Presentazione.
La genealogia filosofica di Derrida
è del tutto tipica della cultura francese degli anni ’40-‘50, e
in particolare della formazione degli allievi dell’Ecole Normale
Supérieure [vedi GEOGRAFIA DEL POST-STRUTTURALISMO]: si
tratta delle canoniche “tre H” (Hegel, Husserl e Heidegger) e
degli autori della cosiddetta (da Paul Ricoeur) scuola del sospetto
(Marx, Nietzsche, Freud). Rispetto a Foucault e Deleuze, Derrida è
un pensatore ancor più emblematico del postmodernismo, e come tale
ha sempre ricevuto le più accese critiche da parte dei filosofi
avversi al postmodernismo: significativa a questo proposito fu la
contestazione dell’assegnazione della laurea honoris causa a
Cambridge, nel 1992, con il pretesto che nella filosofia derridiana
non fosse possibile reperire una teoria della verità (in un senso
accettabile dagli analitici). Più di altri filosofi postmoderni (o
ascritti a tale “corrente”) Derrida è stato ripetutamente
accusato di non essere un vero filosofo ma piuttosto uno scrittore
(un’accusa, questa, spesso mossa anche a Nietzsche): i suoi testi
sarebbero infatti sprovvisti delle caratteristiche minime richieste
al genere filosofico (argomentazione chiara, tematizzazione adeguata
dei problemi e dei concetti, indicazione di soluzioni ai problemi
proposti, ricerca di una teoria soddisfacente). Ma proprio
l’originalità del trattamento sperimentale che Derrida riserva
alla filosofia, da una parte sottoponendola a qualcosa di simile a
una psicoanalisi freudiana, dall’altra sollecitandola fino ai suoi
confini con la letteratura e l’arte, costituisce buona parte
dell’importanza e dell’influenza che questo grande filosofo ha
esercitato ed esercita tuttora.
Decostruzione e differenza
I due concetti cui il nome di
Derrida è inscindibilmente legato sono la Decostruzione e la
differenza. Di Decostruzione aveva già parlato Heidegger (in tedesco
Dekonstruktion o Abbau): è un’operazione metafisica
che ha luogo nell’ambito della storia dell’essere; è il venire
meno, il destrutturarsi, o decostruirsi appunto, delle tradizionali
istanze concettuali del pensiero metafisico, ossia – nella lettura
nietzscheana e poi heideggeriana – del pensiero tout court, almeno
di quello occidentale, e per un portato idealista sotteso a tutta
l’ermeneutica (“l’essere che possiamo comprendere è
linguaggio”, Gadamer) della realtà che non è pensabile al di
fuori del pensiero/linguaggio.
La metafisica occidentale, da
Platone a Nietzsche, consterebbe di una serie di opposizioni
concettuali, quali: sensibile/soprasensibile, uomo/animale,
uomo/donna, mito/logos, razionale/irrazionale, voce/scrittura,
bene/male, ecc. Il “metodo” decostruttivo (ma in realtà si
tratta di un procedimento così erratico e per certi versi
poeticamente creativo da rendere impossibile parlare di metodo)
mostra che all’interno di ogni testo filosofico della tradizione il
discorso si struttura necessariamente sulla base di qualche
opposizione del genere, mirando a mettere in luce che gli opposti
stanno tra loro in una tensione dialettica sempre aperta su un terzo
termine, che per Hegel era la Sintesi.
Nella conferenza omonima Derrida
pensa il concetto di Differenza - o differanza come scrivono
alcuni traduttori (in francese différance, con la a
anziché con la e) - come alla differenza metafisica che è
l’origine di tutte le differenze, ossia di tutti i segni e di tutte
le cose: l’arci-differenza. La Differenza non è questa o quella
differenza empirica o trascendentale perché la stessa opposizione
empirico/trascendentale è possibile grazie al differire della
Differenza: è la Differenza in sé, ciò che Plotino chiamava, con
un’espressione spesso citata da Derrida, l’informe traccia della
forma. Il nome stesso, différance, non è comprensibile se
non leggendolo, il che è un buon esempio dell’idea centrale di
Derrida riguardo alla scrittura, dalla metafisica tradizionalmente
rimossa rispetto alla voce.
Metafisica della scrittura.
La tematica della Differenza trova nella scrittura un suo
banco di prova privilegiato. In una serie di opere infatti (La voce e
il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza)
Derrida ha facile gioco nel mostrare come la filosofia abbia
tradizionalmente subordinato la scrittura alla voce, ipostatizzando
lo spirito vivente (si pensi alla coscienza della fenomenologia
husserliana) e considerando la scrittura come un supplemento privo di
vita e al limite perverso e nocivo (il Fedro platonico è all’inizio
di questa storia di rimozione della scrittura). Derrida pensa invece
che la scrittura, intesa come iscrizione, preservazione del presente
attraverso tracce che testimoniano il passato e permettono
l’interpretazione futura, sia originaria rispetto al pensiero e
alle sue manifestazioni viventi, come la voce in tutte le sue
declinazioni: voce della coscienza, soliloquio interiore, dialogo,
ecc. Derrida ha chiamato “logocentrismo” questa rimozione
strutturale della scrittura: la metafisica pospone e subordina la
materialità del significante (la traccia in tutti i suoi aspetti non
significativi) all’idealità del significato, il logos.
Di tutte le coppie concettuali
decostruite da Derrida quella di scrittura e voce è senz’altro la
più significativa: da essa deriva la corrente “testualista”,
teorizzata da Richard Rorty e di cui Derrida sarebbe il massimo
esponente. La famosa affermazione derridiana secondo cui “non
esiste fuori-testo” è stata infatti interpretata nel senso che non
esisterebbe nulla al di fuori di un discorso teorico, di un mondo
testuale costruito da questa o quella tradizione filosofica, venendo
a sostenere qualcosa di simile al filosofo della scienza Willard Van
Orman Quine, secondo cui nulla esiste al di fuori di una teoria.
Derrida ha successivamente attenuato il senso di questa affermazione,
intendendo che nulla avrebbe senso al di fuori del suo contesto: se
questa attenuazione rischia di risultare banalmente vera, si mostrano
qui altre possibili analogie del pensiero filosofico derridiano, in
particolare con la filosofia del secondo Wittgenstein e la sua
tematizzazione delle forme di vita e dei giochi linguistici, che
vanno osservati più che pensati.
Verità, metodo, teoria
In comune con il post-strutturalismo
(e a differenza di alcuni suoi successori come Alain Badiou, cfr.
cap. Pop-filosofia, maitres-à-penser e neurofilosofi) Derrida
questiona il concetto stesso di verità, pur non approdando affatto a
posizione relativistiche (questo sarà evidente nell’ultima fase
della produzione derridiana, quella più spiccatamente
etico-politica), ma piuttosto a un arcitrascendentalismo di stile non
incompatibile con quello kantiano. Se ogni dato empirico ha
un’origine trascendentale, il trascendentale è l’origine della
verità; tuttavia il trascendentale non potrà essere ridotto
all’elenco kantiano di forme pure dell’intuizione, categorie e
schemi, ma si rivelerà di volta in volta come Differenza attraverso
l’operazione di decostruzione dei testi e delle tracce di cui la
storia della metafisica è la disseminazione.
Cade così da sé l’accusa di
mancanza di metodo, spesso rivolta a Derrida e alla decostruzione, e
che rappresenta una differenza forte rispetto all’ermeneutica
gadameriana cui pure spesso Derrida viene avvicinato. La
decostruzione non può avere un metodo semplicemente perché la
decostruzione decostruisce ogni metodo, mostrando l’impalcatura
logica e concettuale e la sua non-assolutezza, la sua relatività
dialettica che fa sì che ogni concetto chiaro e distinto sia sempre
dipendente e quindi intrinseco al proprio opposto: non per nulla si è
parlato di un iper-hegelismo di Derrida.
In questo modo si indebolisce anche
la possibilità di una teoria filosofica compiuta: la decostruzione
si caratterizza come dissoluzione di tutte le teorie esistenti, non
certo per spirito distruttivo ma perché queste si basano su
presupposti che celano la struttura dialettica della realtà e del
pensiero: portare alla luce il rimosso di ogni pensiero non può che
essere un’operazione demistificatrice e salutare.
Messianismo e politiche
spettrali. L’ultima fase della filosofia derridiana è
caratterizzata da un forte interesse per l’etica e la politica, che
in precedenza erano sempre stati sullo sfondo degli scritti
derridiani, con prese di posizione anche molto forti (per esempio
contro l’eurocentrismo dello Husserl della Crisi delle scienze
occidentali). In una serie di opere in cui si decostruiscono come
sempre i testi della tradizione letteraria, filosofica, etica e
politica, Derrida sferra un potente attacco all’umanismo
progressista e al relativismo postmodernista, a dispetto del fatto
che la sua filosofia sia spesso stata criticata come una delle forme
filosofiche del relativismo contemporaneo.
Parallelamente a un accresciuto
interesse per la politica si accentua anche l’insistenza di Derrida
sulla tematica del messianismo ebraico, che viene trasposto dal
campo religioso a quello puramente metafisico. La struttura logica
soggiacente a tutti gli atti di decostruzione mostrati nei testi
derridiani è sempre quella per cui se è vero che, secondo la
lezione di Heidegger, non si dà mai una pura presenza (il vero dono
non è quello che si può donare, il vero perdono non è quello che
si può concedere ecc.) è anche vero che gli esseri umani sono
costantemente in cerca di una piena presenza. L’analogia con la
filosofia di Kant è evidente, e infatti vi è un’istanza
“illuministica” in quest’ultima fase del pensiero derridiano:
ciò che non è coglibile dalla ragione come oggetto del pensiero
acquista il suo senso in prospettiva tendenziale, come idea della
ragione (o come orizzonte della decostruzione).
In Spettri di Marx (1993)
Derrida esplicita definitivamente il suo interesse per la filosofia
politica. Marx viene riletto in una chiave originale, quasi
“letteraria”, e messo a confronto con Shakespeare: lo spettro del
comunismo che si aggira per l’Europa (Manifesto del partito
comunista) viene paragonato al fantasma del padre di Amleto e
analizzato nei termini freudiani del ritorno del rimosso, per cui il
naufragio del comunismo – sovietico – non è un argomento
decisivo contro la persistenza delle istanze rivoluzionarie e di
emancipazione, di cui Marx nella lettura derridiana (che ne fa più
un pensatore messianico dell’emancipazione e della giustizia che un
filosofo della rivoluzione) appare un campione.
Gli ultimissimi testi di Derrida
testimoniano di un impegno politico diretto e radicale in un modo
insospettabile nelle prime fasi della sua opera: il filosofo francese
mette infatti il suo armamentario decostruttivo a confronto con
l’attualità mondiale, stigmatizzando per esempio la guerra
americana in Afghanistan e Iraq e interpretando l’attentato dell’11
settembre alle due Torri Gemelle come una conseguenza della politica
di terrore attuata dagli Stati Uniti nel corso del dopoguerra.
Inoltre, molti tra gli ultimi testi di Derrida decostruiscono
l’opposizione uomo/animale, inserendosi in modo peculiare nel
recente dibattito filosofico animalista.