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venerdì 17 dicembre 2010

Danilo Dolci, il “Gandhi della Sicilia” (Senza violenza 3)

Danilo Dolci (1924-1997) è stato «uno studioso, un poeta, un filosofo e, anche se non riconosciuto, un politico. Dolci non si può comprimere in nessuno schema: aveva una sua grande religiosità e una sua grande concretezza. Univa il digiuno alla lotta alla mafia, la pedagogia all’azione nonviolenta. La poesia al dibattito» (Marrone-Sansonetti).

Nel 1956 Danilo Dolci viene processato a Palermo per aver organizzato un’azione nonviolenta come lo sciopero alla rovescia nella “trazzera” di fango, vicino a Partinico. «In sostanza che cosa aveva fatto Danilo Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della nonviolenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza, e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio, digiunando prima per unire a sé gli animi mediante l’umiltà e la sofferenza [...]; aveva impegnato alla nonviolenza, a non portare nemmeno il coltello per tagliare il pane (dopo San Francesco nessuno in Italia tanto appassionatamente e insistentemente aveva preso, uno per uno, le persone del popolo per persuaderli a non reagire violentemente:  - Bisognava far risparmiare allo Stato le spese per la polizia armata, perché mandi invece tecnici agricoli, insegnanti, assistenti sociali -; aveva scelto una strada abbandonata e piena di fango (trazzera) fuori Partinico, e lì avevano cominciato a riattarla. Una società che ammette la «legittima difesa», tanto più dovrebbe ammettere l’«iniziativa educatrice»; e se mai ve ne fu una, tale era quella di Danilo [...]: era non una guerra, ma un atto di pace, mediatore il lavoro, con la società che non si valeva dei suoi strumenti, che sono le amministrazioni pubbliche, per accogliere nella pace del lavoro quella folla di disoccupati. Era un atto di amore, non di vendetta, una mano tesa [...])» (Capitini A., Danilo Dolci, p.6).
Dolci ha ben chiara la logica della nonviolenza e intende propagarla in mezzo al popolo. Lui che stava per sposarsi e diventare architetto al nord, aveva abbandonato tutto ed era andato in Sicilia per questo. Nell’autunno del 1952 arriva nella povera zona di Montelepre, nel poverissimo villaggio di Trappeto. Molti che erano diventati banditi per necessità riconoscono in lui una persona che vuole davvero cambiare le cose.
Nel ’52 quando vede un bambino morire di fame digiuna finché le istituzioni non promettono di fare qualcosa. Ma non è ancora il fare presto e bene perché si muore, che Dolci invoca in un suo libro.
Nel ’56, pertanto, Dolci organizza uno “sciopero alla rovescia”: «riunioni e riunioni si moltiplicavano a vari livelli. Ponevo soprattutto questa domanda: “come è necessario muoversi per vincere?”. Via via tutti salivano un gradino più alto nella problematica. Naturalmente le proposte o le indicazioni si avviavano esagitate: bruciare il municipio, tirare sassi sulle caserme dei carabinieri, fermare i treni... Messe più a fuoco, invece, le proposte prendevano una forma più consistente, acquistavano concretezza. [...] il 30 gennaio del ’56 si decise di digiunare in millle persone; poi di indire uno sciopero per il 2 febbraio. Tutto venne accuratamente preparato [...].
Innanzitutto pensammo di informare accuratamente l’opinione pubblica su quello che stava per accadere. Mandammo ciclostilati e lettere dappertutto, al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al Presidente della Regione Siciliana. Erano state raccolte tra la popolazione millecinquecento firme, in appoggio alle nostre richieste, basate soprattutto sull’irrigazione della terra e sull’apertura di scuole. Proprio in quei giorni, all’incirca alla metà del gennaio ’56, mi avevano invitato a Torino per una trasmissione televisiva intitolata “Orizzonti”. Avvertii i funzionari e gli organizzatori che avrei parlato chiaro.
[...] Allora si trasmetteva in presa diretta: avvertii che avremmo fatto uno sciopero particolare, cioè lavorando a una strada di campagna, necessaria, ma quasi impraticabile. Furio Colombo, che curava la trasmissione, mi assicurò che andava in onda; due giorni dopo, venni a sapere che era stato estromesso dalla rubrica, anzi mi dissero che era stato licenziato dalla Rai. [...]» (Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, p.62)
L’opposizione delle istituzioni e della chiesa cattolica contro un’iniziativa nonviolenta, e per di più di pubblica utilità, fu durissima. Oltre al processo, Dolci fu attaccato e calunniato in ogni modo, relativamente alla serietà dei suoi digiuni, poi per un racconto-inchiesta pubblicato nel 1955 su Nuovi Argomenti, che secondo gli stigmatizzatori era “pornografia”.
Quando nel 1957 Dolci ricevette il «Premio Lenin per la pace», ciò costituì un ulteriore capo d’accusa da parte della destra. Dolci spiegò che, pur non essendo comunista, avrebbe accettato il premio, che costituiva un riconoscimento dei metodi nonviolenti da parte dell’Urss, anche per poter utilizzare il denaro per il Centro di studi per la piena occupazione in Italia.
In un’intervista all’Espress, Dolci affermava: «Ciò che importa, è che la nonviolenza si faccia strada in ogni gruppo politico e, a questo riguardo, credo al mantenimento di un contatto costante con persone che si augurano una trasformazione profonda, rivoluzionaria, ma nonviolenta, dei rapporti sociali» (p.13).
Del resto perché stupirsi se uno come Dolci accettava un premio proveniente dall’Urss: in fin dei conti, notava Capitini, «non vedemmo Gandhi andare a far visita a Mussolini?» (ibid.).


Testi citati:
Capitini A., Danilo Dolci, 1958, Lacaita Editore, Manduria.
Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Arnoldo Mondadori Editore.


(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

Johan Galtung. Pace con mezzi pacifici (Senza violenza2)

Il norvegese Johan Galtung (1930), fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institut e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti, di formazione è sociologo e matematico. Le sue opere ammontano a qualcosa come 95 libri e oltre 1000 articoli.
Numerose sono le situazioni nelle quali le istituzioni internazionali si sono rivolte a lui per consulenze tecniche in fatto di mediazioni di conflitti.

Il padre e il nonno di del professor Galtung erano medici, sua madre un’infermiera: «La mia intera famiglia era dedita alla cura della malattia. Ciò mi ha educato alla credenza ottimistica che ogni problema può essere risolto» (Intervista1).
Anziché diventare un dottore che cura le malattie del corpo, Galtung divenne uno studioso delle malattie che affliggono la razza umana nel suo complesso: la guerra e la violenza. Galtung ha infatti inventato un nuovo settore di studi delle scienze sociali la peace research, una disciplina che si sta affermando nelle Università di tutto il mondo e da ultimo, lentamente, anche in Italia.
Di primo acchito può forse sfuggire l’innovazione apportata da Galtung alle scienze umane, ma è sufficiente osservare che prima di Galtung non esistevano centri di studi sulla pace. Certamente esistevano studiosi di problemi militari. Ma definire la pace come assenza di guerra è secondo Galtung come definire la salute come assenza di malattia: significa perdere interamente di vista  che cos’è che rende salute la salute, e come essa funzioni.
Il punto di forza del pensiero di Galtung è quello di avere fatto della pace un concetto ben determinato, anzi un intero vastissimo campo di ricerche. Sua è la distinzione del concetto di pace in pace negativa (assenza di guerre), positiva (tensione verso una società più giusta), nonviolenta (superamento delle ingiustizie con mezzi nonviolenti).
Per chi pensasse al professor Galtung come a un compassato accademico, ecco un episodio che mostra come anche i teorici sappiano essere coerenti con le loro idee a prezzo di rischi personali. Nel 1968 durante una conferenza nella Germania dell’est iniziò a criticare l’intervento militare del Patto di Varsavia a Praga, nella primavera dello stesso anno : venne subito afferrato braccia e gambe da due robusti uomini vestiti di nero e trasportato via di peso. Siccome il microfono era acceso continuò a parlare per un certo tempo, poi fu infilato su un’auto e portato all’aereoporto.
L’indagine di Galtung sulla pace e la nonviolenza parte da Gandhi e passa per il buddismo, che gli appare come l’unica filosofia in grado di spiegare pienamente l’essenza della pace. Ma il sincretismo proprio del suo stile di pensiero lo porta a ricercare idee interessanti e feconde in ogni orizzonte culturale: «In quanto norvegese, sono molto più pragmatico di un francese o dei tedeschi. Mi sembra naturale prendere una cosa qui, un’altra là, e mescolarle. Conoscendo un po’ le religioni, ho trovato qualche idea meravigliosa e affascinante che posso usare come riferimento nella mia vita. [...] Non credo nelle barriere. È molto più eccitante non curarsi delle barriere e scoprire vaste aree di saggezza...» (Intervista2).
L’attività di Galtung non è puramente accademica, perché il suo ruolo di consulente in situazioni di conflitto ha spesso portato a risultati concreti. Per esempio, in un dissidio relativo alla linea di frontiera fra Perù ed Ecuador. La proposta di Galtung constava di quattro parole (pare che le soluzioni ai conflitti debbano poter essere formulate così): area binazionale, parco naturale. Proposta accettata.
Il segreto dell’arte della mediazione nonviolenta? «In primo luogo identificare i partecipanti, fare una ricognizione dei loro obiettivi,  e trovare le loro contraddizioni ; in secondo luogo distinguere fra obiettivi legittimi e illegittimi ; infine costruire ponti fra rispettive posizioni legittime» (intervista2).
È il concetto di costruzione di ponti a dover guidare la mediazione. Normalmente si parla di compromessi, ma la parola, anche in italiano, ha una connotazione negativa, implica l’idea che nella migliore delle ipotesi ci sia una perdita del 50% per ciascuna delle parti. Ma la mediazione può far emergere nuove possibilità (come l’area binazionale fra Perù ed Ecuador trasformata in parco naturale), ci si può accorgere che la situazione non è necessariamente un “gioco a somma zero” dove quello che guadagna l’uno lo perde l’altro.
Nelle numerose esperienze concrete di mediazione fatte da Galtung, alcune si sono concluse bene, altre no. Ma nella prospettiva del mediatore di conflitti, un fallimento non è un punto conclusivo.
La regola da seguire? Dialogare, dialogare e ancora dialogare.


Interviste consultate (in inglese):
1.   Father of Peace Studies: http://www.sgi.org/english/Features/quarterly/0201/portraits.htm
2.   Johan Galtung, expert in peace negotiations: “The world’s main terrorist is in Washington”: http://www.barcelona2004.org/common/imprimir.cfm ?id=F042731
3.   Johan Galtung: “With a little creativity, there is no conflict that cannot be resolved”: http://www.coe.intr/T/E/Com/Files/interviews/20021019_Interview_galtung.asp


Testi consultati:
Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000
Id., Il buddhismo come via
Id., Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987


(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)