Scrivere può generare tristezza, se l'oggetto di cui si scrive è triste.
Ce lo si poteva aspettare fin dall'inizio: avevo accennato alla morte di mio padre fin dal primo paragrafo, era chiaro che era di quello che volevo parlare. Tuttavia si trattava per me di rielaborare testi scritti in vent'anni alternandoli con testi nuovi, e mi pareva che l'elemento rielaborativo, la fatica del significante, potesse bastare a tenere a distanza gli affetti luttuosi legati alla scomparsa di mio padre.
Ma non è così facile, specialmente a questo punto, poiché mi rendo conto che in vent'anni non avevo mai superato lo scoglio di raccontare quello che è successo dopo il decesso di papà. È da lì che la vita è diventata strana, come se dopo le cose avessero perso senso.
Ho riletto ieri gli appunti relativi al periodo dopo il decesso. Un ammasso di sproloqui, deliri, invettive, risoluzioni, soliloqui, dialoghi immaginari, progetti, analisi, intuizioni, baggianate clamorose. È una specie di melma sobbollente, con pensieri continuamente riciclati che sarebbe vano provare a districare tanto sono privi di interesse intellettuale e anche biografico.
Dopo la morte di mio padre io scrivevo per alleviare la sofferenza, il che in parte funzionava, almeno fino a quando non sentii la necessità di andare dalla psicologa della Sorbona.
Ma rimestare ora, dopo vent'anni, quella materia affettivo-linguistica mi destabilizza non poco. Poiché però ancora fatico a distaccarmi da questa specie di defecazione di significanti che mi ha accompagnato così a lungo, proverò un compromesso, scegliendo alcuni dei passi più significativi di alcune tra le innumerevoli versioni digitali di ciò che avevo scritto sotto diversi titoli, come Romanpapà, o Voi non sapete che cos'è la morte, di chiara ispirazione carveriana.