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mercoledì 29 agosto 2012

La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques (un pezzo di mémoire de DEA?)


La doctrine deleuzienne des concepts philosophiques a été exposée de façon complète en Deleuze & Guattari 1995: il s’agit d’une théorie ouvertement métaphysique, d’une métaphysique préscriptive qui a été assez critiquée semblant ne pas se confronter avec la science et la logique contemporaine1. Cette théorie des concepts oppose nettement les concepts philosophiques aux pseudo-concepts de la science (les fonctifs) de la logique (prospects) et de l’art (percepts et affects), au point qu’elle doit bien apparaître comme

"un exemple particulièrement caractéristique et en même temps extrème de ce type de croyance “philosophante” (...) qui nous dit que les philosophes créent des concepts qui sont de leurs exclusive propriété.
Deleuze et Guattari appartiennent en effet à ces philosophes qui] diront que ce que les psychologues peuvent dire à propos des concepts ne les intèresse pas (ils ont même la tendence à penser que les concepts sont des créatures purement philosophiques)"2.

Le style philosophique est le dynamisme métaphorique propre aux concepts (philosophiques). Qu’il s’agisse de métaphore est certain, même si Deleuze, pour seconder les exigence du matérialisme spiritualiste3 qui informe sa pensée, tend à nier l’existence de la dimension métaphorique, atteignant sans doute les jugements de Wittgenstein et Lacan sur l’inexistence réelle du métalangage. Les concepts sont des entités immatérielles, donc ils ne peuvent subir un mouvement que métaphorique : il faudrait alors expliquer en quoi cela consiste. En bergsonien Deleuze amplifie l’ontologie du mouvement jusqu’à y comprendre «la perception, l’affection, e l’action comme trois espèces du mouvement»4. Sur le plan métaphysique tout est mouvement, devenir, et la stase n’est qu’une illusion (transcendentale)5. Aussi il résulte cohérent penser que les concepts vivent une forme de mouvement. Mais il est pour nous difficile comprendre qu’il s’agisse d’un mouvement métaphysique et non d’un mouvement historico-culturel, mouvement d’idées qui serait accettable à l’intérieur d’un modèle “épidémiologique” de la transmission culturelle, tel celui de Sperber 1996. Deleuze parle d’un mouvement qui doit forcément être conçu comme mental: est-ce qu’il nous faudrait une sorte d’intuition (un quale) du mouvement conceptuel?


1 Soulez 19???
2 Engel 1996, p. 204 et n.1 it
3 Acotto [1998], p.19: nous y qualifions la métaphysique deleuzienne comme un «matérialisme idéaliste»..
4 Deleuze [1990], p.166
5 Pour naïve qu’elle puisse paraître, cette métaphysique est peut-être plus proche de la Théorie de la Rélativité que d’autres métaphysiques plus scientifiques qui hypostatisent les formes e les objets. Sur la Rélativité et la Méchanique Quantique, cfr. Nozick [2001].

Jacques Derrida da me medesimo manualizzando


Presentazione.
La genealogia filosofica di Derrida è del tutto tipica della cultura francese degli anni ’40-‘50, e in particolare della formazione degli allievi dell’Ecole Normale Supérieure [vedi GEOGRAFIA DEL POST-STRUTTURALISMO]: si tratta delle canoniche “tre H” (Hegel, Husserl e Heidegger) e degli autori della cosiddetta (da Paul Ricoeur) scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud). Rispetto a Foucault e Deleuze, Derrida è un pensatore ancor più emblematico del postmodernismo, e come tale ha sempre ricevuto le più accese critiche da parte dei filosofi avversi al postmodernismo: significativa a questo proposito fu la contestazione dell’assegnazione della laurea honoris causa a Cambridge, nel 1992, con il pretesto che nella filosofia derridiana non fosse possibile reperire una teoria della verità (in un senso accettabile dagli analitici). Più di altri filosofi postmoderni (o ascritti a tale “corrente”) Derrida è stato ripetutamente accusato di non essere un vero filosofo ma piuttosto uno scrittore (un’accusa, questa, spesso mossa anche a Nietzsche): i suoi testi sarebbero infatti sprovvisti delle caratteristiche minime richieste al genere filosofico (argomentazione chiara, tematizzazione adeguata dei problemi e dei concetti, indicazione di soluzioni ai problemi proposti, ricerca di una teoria soddisfacente). Ma proprio l’originalità del trattamento sperimentale che Derrida riserva alla filosofia, da una parte sottoponendola a qualcosa di simile a una psicoanalisi freudiana, dall’altra sollecitandola fino ai suoi confini con la letteratura e l’arte, costituisce buona parte dell’importanza e dell’influenza che questo grande filosofo ha esercitato ed esercita tuttora.


Decostruzione e differenza
I due concetti cui il nome di Derrida è inscindibilmente legato sono la Decostruzione e la differenza. Di Decostruzione aveva già parlato Heidegger (in tedesco Dekonstruktion o Abbau): è un’operazione metafisica che ha luogo nell’ambito della storia dell’essere; è il venire meno, il destrutturarsi, o decostruirsi appunto, delle tradizionali istanze concettuali del pensiero metafisico, ossia – nella lettura nietzscheana e poi heideggeriana – del pensiero tout court, almeno di quello occidentale, e per un portato idealista sotteso a tutta l’ermeneutica (“l’essere che possiamo comprendere è linguaggio”, Gadamer) della realtà che non è pensabile al di fuori del pensiero/linguaggio.
La metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, consterebbe di una serie di opposizioni concettuali, quali: sensibile/soprasensibile, uomo/animale, uomo/donna, mito/logos, razionale/irrazionale, voce/scrittura, bene/male, ecc. Il “metodo” decostruttivo (ma in realtà si tratta di un procedimento così erratico e per certi versi poeticamente creativo da rendere impossibile parlare di metodo) mostra che all’interno di ogni testo filosofico della tradizione il discorso si struttura necessariamente sulla base di qualche opposizione del genere, mirando a mettere in luce che gli opposti stanno tra loro in una tensione dialettica sempre aperta su un terzo termine, che per Hegel era la Sintesi.
Nella conferenza omonima Derrida pensa il concetto di Differenza - o differanza come scrivono alcuni traduttori (in francese différance, con la a anziché con la e) - come alla differenza metafisica che è l’origine di tutte le differenze, ossia di tutti i segni e di tutte le cose: l’arci-differenza. La Differenza non è questa o quella differenza empirica o trascendentale perché la stessa opposizione empirico/trascendentale è possibile grazie al differire della Differenza: è la Differenza in sé, ciò che Plotino chiamava, con un’espressione spesso citata da Derrida, l’informe traccia della forma. Il nome stesso, différance, non è comprensibile se non leggendolo, il che è un buon esempio dell’idea centrale di Derrida riguardo alla scrittura, dalla metafisica tradizionalmente rimossa rispetto alla voce.


Metafisica della scrittura. La tematica della Differenza trova nella scrittura un suo banco di prova privilegiato. In una serie di opere infatti (La voce e il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza) Derrida ha facile gioco nel mostrare come la filosofia abbia tradizionalmente subordinato la scrittura alla voce, ipostatizzando lo spirito vivente (si pensi alla coscienza della fenomenologia husserliana) e considerando la scrittura come un supplemento privo di vita e al limite perverso e nocivo (il Fedro platonico è all’inizio di questa storia di rimozione della scrittura). Derrida pensa invece che la scrittura, intesa come iscrizione, preservazione del presente attraverso tracce che testimoniano il passato e permettono l’interpretazione futura, sia originaria rispetto al pensiero e alle sue manifestazioni viventi, come la voce in tutte le sue declinazioni: voce della coscienza, soliloquio interiore, dialogo, ecc. Derrida ha chiamato “logocentrismo” questa rimozione strutturale della scrittura: la metafisica pospone e subordina la materialità del significante (la traccia in tutti i suoi aspetti non significativi) all’idealità del significato, il logos.
Di tutte le coppie concettuali decostruite da Derrida quella di scrittura e voce è senz’altro la più significativa: da essa deriva la corrente “testualista”, teorizzata da Richard Rorty e di cui Derrida sarebbe il massimo esponente. La famosa affermazione derridiana secondo cui “non esiste fuori-testo” è stata infatti interpretata nel senso che non esisterebbe nulla al di fuori di un discorso teorico, di un mondo testuale costruito da questa o quella tradizione filosofica, venendo a sostenere qualcosa di simile al filosofo della scienza Willard Van Orman Quine, secondo cui nulla esiste al di fuori di una teoria. Derrida ha successivamente attenuato il senso di questa affermazione, intendendo che nulla avrebbe senso al di fuori del suo contesto: se questa attenuazione rischia di risultare banalmente vera, si mostrano qui altre possibili analogie del pensiero filosofico derridiano, in particolare con la filosofia del secondo Wittgenstein e la sua tematizzazione delle forme di vita e dei giochi linguistici, che vanno osservati più che pensati.


Verità, metodo, teoria
In comune con il post-strutturalismo (e a differenza di alcuni suoi successori come Alain Badiou, cfr. cap. Pop-filosofia, maitres-à-penser e neurofilosofi) Derrida questiona il concetto stesso di verità, pur non approdando affatto a posizione relativistiche (questo sarà evidente nell’ultima fase della produzione derridiana, quella più spiccatamente etico-politica), ma piuttosto a un arcitrascendentalismo di stile non incompatibile con quello kantiano. Se ogni dato empirico ha un’origine trascendentale, il trascendentale è l’origine della verità; tuttavia il trascendentale non potrà essere ridotto all’elenco kantiano di forme pure dell’intuizione, categorie e schemi, ma si rivelerà di volta in volta come Differenza attraverso l’operazione di decostruzione dei testi e delle tracce di cui la storia della metafisica è la disseminazione.
Cade così da sé l’accusa di mancanza di metodo, spesso rivolta a Derrida e alla decostruzione, e che rappresenta una differenza forte rispetto all’ermeneutica gadameriana cui pure spesso Derrida viene avvicinato. La decostruzione non può avere un metodo semplicemente perché la decostruzione decostruisce ogni metodo, mostrando l’impalcatura logica e concettuale e la sua non-assolutezza, la sua relatività dialettica che fa sì che ogni concetto chiaro e distinto sia sempre dipendente e quindi intrinseco al proprio opposto: non per nulla si è parlato di un iper-hegelismo di Derrida.
In questo modo si indebolisce anche la possibilità di una teoria filosofica compiuta: la decostruzione si caratterizza come dissoluzione di tutte le teorie esistenti, non certo per spirito distruttivo ma perché queste si basano su presupposti che celano la struttura dialettica della realtà e del pensiero: portare alla luce il rimosso di ogni pensiero non può che essere un’operazione demistificatrice e salutare.


Messianismo e politiche spettrali. L’ultima fase della filosofia derridiana è caratterizzata da un forte interesse per l’etica e la politica, che in precedenza erano sempre stati sullo sfondo degli scritti derridiani, con prese di posizione anche molto forti (per esempio contro l’eurocentrismo dello Husserl della Crisi delle scienze occidentali). In una serie di opere in cui si decostruiscono come sempre i testi della tradizione letteraria, filosofica, etica e politica, Derrida sferra un potente attacco all’umanismo progressista e al relativismo postmodernista, a dispetto del fatto che la sua filosofia sia spesso stata criticata come una delle forme filosofiche del relativismo contemporaneo.
Parallelamente a un accresciuto interesse per la politica si accentua anche l’insistenza di Derrida sulla tematica del messianismo ebraico, che viene trasposto dal campo religioso a quello puramente metafisico. La struttura logica soggiacente a tutti gli atti di decostruzione mostrati nei testi derridiani è sempre quella per cui se è vero che, secondo la lezione di Heidegger, non si dà mai una pura presenza (il vero dono non è quello che si può donare, il vero perdono non è quello che si può concedere ecc.) è anche vero che gli esseri umani sono costantemente in cerca di una piena presenza. L’analogia con la filosofia di Kant è evidente, e infatti vi è un’istanza “illuministica” in quest’ultima fase del pensiero derridiano: ciò che non è coglibile dalla ragione come oggetto del pensiero acquista il suo senso in prospettiva tendenziale, come idea della ragione (o come orizzonte della decostruzione).
In Spettri di Marx (1993) Derrida esplicita definitivamente il suo interesse per la filosofia politica. Marx viene riletto in una chiave originale, quasi “letteraria”, e messo a confronto con Shakespeare: lo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa (Manifesto del partito comunista) viene paragonato al fantasma del padre di Amleto e analizzato nei termini freudiani del ritorno del rimosso, per cui il naufragio del comunismo – sovietico – non è un argomento decisivo contro la persistenza delle istanze rivoluzionarie e di emancipazione, di cui Marx nella lettura derridiana (che ne fa più un pensatore messianico dell’emancipazione e della giustizia che un filosofo della rivoluzione) appare un campione.
Gli ultimissimi testi di Derrida testimoniano di un impegno politico diretto e radicale in un modo insospettabile nelle prime fasi della sua opera: il filosofo francese mette infatti il suo armamentario decostruttivo a confronto con l’attualità mondiale, stigmatizzando per esempio la guerra americana in Afghanistan e Iraq e interpretando l’attentato dell’11 settembre alle due Torri Gemelle come una conseguenza della politica di terrore attuata dagli Stati Uniti nel corso del dopoguerra. Inoltre, molti tra gli ultimi testi di Derrida decostruiscono l’opposizione uomo/animale, inserendosi in modo peculiare nel recente dibattito filosofico animalista.