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lunedì 12 gennaio 2015

La religione nel cervello

Estratti da Edoardo Acotto, Mito e (neuro)scienze cognitive

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L'intelligenza di Dio
Molti sono gli antropologi e gli psicologi di orientamento cognitivo che sostengono che le credenze religiose e mitiche siano una conseguenza naturale dell'evoluzione della mente umana - o mente/cervello, come si dovrebbe dire per sottolineare l'impostazione materialista di questi autori.
Considerando il suo ruolo fondamentale nella storia delle scienze cognitive, un punto di vista interessante è quello di Howard Gardner, il padre della teoria delle “intelligenze multiple” (Gardner 1987). Gardner (2000) analizza la possibilità di una forma autonoma di intelligenza, spirituale o religiosa, che comprenderebbe due abilità principali: realizzare particolari stati fisici coinvolti nella meditazione e in altre tecniche di manipolazione della coscienza, e raggiungere certi stati fenomenologici consistenti in una qualche esperienza di unione con il tutto. Secondo Gardner, però, nessuna di queste due capacità cognitive è specifica di un'intelligenza spirituale o religiosa, perché le abilità meditative possono essere ricondotte all'intelligenza corporeo-cinestetica e l'esperienza “estatica” di unione spirituale può scaturire da altre forme di intelligenza, come quella matematica o quella musicale, sopratutto nei momenti creativi. Per individuare una forma autonoma di intelligenza si devono poter individuare computazioni specifiche del dominio e secondo Gardner non è questo il caso per la presunta intelligenza spirituale. Gardner si domanda se sarebbe possibile attribuire a una “intelligenza esistenziale”, legata all'esistenza di sé come individuo nel cosmo e alla capacità di interrogarne il senso, la capacità di «effettuare computazioni (in senso lato) su elementi che trascendono la normale percezione sensoriale, forse perché sono troppo grandi o troppo piccoli per essere appresi direttamente» (ivi, p.29). Ma in mancanza di evidenze neuroscientifiche non c'è ragione per ipostatizzare un'intelligenza apposita.
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Religione? Naturale!
La ricerca dell'antropologo Pascal Boyer si inserisce pienamente nel solco della psicologia evoluzionistica, che è un innesto della psicologia cognitiva sul neodarwinismo (Barkow, Cosmides e Tooby 1992). Anche per Boyer (2013) Lévi-Strauss è un predecessore “brillante e problematico” dell'antropologia cognitivista. E coerente con l'impostazione dei lavori di Sperber è anche la prospettiva di Boyer (1992) sulla trasmissione culturale delle credenze mitiche e religiose, intese come particolari forme di rappresentazione mentale e di narrazione. Boyer spiega le credenze mitiche e religiose partendo dall'ipotesi che esse siano sempre coerenti con i meccanismi della cognizione umana, che nella prospettiva delle scienze cognitive è l'insieme dei processi mentali pensabili come elaborazione di informazioni: dalla comprensione di una frase a un ragionamento logico, alla visione di una scena o all'ascolto di una musica. Anche la trasmissione culturale sottostà alla “benformatezza” delle storie: come hanno mostrato gli studi pionieristici di Bartlett (1932, 1923, 1958) le “buone” storie, cioè quelle ben costruite rispetto ai vincoli cognitivi, si ricordano meglio, e le narrazioni mitiche raccolte dagli antropologi sembrano conformarsi alle caratteristiche determinate negli esperimenti di laboratorio. Questo significa che nel processo di trasmissione della memoria mitica le narrazioni sono “formattate”, oppure vengono dimenticate: i miti i riti tradizionali sono composti rispettivamente di storie e sequenze di gesti e azioni particolarmente memorabili (Boyer 1992, p. 19).
Il contenuto delle credenze mitiche non avrà una variabilità indefinita perché le caratteristiche cognitive della mente umana costituiscono i vincoli di formazione, conservazione e trasmissione delle credenze stesse. Così, le idee religiose sono “naturali” (Boyer 1994), ossia comprensibili e spiegabili all'interno di un'epistemologia naturalizzata (Quine 1969).
Gli esseri umani si trasmettono nozioni religiose all'interno del proprio gruppo sociale. Secondo Boyer, però, la trasmissione reale delle credenze non corrisponde a un'immagine naive e semplicistica: aquisire rappresentazioni mentali non è un processo passivo e i bambini che imparano i contenuti religiosi della propria cultura filtrano attivamente tutte le informazioni dell'ambiente. Il paragone con l'apprendimento linguistico può essere illuminante: non si apprende la sintassi della lingua materna sulla base di stimoli espliciti, come voleva il comportamentismo, esizialmente criticato da Chomsky (1959), bensì in maniera complessa, naturale e inconscia (Bloom 2000). Le regole di comportamento, invece, si apprendono per insegnamento esplicito, e non con la semplice osservazione degli esempi di interazione sociale. La matematica costituisce un caso diverso, che richiede un certo sforzo di apprendimento e dunque la relativa coscienza di apprendere qualcosa. Non c'è dunque un unico modo di apprendere i contenuti che ci rendono culturalmente competenti, perché la disposizione del cervello umano ad apprendere può essere differente a seconda del dominio considerato: è naturale apprendere entro i sei anni la corretta sintassi e la fonetica della propria lingua mentre le norme sociali vengono interiorizzate secondo un diverso ritmo. In tutti questi casi si ha disposizione ad apprendere perché si ha disposizione ad andare oltre la mera informazione presente nell'ambiente, come Chomsky (1959) ha messo per primo in evidenza relativamente al linguaggio (non si raggiungerebbe mai la competenza linguistica degli adulti se ciò dipendesse esclusivamente dalle informazioni ambientali: è l'argomento della “povertà dello stimolo”). La mente che acquisisce informazioni non è una tabula rasa (Pinker 2006) bensì ha istruzioni innate per organizzare l'informazione e conferire senso a ciò che si osserva e impara, oltrepassando il mero dato informazionale. La mente effettua inferenze a partire dalle informazioni ambientali e le inferenze costruiscono concetti generali a partire dall'informazione frammentaria. Le inferenze sono naturalmente governate da principi (probabilmente innati) che fanno combinare il materiale concettuale in determinati modi, non in altri.
Entra qui in gioco il concetto di template, che si potrebbe paragonare allo schema concettuale kantiano e ai frames dell'Intelligenza artificiale (Frixione 1994). Nell'accezione di Boyer un template è una regola di costruzione dei concetti, uno schema generale composto di più parti o caratteristiche; per esempio, il template ANIMALE ha come caratteristiche essenziali l'habitat, il cibo, il sistema di riproduzione, la forma corporea ecc. Il template permette al discente, tipicamente il bambino alle prese con la costruzione della propria conoscenza enciclopedica, di fare inferenze che vanno oltre l'informazione ambientale. Una volta mostrato a un bambino un tricheco, il bambino disporrà del concetto di tricheco, formato a partire dal template ANIMALE.
Boyer inserisce il suo modello cognitivo della creazione e trasmissione di concetti nel quadro dell'epidemiologia culturale elaborata da Sperber (1996). Contrapponendosi alla teoria memetica di Dawkins (1997), la prospettiva epidemiologica sostiene che la trasmissione delle idee non avviene secondo un meccanismo rigido e conservativo di codificazione/decodificazione dei contenuti. Le idee, migrando inferenzialmente da una mente all'altra, si modificano naturalmente, perché le inferenze si fondano sulla somiglianza piuttosto che sull'identità: «i concetti fluiscono costantemente» (Boyer 2002, p.45). Come spiegare allora che vi siano rappresentazioni mentali simili in individui diversi? Se c'è una sorta di forza centrifuga che fa divergere le rappresentazioni mentali dei diversi individui c'è anche una forza centripeta, costituita da inferenze e ricordi, che conduce a costruzioni simili anche a partire da input differenti: «ci sono importanti somiglianze nei concetti di animali dal Congo alla Groenlandia, a causa del template simile» (Boyer 2002, p. 45).
Secondo Boyer ci sono template anche per i concetti religiosi, la cui somiglianza intra- e inter-culturale risulta pertanto spiegabile in una prospettiva strettamente cognitiva: «ci sono alcune “ricette” contenute nella mia mente, e nelle vostre, e in quella di ogni altro essere umano normale, che costruiscono concetti religiosi producendo inferenze sulla base di qualche informazione fornita da altre persone e dall'esperienza» (Boyer 2002, p. 47).
Che cos'hanno in comune i concetti religiosi? Violano in maniera controintuitiva certe attese derivanti dalle categorie ontologiche, ma ne rispettano altre. Così un Dio onnisciente è costruito con il template [PERSONA] + poteri cognitivi speciali; il concetto di fantasmi è costruito come [PERSONA] + assenza di corpo materiale; il concetto di zombie è costruito come [PERSONA] + assenza di funzionamento cognitivo. Un esempio di credenza mitico-religiosa analizzata da Boyer è quella di “agenti soprannaturali” (dei, antenati, spiriti, streghe, ecc.) Questi agenti sono spontaneamente immaginati come dotati di una mente intenzionale, e la ragione della tendenza a riconoscerli come agenti è l'effetto dell'iperattività naturale del dispositivo mentale di ricognizione dell'agentività, che presenta un'evidente vantaggio evoluzionistico (è preferibile credere a torto di vedere un animale feroce nascosto tra i rami che si muovono piuttosto che non vedere un animale realmente nascosto).
Che la religione sia un fenomeno culturale, come i gusti in fatto di cibo, musica, buone maniere e abbigliamento, non significa dunque che essa sia infinitamente variabile, come un malinteso culturalismo lascerebbe pensare; per gli antropologi cognitivi, anzi, che qualcosa sia culturale è proprio la ragione per la quale non varia oltre una certa misura. Che cos'è in definitiva la religione, nella prospettiva cognitiva di Boyer? È uno “spandrel”, un fenomeno evoluzionistico parassitario dei moduli cognitivi della mente umana (Fodor 1988; Sperber 2001), com'è parassitario lo spazio risultante fra due archi in una basilica come quella di San Marco a Venezia: non ha una funzione precisa ma la sua mancanza di funzione non è immediatamente visibile (Gould e Lewontin 1971). Si noti che le spiegazioni evoluzionistiche che non assegnano una funzione evolutiva ad attività umane che oggi ci appaiono fondamentali sono abbastanza diffuse: Pinker (1997), per esempio, considera la musica alla stregua di una “torta alla panna uditiva”, e anche per Sperber la musica è soltanto un “parassita evoluzionistico” (Levitin 2008).
La costruzione di concetti religiosi richiede dunque dispositivi cognitivi e capacità disparate insite nella natura della mente umana, che vengono reclutate dall'immaginazione religiosa. Ma, come per Gardner e Sperber, non c'è ragione di ipotizzare un modo speciale di funzionare della mente, dedicato particolarmente ai pensieri religiosi.

Il Dio dei neuroni
La “neuroteologia” (termine apparentemente coniato da Aldous Huxley) è l'ultima apparizione nel campo delle applicazioni neuroscientifiche allo scibile antropologico-umanistico. Ed è senza dubbio la più discutibile, per l'uso spregiudicato che si fa di dati sperimentali dal significato tutt'altro che univoco. La neuroteologia si occupa ovviamente del nesso fra cervello e stati mentali con contenuto religioso. Ma come riassumono Legrenzi e Umiltà: «noi siamo fatti per credere e un bambino nasce già «fatto per credere». Questa è indubbiamente una storia vera, ma è un'altra storia: è già stata raccontata e non ha bisogno del «neuro» per essere spiegata» (Legrenzi e Umiltà 2009). E in effetti non si vede bene quale possa essere l'apporto della neuroscienza se la neuroteologia dovesse occuparsi di domande come: esiste un Dio, e può l'esistenza di Dio essere dimostrata? Qual è la natura di Dio? Qual è la natura del bene e del male e qual è la loro relazione con il peccato, il libero arbitrio e la virtù? Qual è la natura della rivelazione spirituale? Dio è immanente all'universo? (Newberg 2010).
Sotto l'etichetta della neuroteologia si possono comprendere anche studi come quelli del medico James Austin (1999; 2006) che analizzano gli effetti della meditazione zen sul funzionamento del cervello e in particolare della coscienza, ma senza concentrare l'indagine sull'origine neurologica dell'idea di Dio. Ma nei lavori inaugurali della (pseudo)disciplina, invece, sono state effettivamente cercate le presunte cause neurologiche delle credenze religiose (Newberg, D'Aquili e Rause, 2002).
Il meno che si possa dire di questi studi è che sembra difficile difenderli dal sospetto di un macroscopico errore categoriale: registrare tecnicamente l'esperienza religiosa non permette in nessun modo affermazioni esistenziali sul loro contenuto esperienziale.