sera guardando i video dei Nirvana].

Era appena uscito il disco ed io ero in collegio il mio primo anno. Avevo il braccio lussato per la seconda volta, ripiegato sul torace e fasciato da circa dieci giorni.
Il nostro amico veneziano, Leo, ci aveva invitati a un capodanno dalle sue parti, ma non ricordo come arrivammo da Venezia a S.......... V.... .
La festa si svolgeva in un residence estivo completamente disabitato: c'eravamo solo noi e i nostri ospiti, qualche decina di ragazzi, nell'appartamento del nostro ospitante.
Mancavano il gas e l'acqua e faceva freddo, inoltre io non potevo nemmeno ballare per via del braccio fasciato.
Alla festa c'erano anche le canzoni dei Nirvana, erano appena diventati famosi in Italia. Mi sembravano una musica pazzesca, e ancora oggi mi fanno quell'effetto. Credo che Cobain sia un genio assoluto e mi fa pensare a DFW.
Comuqnue non ricordo quanto ho bevuto, né se ho mangiato, a quel Capodanno.
C'eravamo: io, Leo, Max, Moreno, Valeria, "il Ciàina", Rosella, Gianni, qualcun altro che non ricordo.
Ero un po' invaghito di Valeria, ma ancora mai stato fidanzato quindi incapace di dichiararmi o fare mosse seduttive di alcun genere. Però quella notte era chiaro che avremmo dormito un po' ammucchiati, sembrava una gita alcolica postadolescenziale.
Al momento di scegliere il letto mi ritrovai con Valeria al secondo piano di un letto a castello, in una stanza con svariate persone in svariati letti: ma sembrava che il mio desiderio fosse stato ascoltato da un dio del desiderio perché mi ritrovai accanto a Valeria. Ma subito arrivò Leo, bello pieno d'alcol: si arrampicò sulla nostra cuccetta e venne a sdraiarsi esattamente tra me e Valeria, incurante delle mie proteste ("il mio mio braccio! non posso stare così stretto!").
Sconfitto e certo di meritarmelo uscii dal letto a castello per andare a cercarmi un altro giaciglio. Ma non c'erano altri giacigli in tutta la gelida casa. Non mi persi d'animo e uscii dall'appartamento, perché nel corso della festa avevo sentito dire che erano state sfondate porte di appartamenti adiacenti. I vandali erano gli stessi amici del proprietario, che a me resterà per sempre ignoto.
Trovai una porta sfondata, l'appartamento era buio, non vedevo niente. Entrai a tentoni, con un braccio solo come antenna, dato che il destro fasciato era inutilizzabile. Incappai in un tavolino basso su cui erano posati vasi di piante, evidentemente riposti per l'inverno (Mi sembrò evidente, ma se non era per quello per che cosa erano stati accumulati lì tutti quei vasi?) e trovai un letto a castello. Era anche quello pieno di vasi, li riconoscevo al tatto.
Cercate di capirmi: dovevo dormire e disponevo di un braccio solo, cosa potevo fare? Scaraventai tutti i vasi per terra e mi lasciai cadere sul letto così liberato, nel buio più profondo, relativamente soddisfatto di avere trovato un posto per dormire.
Temevo di venire svegliato nel corso della notte dalla polizia o dai proprietari dell'appartamento infuriati, ma mentre mi addormentavo strutturavo mentalmente la mia apologia: non ero stato io a sfondare la porta, mi dispiaceva molto, mi rendevo conto del danno subito, d'altra parte avevo bisogno di dormire e in ogni caso avevo cercato di fare il minor disordine possibile. Mi addormentai quasi divertito e nessuno venne a svegliarmi.

Il giorno seguente tornammo a Venezia. Sentii dire che c'erano stati danni per decine di milioni, ma mi sembrava che fossero tutti allegri e conteni, come se avessero passato un gran bel capodanno.

venerdì 17 dicembre 2010

Danilo Dolci, il “Gandhi della Sicilia” (Senza violenza 3)

Danilo Dolci (1924-1997) è stato «uno studioso, un poeta, un filosofo e, anche se non riconosciuto, un politico. Dolci non si può comprimere in nessuno schema: aveva una sua grande religiosità e una sua grande concretezza. Univa il digiuno alla lotta alla mafia, la pedagogia all’azione nonviolenta. La poesia al dibattito» (Marrone-Sansonetti).

Nel 1956 Danilo Dolci viene processato a Palermo per aver organizzato un’azione nonviolenta come lo sciopero alla rovescia nella “trazzera” di fango, vicino a Partinico. «In sostanza che cosa aveva fatto Danilo Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della nonviolenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza, e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio, digiunando prima per unire a sé gli animi mediante l’umiltà e la sofferenza [...]; aveva impegnato alla nonviolenza, a non portare nemmeno il coltello per tagliare il pane (dopo San Francesco nessuno in Italia tanto appassionatamente e insistentemente aveva preso, uno per uno, le persone del popolo per persuaderli a non reagire violentemente:  - Bisognava far risparmiare allo Stato le spese per la polizia armata, perché mandi invece tecnici agricoli, insegnanti, assistenti sociali -; aveva scelto una strada abbandonata e piena di fango (trazzera) fuori Partinico, e lì avevano cominciato a riattarla. Una società che ammette la «legittima difesa», tanto più dovrebbe ammettere l’«iniziativa educatrice»; e se mai ve ne fu una, tale era quella di Danilo [...]: era non una guerra, ma un atto di pace, mediatore il lavoro, con la società che non si valeva dei suoi strumenti, che sono le amministrazioni pubbliche, per accogliere nella pace del lavoro quella folla di disoccupati. Era un atto di amore, non di vendetta, una mano tesa [...])» (Capitini A., Danilo Dolci, p.6).
Dolci ha ben chiara la logica della nonviolenza e intende propagarla in mezzo al popolo. Lui che stava per sposarsi e diventare architetto al nord, aveva abbandonato tutto ed era andato in Sicilia per questo. Nell’autunno del 1952 arriva nella povera zona di Montelepre, nel poverissimo villaggio di Trappeto. Molti che erano diventati banditi per necessità riconoscono in lui una persona che vuole davvero cambiare le cose.
Nel ’52 quando vede un bambino morire di fame digiuna finché le istituzioni non promettono di fare qualcosa. Ma non è ancora il fare presto e bene perché si muore, che Dolci invoca in un suo libro.
Nel ’56, pertanto, Dolci organizza uno “sciopero alla rovescia”: «riunioni e riunioni si moltiplicavano a vari livelli. Ponevo soprattutto questa domanda: “come è necessario muoversi per vincere?”. Via via tutti salivano un gradino più alto nella problematica. Naturalmente le proposte o le indicazioni si avviavano esagitate: bruciare il municipio, tirare sassi sulle caserme dei carabinieri, fermare i treni... Messe più a fuoco, invece, le proposte prendevano una forma più consistente, acquistavano concretezza. [...] il 30 gennaio del ’56 si decise di digiunare in millle persone; poi di indire uno sciopero per il 2 febbraio. Tutto venne accuratamente preparato [...].
Innanzitutto pensammo di informare accuratamente l’opinione pubblica su quello che stava per accadere. Mandammo ciclostilati e lettere dappertutto, al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al Presidente della Regione Siciliana. Erano state raccolte tra la popolazione millecinquecento firme, in appoggio alle nostre richieste, basate soprattutto sull’irrigazione della terra e sull’apertura di scuole. Proprio in quei giorni, all’incirca alla metà del gennaio ’56, mi avevano invitato a Torino per una trasmissione televisiva intitolata “Orizzonti”. Avvertii i funzionari e gli organizzatori che avrei parlato chiaro.
[...] Allora si trasmetteva in presa diretta: avvertii che avremmo fatto uno sciopero particolare, cioè lavorando a una strada di campagna, necessaria, ma quasi impraticabile. Furio Colombo, che curava la trasmissione, mi assicurò che andava in onda; due giorni dopo, venni a sapere che era stato estromesso dalla rubrica, anzi mi dissero che era stato licenziato dalla Rai. [...]» (Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, p.62)
L’opposizione delle istituzioni e della chiesa cattolica contro un’iniziativa nonviolenta, e per di più di pubblica utilità, fu durissima. Oltre al processo, Dolci fu attaccato e calunniato in ogni modo, relativamente alla serietà dei suoi digiuni, poi per un racconto-inchiesta pubblicato nel 1955 su Nuovi Argomenti, che secondo gli stigmatizzatori era “pornografia”.
Quando nel 1957 Dolci ricevette il «Premio Lenin per la pace», ciò costituì un ulteriore capo d’accusa da parte della destra. Dolci spiegò che, pur non essendo comunista, avrebbe accettato il premio, che costituiva un riconoscimento dei metodi nonviolenti da parte dell’Urss, anche per poter utilizzare il denaro per il Centro di studi per la piena occupazione in Italia.
In un’intervista all’Espress, Dolci affermava: «Ciò che importa, è che la nonviolenza si faccia strada in ogni gruppo politico e, a questo riguardo, credo al mantenimento di un contatto costante con persone che si augurano una trasformazione profonda, rivoluzionaria, ma nonviolenta, dei rapporti sociali» (p.13).
Del resto perché stupirsi se uno come Dolci accettava un premio proveniente dall’Urss: in fin dei conti, notava Capitini, «non vedemmo Gandhi andare a far visita a Mussolini?» (ibid.).


Testi citati:
Capitini A., Danilo Dolci, 1958, Lacaita Editore, Manduria.
Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Arnoldo Mondadori Editore.


(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

Johan Galtung. Pace con mezzi pacifici (Senza violenza2)

Il norvegese Johan Galtung (1930), fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institut e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti, di formazione è sociologo e matematico. Le sue opere ammontano a qualcosa come 95 libri e oltre 1000 articoli.
Numerose sono le situazioni nelle quali le istituzioni internazionali si sono rivolte a lui per consulenze tecniche in fatto di mediazioni di conflitti.

Il padre e il nonno di del professor Galtung erano medici, sua madre un’infermiera: «La mia intera famiglia era dedita alla cura della malattia. Ciò mi ha educato alla credenza ottimistica che ogni problema può essere risolto» (Intervista1).
Anziché diventare un dottore che cura le malattie del corpo, Galtung divenne uno studioso delle malattie che affliggono la razza umana nel suo complesso: la guerra e la violenza. Galtung ha infatti inventato un nuovo settore di studi delle scienze sociali la peace research, una disciplina che si sta affermando nelle Università di tutto il mondo e da ultimo, lentamente, anche in Italia.
Di primo acchito può forse sfuggire l’innovazione apportata da Galtung alle scienze umane, ma è sufficiente osservare che prima di Galtung non esistevano centri di studi sulla pace. Certamente esistevano studiosi di problemi militari. Ma definire la pace come assenza di guerra è secondo Galtung come definire la salute come assenza di malattia: significa perdere interamente di vista  che cos’è che rende salute la salute, e come essa funzioni.
Il punto di forza del pensiero di Galtung è quello di avere fatto della pace un concetto ben determinato, anzi un intero vastissimo campo di ricerche. Sua è la distinzione del concetto di pace in pace negativa (assenza di guerre), positiva (tensione verso una società più giusta), nonviolenta (superamento delle ingiustizie con mezzi nonviolenti).
Per chi pensasse al professor Galtung come a un compassato accademico, ecco un episodio che mostra come anche i teorici sappiano essere coerenti con le loro idee a prezzo di rischi personali. Nel 1968 durante una conferenza nella Germania dell’est iniziò a criticare l’intervento militare del Patto di Varsavia a Praga, nella primavera dello stesso anno : venne subito afferrato braccia e gambe da due robusti uomini vestiti di nero e trasportato via di peso. Siccome il microfono era acceso continuò a parlare per un certo tempo, poi fu infilato su un’auto e portato all’aereoporto.
L’indagine di Galtung sulla pace e la nonviolenza parte da Gandhi e passa per il buddismo, che gli appare come l’unica filosofia in grado di spiegare pienamente l’essenza della pace. Ma il sincretismo proprio del suo stile di pensiero lo porta a ricercare idee interessanti e feconde in ogni orizzonte culturale: «In quanto norvegese, sono molto più pragmatico di un francese o dei tedeschi. Mi sembra naturale prendere una cosa qui, un’altra là, e mescolarle. Conoscendo un po’ le religioni, ho trovato qualche idea meravigliosa e affascinante che posso usare come riferimento nella mia vita. [...] Non credo nelle barriere. È molto più eccitante non curarsi delle barriere e scoprire vaste aree di saggezza...» (Intervista2).
L’attività di Galtung non è puramente accademica, perché il suo ruolo di consulente in situazioni di conflitto ha spesso portato a risultati concreti. Per esempio, in un dissidio relativo alla linea di frontiera fra Perù ed Ecuador. La proposta di Galtung constava di quattro parole (pare che le soluzioni ai conflitti debbano poter essere formulate così): area binazionale, parco naturale. Proposta accettata.
Il segreto dell’arte della mediazione nonviolenta? «In primo luogo identificare i partecipanti, fare una ricognizione dei loro obiettivi,  e trovare le loro contraddizioni ; in secondo luogo distinguere fra obiettivi legittimi e illegittimi ; infine costruire ponti fra rispettive posizioni legittime» (intervista2).
È il concetto di costruzione di ponti a dover guidare la mediazione. Normalmente si parla di compromessi, ma la parola, anche in italiano, ha una connotazione negativa, implica l’idea che nella migliore delle ipotesi ci sia una perdita del 50% per ciascuna delle parti. Ma la mediazione può far emergere nuove possibilità (come l’area binazionale fra Perù ed Ecuador trasformata in parco naturale), ci si può accorgere che la situazione non è necessariamente un “gioco a somma zero” dove quello che guadagna l’uno lo perde l’altro.
Nelle numerose esperienze concrete di mediazione fatte da Galtung, alcune si sono concluse bene, altre no. Ma nella prospettiva del mediatore di conflitti, un fallimento non è un punto conclusivo.
La regola da seguire? Dialogare, dialogare e ancora dialogare.


Interviste consultate (in inglese):
1.   Father of Peace Studies: http://www.sgi.org/english/Features/quarterly/0201/portraits.htm
2.   Johan Galtung, expert in peace negotiations: “The world’s main terrorist is in Washington”: http://www.barcelona2004.org/common/imprimir.cfm ?id=F042731
3.   Johan Galtung: “With a little creativity, there is no conflict that cannot be resolved”: http://www.coe.intr/T/E/Com/Files/interviews/20021019_Interview_galtung.asp


Testi consultati:
Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000
Id., Il buddhismo come via
Id., Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987


(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

giovedì 16 dicembre 2010

Interpretanti e trasformatori, 4. I filosofi e la rivolta

Tra gli interpretanti, quelli che mi vanno meno a genio sono coloro che non muovono un dito, ma aspettano che la realtà venga ad incollarsi alle loro categorie apocalittiche

[continua]

Chomsky: la violenza proviene dal potere (Senza violenza 1)

Noam Avram Chomsky iniziò a impegnarsi contro la guerra in Vietnam negli anni ’60, quando era già professore di linguistica al Massachussetts Institute of Technology.
La sua presa di posizione in favore della contestazione pacifica, per motivi allo stesso tempo strategici ed etici, è ben illustrata in un articolo del 1967, Sulla resistenza: «L’argomento che la resistenza alla guerra dovrebbe rimanere rigorosamente non violenta a me pare inoppugnabile. Come tattica, la violenza è assurda. Nessuno può competere con il governo in questo campo, e il ricorso alla violenza, che di sicuro fallirà, non farà che spaventare e allontanare qualcuno che invece potrebbe essere convinto, e incoraggerà ulteriormente gli ideologi e gli amministratori della repressione violenta. Per di più, si spera che i partecipanti alla resistenza non violenta diventeranno essi stessi esseri umani di un genere migliore»[1].
Si tratta insomma di quel che Gandhi chiamava non-violenza come scelta tattica (non-violence as a policy), senza escludere una netta propensione morale per la non-violenza come convinzione (non-violence as a creed)[2].
L’orientamento politico di Chomsky, raro esempio fra gli intellettuali contemporanei, è l’anarchismo (e non il marxismo). È ferma convinzione di Chomsky che il comportamento umano sia fondamentalmente (“naturalmente”, se non dovessimo dichiarare la nostra ignoranza rispetto alla natura umana) cooperativo. Non per astratte teorie, ma perché l’analisi dei fatti storici lo dimostra in maniera lampante. Così almeno ritiene Chomsky, per cui l’insuperato paradigma di democrazia è la Barcellona rivoluzionaria del 1936.
Ora, la violenza contraddice evidentemente qualsiasi pulsione alla cooperazione, rappresentando il massimo di irrazionalità possibile.
La forza di Chomsky - che a molti detrattori appare piuttosto una debolezza - consiste nel non fornire teorie politiche preconfezionate e pronte per l’uso. La politica rappresenta per Chomsky un campo del comportamento umano che ha bisogno di azione coordinata e lotte intelligenti per la difesa degli elementari diritti umani, e non di metafisiche o -ismi alla moda nelle università occidentali.
Non essendovi regole prefissate, anche la politica, come gli altri domini dell’esistenza e del pensiero umani, è per Chomsky il territorio della libertà, della responsabilità e dell’impegno individuale e collettivo.
Ma per Chomsky la non-violenza non è una questione di etica pura. L’opzione nonviolenta è analizzabile nelle sue soluzioni alternative, che in ultima istanza dipendono dalle scelte individuali, sempre irriducibili alle teorie.
In filosofia si parla spesso della diversità delle intuizioni su questioni fondamentali di metafisica ed etica. Proprio questo è l’approccio di Chomsky alla non-violenza: «Nessuno sa molto sulle tattiche da adottare [per l’affermazione della giustizia sociale]... quantomeno io ne so poco. Ma credo che bisognerebbe analizzare a fondo la questione della non violenza. Chiunque infatti cerca di raggiungere un obiettivo senza far ricorso alla violenza: che senso ha la violenza? Ma quando si comincia a invadere il campo del potere, può diventare necessario difendere i propri diritti, e per farlo a volte bisogna ricorrere alla violenza. Farvi ricorso o meno dipende dai valori morali di ciascuno. (...) Quindi se siete pacifisti dovreste chiedervi: ci si può difendere con la forza quando si è attaccati con la forza? Non tutti hanno lo stesso metro di giudizio su questa questione, che però non deve essere sottovalutata»[3].
Sulla natura della violenza Chomsky ha una posizione che può parere manichea: «Anche se alcuni ritengono che la violenza sia propria dei movimenti rivoluzionari, di solito la violenza proviene dal potere, ed è normale reagire con violenza quando si viene attaccati»[4].
Posizione diametralmente opposta a quella di Hannah Arendt, con cui Chomsky si trovò a discutere nel 1967 in occasione delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam: in Sulla violenza la Arendt affermava infatti che il potere è il contrario della violenza.
Chomsky analizza la non-violenza secondo una prospettiva politica, anche se non teorica.
In maniera un po’ volontaristica, non considera mai una situazione come determinata una volta per tutte: «Parlare di non violenza è facile, ma personalmente non credo che si tratti di un principio assoluto. (...) [Bisognerebbe riuscire ad] allargare la solidarietà in modo da impedire che vengano mandati i militari a picchiare la gente. Ma non è tanto facile, non succede automaticamente. In società stratificate  e divise come quelle attuali, le élite non devono fare molta fatica per trovare qualcuno che abbia voglia di reprimere.
Ma anche questo può cambiare, anzi deve cambiare, perché c’è un limite alla violenza cui i movimenti popolari possono far ricorso se vogliono mantenere il loro carattere democratico. Se la difesa finisce per richiedere l’uso di armi o mezzi bellici, credo che qualsiasi sviluppo rivoluzionario venga bloccato e ogni possibilità di cambiamento venga distrutta»[5].
Quella che può sembrare un’attitudine eccessivamente ottimista di Chomsky in fatto di politica, non è un articolo di fede e nemmeno un dato psicologico.
E la posizione del grande linguista è cambiata nel tempo: «[...] quando partecipavo al movimento contro la guerra del Vietnam mi sembrava impossibile che potesse avere qualche effetto concreto. Coloro che aderirono al movimento nei primi anni sessanta pensavano al più che quanto stavano facendo avrebbe avuto come conseguenza anni di galera e vite distrutte. E, per inciso, io ci sono andato vicino. [...] Allora era impossibile immaginare che ci sarebbe stato qualche risultato. Ma sbagliavamo: i risultati sono stati innumerevoli, non grazie a quello che facevo io, ma grazie a quello che facevano migliaia e migliaia di persone in tutto il paese»[6].
L’impegno, la forza d’animo e l’ottimismo di Chomsky sono ormai leggendari. Tra i suoi ammiratori il grido della scrittrice indiana Arundhati Roy merita di essere riportato: «Non passa giorno che, per un motivo o per un altro, io non pensi tra me e me: “Chomsky zindabad”, “Viva Chomsky”»[7].


(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)




[1] N.Chomsky, Sulla resistenza, in I nuovi mandarini. Gli intellettuali e il potere in America, Einaudi, p.377
[2] G.Pontara, Introduzione a M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi 1996
[3] N.Chomsky, Capire il potere, p.254
[4] Ivi, p.255
[5] Ibidem
[6] N.Chomsky, Capire il potere, p.240-241
[7] La solitudine di Chomsky, in Guida all’Impero per gente comune, Guanda

mercoledì 15 dicembre 2010

Il genitore ottimista per natura

Educatrice: dovrebbe mettermi una firmetta qui, oggi vengono quelli dell'ASL, abbiamo avuto un caso di (sottovoce) acariosi...

Genitore (con aria preoccupata): un caso di che cosa, mi scusi?

Educatrice: acariosi, sarebbe, insomma la scabbia.

Genitore (con aria sollevata): ah, ok, benissimo.

Che cosa significa pensare per Heidegger? (Lacerti di una tesi di dottorato in filosofia, 2007)

Heidegger est un exemple très significatif de ce que nous pourrions provisoirement appeler le style philosophique continental. Heidegger (1954) pose explicitement la question « Qu’appelle-t-on penser ? », conduisant à une image de la pensée comme relation de l’homme et de l’Être :
L’homme peut penser en ce sens qu'il en a la possibilité. Mais cette possibilité ne nous garantit encore pas que la chose est en notre pouvoir [Heidegger (1954), p. 1, trad. fr. p. 21][1].
Le refrain du texte, continuant sur un registre plus poétique la déconstruction du sujet cartésien commencée dès Heidegger (1927), est que « nous ne pensons pas encore » : une façon pour dire que les mortels humains doivent se mettre à l’attente et à l’écoute de l’Evénement/Être (Ereignis).
Attaquant Heidegger, Ferraris (2001) ironise sur cette image prophétique et mystique de la pensée :

La bonne réponse consisterait probablement en une question : « Et alors, qu’avons-nous fait jusqu'à maintenant ? Nous n’avons pas pensé, nous n’avons fait que croire de penser, comme un sorcier qui compterait de soigner les rhumatismes avec une mixture de crapaud ? [Ferraris (2001), p. 18]

La démarche heideggérienne assume et révèle le difficile rapport que la philosophie idéaliste-textualiste – au sens de Rorty 1979[2] – de  la première moitié du XXe siècle entretenait avec la science[3].
En effet, chez Heidegger on ne trouve pas une théorie de la pensée, même si « la pensé » est appelée dans des moments cruciaux de l'argumentation philosophique heideggérienne. Nous croyons que, dans le soucis de réagir à l'hypostasie cartésienne de la pensée transformée en res cogitans, à partir de Heidegger avec sa théorie du Dasein qui n'est pas union de corps et esprit mais bien ouverture ontologique au monde, le choix de nombre d'anti-cartésien du XXe siècle a été celle d'évacuer la question de la nature de la pensée.


[1] Der Mensch kann denken, insofern er die Möglichkeit dazu hat. Allein dieses Mögliche verbürgt uns noch nicht, dass wir es wermögen ».
[2] Voir aussi Ferraris (1984). Nous considérons idéaliste une philosophie qui n'a pas de considération pour les données des sciences expérimentales. La majeure partie des philosophes Continentaux (volens nolens) ne pourrait qu’être rangé dans le champs de l’idéalisme postmoderniste.
[3] Comme le dit Ferraris, c’est un rapport amoindrissant : « Normalement, le réductionnisme est imputé aux positivistes, mais aussi dans l’appel à l’être qui n’est pas l’être de l’étant procède un réductionnisme sui generis, issu de la tradition des sciences de l’esprit qui, à la réduction mathématisante du phénomène proposée par les naturalistes, se sont bornées à opposer des schèmes conceptuels de deuxième niveau, tributaire de la critique leibnizienne du mécanicisme cartésien : il ne faut pas seulement considérer les relations causales et mécaniques, mais aussi bien celles finales : but, signification, valeur, etc. » [Ferraris (2001), p. 19].

Cognitive foundation of social network (from Dan Sperber's blog)

... reasoning, typically seen as an activity of the individual thinker, is in fact a social activity aimed at exercising some control on the flow of communicated information by arguing in order to convince others and by examining others' arguments in order to be convinced only when appropriate ... (http://www.cognitionandculture.net/home/blog/9-dan/685-creative-pairs)

Si veda anche l'articolo di Mercier e Sperber

martedì 14 dicembre 2010

Dispacci di memoria involontaria, 2

Il medesimo amico di Toni Negri mi disse, alla mia proposta di lavorare su Deleuze e Aracoeli di Elsa Morante, che Deleuze non poteva amarla.

Ad un'altra mia affermazione rispose: questo bisognerebbe chiederlo a Carmelo.
Bene, intendeva Carmelo Bene, ma gli piaceva chiamarlo Carmelo.

Musica Impossibile

Il mio Maestro di Composizione mi assicura che quando inizierò a scrivere la musica a quattro parti sentirò le voci indipendenti, come accadde a lui da ragazzo, e assicura che è la stessa sensazione che imparare a sciare a sci uniti. Io però non ho mai imparato a sciare a sci uniti.

Imparare l'armonia è per me una fatica incredibile, alle volte penso che sia sbagliato il metodo, il mio Maestro compone musica contemporanea ma è di quelli convinti che la musica stia tutta nella Tradizione, perciò mi insegna come se la mia mente dovesse capire quello che capivano gli studenti di musica del Settecento, perché è quello che studiamo, l'armonia settecentesca, come la studiò per esempio il giovane Mozart.
Da ragazzo avevo anche provato a fare diversamente, a studiare l'armonia con un Maestro di Composizione sperimentale, convinto che sarebbe stato più vicino ai miei interessi. Invece l'armonia mi apparve presto come un paesaggio impervio e oscuro, nel quale non riuscivo proprio a procedere. Smisi e non ci pensai più per quindici anni, finché tre anni fa ho ricominciato con un altro Maestro.

Ma è una faticaccia immensa, non ho mai gratificazioni: tutti dicono che quelle arrivano più tardi, ma io mi sento vecchio e come se fosse troppo tardi per imparare.
Per armonizzare un basso senza numeri ci impiego un paio d'ore, però le diluisco in più di una sessione così di volta in volta non ricordo che cos'ho fatto la volta precedente, e se arrivo vicino ad avere un'intuizione sta' pur sicuro che la volta dopo non so proprio di che cosa si trattasse.
Forse sono stupido, forse il mio cervello non è fatto per capire la musica.
Ma allora perché da almeno trent'anni mi sembra che sia l'unica cosa che potrebbe rendermi davvero felice? Perché non mi rassegno? Perché mi sembra così insopportabile morire senza avere imparato un po' di armonia?
Che orribile incantesimo mi ha condannato a inseguire una conoscenza per me impossibile?

Musica e suono come apertura al mondo


Che valore può avere la musica contemporanea per la formazione di uno spirito libero? Spesso i compositori novecenteschi hanno radicalmente ignorato il pubblico, abbondantemente ricambiati. Ma gli atteggiamenti filosofici ed estetici sono forse sopravanzati dall’oggettivo interesse della cosa stessa: i suoni musicali nel mondo, non cose del mondo.
Tra i musicisti contemporanei, la palma dell’intellettualismo va probabilmente al dodecafonista americano Milton Babbitt, che pubblicò nel 1958 un famoso articolo dal titolo “Che importa chi ascolta?”. In questo testo l’autoapologia svolta dalla Neue Musik a partire da Schoenberg raggiunge il suo vertice: non soltanto non importa che il pubblico non apprezzi la nuova tecnica di composizione con i dodici suoni, e neppure bisogna sperare che la cultura musicale del futuro abitui l’ascolto del pubblico alla nuova arte. Semplicemente, l’ascoltatore non importa nulla. Con queste premesse, non c’è da stupirsi se la musica contemporanea della tradizione post-dodecafonica non ha conquistato i cuori del pubblico. In fin dei conti la boutade di Babbitt si potrebbe rovesciare: poiché il mondo non è certo sprovvisto di musica, che importa chi compone senza preoccuparsi di chi ascolta?
Relativamente all’ascolto e al gusto musicale il padre della dodecafonia, Arnold Schoenberg, aveva una posizione che oggi definiremmo culturalista: la mente dipenderebbe in maniera preponderante dalla cultura. All’epoca (anni ’20-’40 del Novecento) questa posizione aveva un implicito correlato scientifico (meglio sarebbe dire: ideologico) nella contemporanea psicologia comportamentista, secondo cui il comportamento umano può e deve spiegarsi integralmente con la relazione stimolo-risposta. Fornendo al pubblico i giusti stimoli - pensavano musicisti come Schoenberg - e abituandolo alla musica dodecafonica, il pubblico del futuro apprezzerà naturalmente la nuova musica. E se Schoenberg confidava nella natura culturale dell’ascolto musicale, il suo allievo e filosofo Anton Webern considerava la musica dodecafonica più naturale della vecchia musica tonale (da un punto di vista psicoacustico).
Webern sbagliava e gli psicologi cognitivi hanno poi mostrato con appositi esperimenti che le relazioni tra strutture sonore dodecafoniche non sono percepibili nemmeno dai musicisti esperti (D. Raffman: Is twelve-Tone music artistically defective?): da un punto di vista cognitivo, sono relazioni semplicemente inesistenti.

[incipit di un pezzo per la rivista Gli Asini]

lunedì 13 dicembre 2010

Prefazione a Slavoj Žižek, Politica della vergogna, Nottetempo, 2009


In un certo senso, secondo Lacan, al grande Altro capita lo stesso che a Dio (Dio non è morto oggi, è morto da sempre, solo che Lui non lo sapeva…): non è mai esistito…
Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso

Il potere e la sua oscenità (obscenus, obscaenus: “immondo” o anche “fuori dalla scena”, secondo un’etimologia greca del tutto incerta ma spesso data per scontata) sono il tema comune di questi sei brevi testi di Slavoj Zizek. Il potere abita l’inconscio: il “grande Altro” – il nome lacaniano del Super-io freudiano – struttura i comportamenti umani attraverso l’imposizione del suo sguardo panottico.
Fonti primarie del pensiero di Zizek sono infatti la psicoanalisi di Jacques Lacan, la dialettica hegeliana, più di quella marxiana, e la filosofia “postmoderna” (tra i riferimenti di Zizek spiccano Deleuze e Derrida, ma anche Badiou, Rancière, Butler, Agamben). Facendo ricorso a innumerevoli esempi tratti dalla psicoanalisi, dal cinema, dalla musica, dalla letteratura, dalla politica e dall’attualità, Zizek espone i nessi tra le strutture simboliche, le forme dell’Immaginario e l’irrappresentabile struttura del Reale, che per Lacan costituiscono i tre registri ontologici (R-I-S), le dimensioni dell’essere (umano).
Zizek applica la dottrina lacaniana a qualsiasi argomento, il che determina la sua inconfondibile cifra stilistica. Come in una scrittura “fluttuante”, sorta di correlativo dell’ascolto psicoanalitico, nei testi di Zizek tutto può collegarsi con tutto: un film di David Lynch con la tragica condizione  dei prigionieri di Guantanamo, autentici “morti viventi”; la filosofia di Heidegger con le torture ad Abu Ghraib; una gag di Charlie Chaplin con l’abiezione pedopornografica.
Parte del genio zizekiano consiste nell’unire un materiale concettuale arduo e sovente esoterico a uno stile comunicativo molto godibile. Si dice spesso che quella di Zizek sia pop-filosofia[1], ideale filosofico di Gilles Deleuze: “Pop'filosofia. Non c'è nulla da comprendere e nulla da interpretare[2]. Oltre a evocare il venir meno dell’ermeneutica, invisa tanto a Deleuze quanto a Zizek, la filosofia del lacaniano di Lubjana fa pensare da vicino al deleuziano “automa spirituale”, concetto di origine leibniziana indicante una modalità di pensiero che verrebbe innescata eminentemente dal cinema:

Il movimento automatico suscita in noi un automa spirituale, che a sua volta reagisce su di lui. L’automa spirituale non designa piú, come nella filosofia classica, la possibilità logica o astratta di dedurre formalmente i pensieri gli uni dagli altri, ma il circuito nel quale essi entrano con l’immagine-movimento, la potenza comune di ciò che costringe a pensare e di ciò che pensa sotto choc: un noochoc[3].

La scrittura filosofica di Zizek ha infatti un alto tasso di visibilità quasi cinematografica[4], e proprio questa visibilità intrinseca sembra attualizzare l’automa spirituale deleuziano, grazie a uno stile “liquido”, perfettamente modellato sui temi e sui problemi della contemporaneità politica e sociale. I testi zizekiani, nel loro continuo montaggio di pensieri e frammenti eternamente ritornanti da un testo all’altro, innescano una lettura per così dire automatica.
In questa apparente fruibilità infinita risiede l’essenza “pop” dell’opera zizekiana. Nei testi brevi e d’occasione, come quelli qui presentati, la cifra del dispositivo stilistico zizekiano emerge con la massima chiarezza. Il “messaggio” di questi testi consiste sempre nell’invito a trarre le conseguenze dell’inesistenza reale, assenza costitutiva, del “grande Altro” lacaniano: Dio, il Super-io, le istanze morali NON SONO REALI.
Comprenderlo significa relegare il grande Altro nel registro che gli compete, quello Simbolico (il linguaggio).
Al lettore viene mostrata la possibilità etica (disponibile, da un punto di vista psicoanalitico, solo dopo un lungo percorso dialettico di cura fondato sulla relazione analista/analizzante) di superare l’allucinazione del grande Altro, giungendo cosí alla zona grigia “tra le –due morti” (quella simbolica e quella reale), collocandosi nella posizione “dopo la Caduta”, propria di re Lear o Edipo a Colono: quando la morte simbolica è avvenuta (castrazione di Edipo attraverso l’accecamento), rimane come ultimo residuo “la Vita priva di qualsiasi sostegno nell’ordine simbolico”, forma di vita oltreumana caratterizzata dal plus-de-jouir (Lacan), il terribile eccesso di godimento che è negazione del godimento stesso[5].
Anche se nei testi di Zizek l’assenza di riferimenti alla filosofia di Wittgenstein è sistematica (e dunque sintomatica), l’immagine finale del Tractatus logico-philosophicus descrive perfettamente l’idea zizekiana della scrittura-terapia filosofica:

Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per cosí dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.)
Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo[6].

Per Zizek, vedere rettamente il mondo significherebbe dunque comprendere che l’enigma del grande Altro, semplicemente, non si dà. Ma come per molta parte della vocazione etica o profetica della filosofia continentale postmoderna, anche qui si può formulare un legittimo dubbio: l’appello alla “conversione”, consistente nel congedare il grande Altro nel Simbolico (ossia parlarne esclusivamente per i suoi effetti immaginari piuttosto che reali), è rivolto a tutti, oppure sotto le forme di uno stile pop-filosofico si cela un contenuto antidemocratico che nessuno può realmente fare proprio, un messaggio impossibile, o l’Impossibile come messaggio?
Al pop-lettore l’automatica sentenza.

Edoardo Acotto




[1] Per una recente discussione si può leggere “Sopravvivere al pop pensiero”, di Nicla Vassallo, apparso prima sulla Domenica del Sole24Ore (29 giugno 2008) e poi su Rescogitans (http://www.rescogitans.it/), e il dibattito che ne è scaturito.
[2] Gilles Deleuze, Claire Parnet, Dialogues, Flammarion, Paris 1977, p. 10 (trad. it. Conversazioni, Feltrinelli, Milano 1980, p.10).
[3] Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, pp. 175-176.
[4] Non è probabilmente casuale che il rapporto di Zizek con il cinema sia molto intenso. Il risultato di questo rapporto è doppio: da una parte assistiamo a un’illustrazione continua dei concetti filosofici e psicoanalitici in riferimento a film celeberrimi, da Hitchcock ad Alien trasformato in personaggio filosofico; dall’altra parte lo stesso Zizek si trasforma in personaggio cinematografico in The Pervert’s Guide to Cinema di Sophie Fiennes (2006).
[5] S. Zizek, Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina,  Milano, p.192-3.
[6] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964 (6.54).

domenica 12 dicembre 2010

un sogno di deportazione

mi ricordo che stanotte ho fatto un sogno, mi trovavo in una città con cattedrali medievali ed ecclesiastici a passeggio per le stradine, una città arroccatissima tra verdi montagne sovrastanti e strapiombanti poi arrivavano i nazisti e bloccavano tutte le uscite della città e deportavano tutti i cittadini che erano come lussemburghesi.
Subito pensavo: mi è andata bene, io non sono lussemburghese! All'interno degli edifici i civili erano stati rastrellati e messi sotto chiave: si vedevano le persone imprigionate affacciarsi numerose dalle imposte socchiuse.
Costeggiavo vari edifici con finestre e vedevo non visto che all'interno non rimaneva più nessuno, tranne qualche nazista rilassato.
In un grande spazio architettonico come un circo romano, vedevo che si ammassavano prigionieri; io cercavo di defilarmi ma nonostante fossi italiano venivo fermato e deportato anch'io.
Cercavo di tranquillizzarmi dicendomi che non era la seconda guerra mondiale, ma non capivo bene che cos'altro fosse allora.
Partivamo sul treno verso la Germania, in mezzo ai carcerieri nazisti.

Deleuze: vita e pensiero (progetto di un libro preliminarmente approvato dall'editore, ma mai iniziato)

L'amico ed editore di Deleuze Kostas Axelos scrisse in una recensione all'Anti-Edipo: "tu, rispettabile professore francese, bravo sposo, eccellente padre di due bei bambini, amico fedele (...), vorresti che i tuoi allievi e i tuoi figli seguissero nella loro "vita reale" la strada della tua vita o per esempio quella di Artaud, a cui tanti scrittori si richiamano?".

Dopo questa frase Deleuze non cercò mai più Axelos. Questo è il genere di cose che Gilles non poteva sopportare: confondere la vita con il pensiero...
Tuttavia io vorrei proprio sapere qualcosa di Deleuze professore, sposo, padre e amico, per estrarre un ritratto privato di uno dei filosofi contemporanei più famosi e una delle celebrities più sconosciute...

venerdì 10 dicembre 2010

Dispacci di memoria involontaria, 1

Una volta un amico di Toni Negri mi disse: Toni inizia a carburare dopo la prima bottiglia!

***

Un console francese che aveva abitato a Venezia mi disse che Cacciari era fallito tre volte: come uomo, come filosofo e come politico. Viveva ancora con la mamma, non aveva scritto nulla di importante e non era riuscito a realizzare il suo progetto politico.

giovedì 9 dicembre 2010

Alfonso Petrosino e la rivoluzione di Acotto

Edoardo dice che per l'anno prossimo,
un anno, e avremo finalmente la
rivoluzione; o, meglio, ci sarà.
Come se fosse una stagione e fossimo

foglie che cadono dagli alberi anzi
foglie che spuntano tra i rami. La
visione opposta, a questo punto, tra
le due stagioni è roba da romanzi

e in quanto tale interessante, ma
più suscettibile di ramanzine
che di dibattiti e dibattimenti.

E noi? Saremo in grado noi? Chissà.
Perché si parla tanto, ma alla fine
un anno è una questione di momenti.

(Alfonso Maria Petrosino)

Julian Assange: il segreto del potere (Vogue15)


L’australiano Julian Paul Assange, programmatore e hacker, giornalista e blogger, studente di fisica, matematica, filosofia e neuroscienze, infine fondatore di Wikileaks, è stato arrestato l’altro ieri a Londra sulla base di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Svezia con l’accusa di una duplice “violenza sessuale” (in realtà secondo un’accezione molto idiomatica del reato).
La vicenda è quanto meno intricata: le accuse sembrano bizzarre (si dice anche che una delle due accusatrici sia una collaboratrice della CIA) e la cosa certamente più rilevante di tutte è che gli USA vorrebbero estradarlo. Mentre si aspetta di sapere se gli USA otterrano la rendition di Assange, col rischio che l’attivista dell’informazione sia incriminato per spionaggio e punito molto duramente per il rilascio al pubblico di informazioni segrete, insorgono in tutto il mondo gli intellettuali impegnati come Noam Chomsky e Ken Loach, chiedendo la liberazione di Assange e la difesa da parte degli stati democratici della libertà di informazione.
È vero che, come ci ha fatto sapere Piergiorgio Odifreddi dal suo blog, già nel 2007 Assange si pronunciava in maniera molto ispirata in favore della trasparenza assoluta dell’informazione: “Siano benedetti i profeti della Verità, i suoi martiri, i Voltaire e i Galileo, i Gutenberg e gli Internet, i serial killer delle illusioni, quei brutali e ossessivi minatori della realtà, che distruggono ogni marcio edificio fino a ridurlo a rovine su cui seminare il seme del nuovo». Ma ciò che più colpisce dell’operato di Assange è questo: mettersi contro un potere forte sembra un’ impresa rischiosa (vengono in mente I Tre giorni del Condor di Sidney Pollack), ma mettersi contro più governi statali contemporaneamente sembra un vero suicidio.
Ma perché il caso WikiLeaks/Assange ha assunto le fattezze di uno tsunami per il mondo occidentale dell’informazione politica? Sapere è potere, diceva il filosofo Francis Bacon a proposito della tecnica: si potrebbe anche affermare che potere è sapere, e - soprattutto - non far sapere. Ancor più della sua intrinseca violenza (di cui secondo il sociologo Max Weber lo Stato ha il legittimo appannaggio) lo scandalo del potere è la sua segretezza. Fino a oggi, almeno. Perché WikiLeaks sembra avere dischiuso la possibilità che si sappia tutto ciò che normalmente rimane dietro le quinte, a fondamento di pratiche di potere pubblico e privato non sempre raccomandabili e talvolta gravissime.
WikiLeaks mette le sue informazioni, di cui viene in possesso per vie che rimangono anonime, a disposizione di chiunque sia dotato di un computer e di una connessione internet. Si tratta ovviamente di informazioni da interpretare, contestualizzare, analizzare e comprendere e che mobilitano quindi la mediazione giornalistica più tradizionale (pochi hanno letto direttamente i documenti in questione): ma l’elemento centrale è la possibilità che tutti sappiano tutto dell’operato di chi detiene il potere. Chi critica WikiLeaks lo fa per difendere il potere, nel bene e nel male, con l’idea che ''gli Stati verrebbero indeboliti e le istituzioni, la vera essenza della democrazia, sarebbero in pericolo'' come ha affermato ieri il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa.
Ma perché mai le istituzioni democratiche dovrebbero necessariamente fondarsi sul segreto? Per quanto democratici, gli stati nazionali sembrano giustificare in ultima istanza il loro operato con la massima “il fine giustifica i mezzi”. Gandhi ha rovesciato Machiavelli affermando che un fine buono può essere raggiunto soltanto con mezzi buoni. Qual è la posizione più giusta e razionale?
Direttamente o indirettamente, il potere sacrifica risorse e vite per (presuntivamente) salvarne altre, e questo accade spesso nel più perfetto segreto. Siamo proprio sicuri che se i cittadini di uno stato venissero consultati sulla necessità di compiere azioni questi darebbero sempre il loro assenso? E siamo davvero convinti che senza violenza e segretezza la vita associata delle persone sarebbe impossibile?
Ignoriamo le risposte, ma Julian Assange e WikiLeaks ci hanno ricordato che queste domande sono ancora possibili. E questo ha molto a che fare con la libertà.

COMPLETA ANCHE TU LE PARTI IN GIALLO DELLA BIOGRAFIA DI ACOTTO, riassunta in 25 tappe fondamentali (giochino Facebook, 2009).

Regole: Una volta taggati, dovete scrivere a vostra volta una nota con 25 cose su di voi; fatti, abitudini, obiettivi raggiunti. Alla fine, scegliete e taggate 25 persone a cui inviarla. Dovete taggare anche la persona che ve l'ha inviata, se l'ha fatto è perché si voleva fa' un po' di fattacci vostri (licenza poetica di qualcuno che ha fatto questo gioco prima di me).

2.     I miei genitori si sono separati quando avevo 6 anni, o meglio: quando avevo sei anni mia madre ha lasciato mio padre che non si è mai rifatto una vita e anzi se l'è disfatta.
3.     I miei nonni erano contadini: democristiano salentino lui, bigotta piemontese lei
4.     Ho iniziato a suonare il pianoforte a 8 anni, perché la mia fidanzatina Emi andava a lezione. Ora studio composizione con Giulio Castagnoli che è un genio.
5.     Sono cresciuto a Cherasco, un paesino di campagna in provincia di Cuneo, assurdamente carico di storia (3000 abitanti e 33 chiese, mi par di ricordare, nonché palazzi nobiliari e residenze dei Savoia). Da bambino, quindi, giocavo nei campi, mi arrampicavo sugli alberi e andavo nei fossi, cosa che a pensarci adesso mi sembra improbabile.
6.     Quando mia madre ha lasciato mio padre lei ed io siamo andati ad abitare a Bra, vicino a Cherasco, però dividevo la mia vita tra Bra e Cherasco: una settimana con papà e una settimana con mamma. Verso i vent'anni iniziai a pensare di far causa ai miei genitori perché non avevano rispettato la sentenza del giudice che mi affidava a mio padre (mia madre non si era opposta ritenendola una pura formalità).
7.     Da bambino ero molto cattolico e parlavo con Dio/Gesù (non era mai ben chiaro, ma sapevo che Gesù era Dio). Odiavo il farisaismo dei cattolici cheraschesi. Il giorno dopo la cresima, a 14 anni, alla fine della terza media, mi resi istantaneamente conto che "parlare con Dio" era semplicemente parlare con me stesso: Dio era nella mia testa, la voce che pensavo di sentire era la mia voce. Così diventai ateo.
8.     liceo adolescenza
9.     Ghislieri
10.  Il filosofo che mi ha salvato la vita è stato Gilles Deleuze, che per alcuni anni mi ha impedito di impazzire, almeno finché non è morto mio padre. Prima di incontrare Deleuze, però, Derrida mi ha quasi fatto impazzire.
11.  Deleuze
12.  Roberto, mio padre, è morto il 23 febbraio 1997, all’età di cinquantacinque anni. Il giorno che mio padre è morto ho subito pensato che la sua anima era custodita nel mio corpo, l’avevo in qualche modo ereditata. Avevo pensato la stessa cosa quando era morto Deleuze, ma allora mi ero detto che doveva trattarsi solo di un frammento e non dell’anima intera.
13.  Ho abitato tre anni a Parigi per studiare dapprima filosofia con Badiou, poi letteratura italiana alla Sorbona per diventare prof di italiano in Francia. Ho lasciato Parigi il primo agosto 2000, la casa in rue du Fer à Moulin, con un po’ di ansia ma senza un solo rimpianto: sapevo che dovevo tornare in Italia, che Parigi era solo una pausa.
14.  Il G8
15.  Francesca, l’anarchismo la nonviolenza
16.  Nel 2004 ho avuto una crisi di ipocondria fortissima che mi ha portato a credere di avere diverse e inesistenti allergie alimentari. Credendo di essere celiaco smisi di mangiare farinacei e mi provocai uno shock alimentare. Un sabato notte mi svegliai con batticuore fortissimo e pulsazioni nello stomaco come se stessi per morire o un Alien mi uscisse da dentro. Il giorno dopo, convalescente a letto (su Rete4 rividi I tre giorni del condor) pensavo che se fossi morto allora la mia vita non avrebbe avuto alcun senso e sentii che se non fossi morto avrei dovuto recuperare il senso profondo della mia vita. Banalmente ripensai il mio rapporto con la religione, ma essendo ateo (punto 5) valutai il valore metaforico del concetto di Dio, ritenendolo un semplice nome per la natura profonda dell’essere. Decisi di frequentare il tempio valdese, per conoscere un cristianesimo non cattolico. Mi piacque molto, cantavo gli inni con una certa convinzione e i discorsi del bravissimo pastore Giuseppe Platone mi piacevano. Ma ogni volta che nominava Dio dovevo provare a sostituirlo con qualcos’altro. Era faticoso
17.  Dopo quindici giorni cascai sui libri del Dalai Lama e iniziai a leggerli con interesse. Colsi subito la possibilità di diventare buddista: trovavo una filosofia religiosa compatibile col mio modo di pensare. Dopo un mesetto di infarinatura buddista scoprii Thich Nhat Hanh, di cui il mio amico Emanuele Basile era allievo e amico. La scoperta del “buddismo impegnato”, una forma vietnamita di zen, più calda e umana dello zen giapponese, mi illuminò definitivamente la mente riguardo alla natura degli esseri e alla loro vacuità e interdipendenza.
18.  Dopo essere andato a un concerto di Debora Petrina che cantava e suonava i Radiohead a Fontanetto Po ho avuto l’intuizione che si potesse fare Narradiohead. Che poi si è fatto ed è stato il mio primo passo nell’editoria. E anche l'ultimo, probabilmente.
19.  Dopo il suo suicidio, DFW è diventato il mio scrittore preferito, esattamente come Deleuze era diventato il mo filosofo preferito dopo il suo suicidio.
20.  Aspetto un figlio che dovrebbe nascere il 4 maggio, quindi del segno del Toro come me: questo semplice fatto chiude la mia vita fin qui e ne apre una nuova che penso sarà molto più profonda.
21.  Il primo ottobre 2008 ho vinto il concorso di dottorato in scienze cognitive, che mi ha permesso di andare in congedo dall’insegnamento per 4 anni. Sembra un miracolo.
22.  Per preparami alla venuta del figlio Agostino il 5 gennaio 2009 ho smesso radicalmente di bere alcol e mangiare carne.
23.  Sto preparando un libro insieme ad Aldo Nove che è sempre stato il mio mito fin dall’inizio. Questo è molto bello.

AGGIORNAMENTI 2010

24.  Mio figlio Agostino è nato l'11 maggio 2009 ed è il mio centro vitale, la mia stessa vita nuova. Non ho fatto nessun libro con Aldo Nove., purtroppo (ma lui ha scritto un capolavoro, La vita oscena). Ho ripreso a bere alcol e mangiare carne.
25.  Ho iniziato a scrivere piccoli post per Vogue.it, il che mi diverte molto e dà una direzione ai miei pensieri extralavorativi vaganti.

mercoledì 8 dicembre 2010

se io fossi assolutamente libero e potessi fare più cose contemporaneamente e il tempo non finisse mai...

...oggi leggerei qualche racconto di Hoffmann (e ascolterei Offenbach), poi leggerei una prosa breve di Beckett, e magari darei un'occhiata al Beckett di Badiou e a L'esausto di Deleuze.

I ruoli tematici e il call for paper possono aspettare domani.

Se fossi pure ricco andrei alla FNAC a comprarmi il videogioco Tron, magari adirittura la playstation 3.


Invece scriverò su Assange, sbobinerò Houellebecq e scriverò su Argento e Seymour Hoffman, sperando che i pochi guadagni extra non se ne vadano via col dentista.

Le forme di vita libera sono lontane da me, se mai sono esistite.

martedì 7 dicembre 2010

WikiLeaks tra bene e male.

Sapere è potere, diceva il filosofo Francis Bacon pensando alla tecnica: rovesciando il suo slogan e applicandolo alla politica si potrebbe affermare che potere è sapere, e, soprattutto non far sapere. Fino a oggi, almeno, ossia prima di WikiLeaks.
Terrorismo mediatico, secondo alcuni; secondo altri, invece, una preziosa possibilità per l’opinione pubblica mondiale di conoscere compromettenti documenti segreti.
Di WikiLeaks si parlava molto da anni (Guantanamo fu conosciuta anche grazie a WikiLeaks), ma secondo qualche commento giornalistico a caldo, il 28 novembre 2010 verrà ricordato come un punto di non-ritorno: il giorno in cui i media tradizionali hanno dovuto inseguire le rivelazioni di WikiLeaks relative a governi di tutto il mondo.
WikiLeaks mette le informazioni a disposizione di chiunque sia dotato di un computer e di una connessione internet. Si tratta di informazioni da interpretare, contestualizzare, analizzare e comprendere: ma è di forte impatto psicologico, ancor prima che mediatico, sapere di poter venire a conoscenza di giudizi denigratori rilasciati dalle diplomazie mondiali a proposito di questo o quel personaggio politico.

PERCHE’ E’ UNA RIVOLUZIONE
 …

PERCHE’ E’ UN BENE
Si può sostenere con buone ragioni che l’azione di WikiLeaks sia buona e preziosa (nessuno l’aveva fatto prima su questa scala) perché, tra l’altro, rende trasparente ciò che normalmente è opaco: le azioni governative e aziendali destinante a produrre un determinato effetto.
Gandhi ha insegnato a rovesciare Machiavelli: nessun fine buono può essere ottenuto con mezzi non buoni. Ora, tradizionalmente gli stati nazionali e le istituzioni con qualche parvenza di fondamento democratico, e i loro sostenitori attivi o passivi, difendono il loro operato con la massima “il fine giustifica i mezzi”. Il famoso esperimento mentale del carrello … mostra che in realtà le nostre intuizioni etiche non vanno in quella direzione.
Il potere ha spesso sacrificato risorse e vite per (presuntivamente) salvarne altre, e nel consenso verso i sistemi di potere vigenti è incorporata anche l’accettazione del fine che giustifica i mezzi.
Possiamo ora iniziare a pensare che se l’opinione pubblica sapesse che per salvare alcune persone bisogna sacrificarne altre, non tutti sarebbero così pronti a sacrificare vite altrui.

PROBLEMI.
Ma l’opinione pubblica mondiale è davvero sensibile alla verità? Verrebbe da dire di no, perché i cittadini spesso sembrano non voler sapere, o voler sapere il meno possibile. In questo senso, rivelazioni “scandalose” sul potere ce ne sono sempre state, senza che per questo venisse mai meno la legittimazione democratica del potere statale.

WikiLeaks, forse, viene troppo presto, o forse il tempo della trasparenza del potere non verrà mai, perché è strutturalmente impossibile.