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mercoledì 17 maggio 2017

Il collegio Ghislieri (Roman nouveau, 2)


Il collegio Ghislieri

La mia tesi in effetti faceva schifo, ma non è che io fossi uno studente universitario dei peggiori. Dopo il liceo ero entrato per concorso allo storico Collegio Ghislieri di Pavia, dove occorreva mantenere la media annuale del ventisette e dare tutti gli esami previsti dal proprio piano di studi. Così avevo fatto, anche se non ero certo uno studente eccellente: nessun professore mi fece mai i complimenti né dimostrò interesse verso di me, anzi l'antropologo Fabietti mi disse, dopo quello che fu il mio secondo esame di filosofia, che se fossi diventato più preciso ciò avrebbe giovato ai miei risultati.
Del resto anche la maestra di prima elementare mi aveva fatto piangere scrivendomi PASTICCIONE alla fine di un tema sui vulcani che io ritenevo bellissimo. C’erano anche i disegni dei vulcani.
Sicché avevo fatto il mio percorso universitario isolandomi sostanzialmente in un narcisistico e melanconico orgoglio, a metà tra la convinzione di essere un fallito e quella di essere un incompreso. L'orgoglio era accresciuto dalla mia dedizione ai filosofi francesi contemporanei, ancora poco conosciuti in quel di Pavia, dove vigeva una koiné heideggeriano-wittgensteiniana, miscelata con Merleau-Ponty.
Ma al Collegio Ghislieri avevo fatto ben altro che studiare. Avevo iniziato ad avere amici, a bere vino, ad amare le ragazze. Su quest'ultimo punto occorrerebbero mille precisazioni, perché non ebbi una vera fidanzata fino al mio terzo anno là dentro: tuttavia è certo che, provenendo da una condizione di miseria affettiva accumulata durante gli anni di liceo a Bra, mi avvicinai abbastanza rapidamente a una condizione di quasi normalità amorosa.
Al Collegio Ghislieri conobbi anche quelli che rimasero poi gli amici della mia vita, e insieme a loro bevvi moltissimi litri di vino scadente. Alle feste organizzate tra di noi, quand’ero matricola avevo il compito di acquistare il vino al supermercato, e siccome nessuno mi dava delle dritte tornavo spesso con il bottiglione da cinque litri contenente i peggiori e più velenosi vini in circolazione. Erano gli anni del vino al metanolo, e alla fine delle feste talvolta l'ubriachezza mi dava un'impressione di cecità.
Del resto lo studio della filosofia era per me un approdo tardivo e tormentato. Al liceo avevo avuto un pessimo professore e i miei gusti intellettuali si erano indirizzati verso gli orizzonti di pensiero dischiusi da autori come Bateson, Varela, Hofstadter, Xenakis, la cibernetica e l'intelligenza artificiale. Poiché mio padre, però, mi aveva imposto di scegliere tra ingegneria, giurisprudenza ed economia e commercio, avevo tentato di optare per quelle facoltà: superato il test d'ingresso al politecnico di Torino lo avevo frequentato per cinque giorni, fino alla notizia di avere vinto un posto al Collegio Ghislieri di Pavia. Lì entrai per studiare economia, salvo cambiare immediatamente facoltà iscrivendomi a giurisprudenza. L'anno di studi giuridici si accompagnò a grandi sofferenze, perché non mi bastava condividere lo studio del diritto con gente come Flaubert, Stravinsky, Kandinsky, Volponi e Nono per sentirmi giustificato a memorizzare logiche astruse e articoli di legge. Oltrettutto, in Collegio avevo conosciuto Valeria e Diego, due studenti di filosofia miei coetanei: mi sembravano due geni, mi pareva che i loro pensieri fossero fuori dal comune, non solo per il loro contenuto ma anche per la forma e lo stile, e durante un intero anno lottai per convincermi che anche io dovevo studiare la filosofia, perché solo la filosofia mi avrebbe potuto permettere di entrare in una dimensione di senso più profonda.

“Mamma – dissi un giorno durante un breve ritorno a casa – ho capito perché non posso continuare a studiare giurisprudenza: a me importa LA VERITÀ!”. Stavo studiando l'Introduzione a Heidegger di Vattimo, e la questione della verità doveva avermi dato alla testa. Quando poi mi iscrissi a filosofia, mi scontrai subito con la difficoltà di testi di un genere che non avevo mai incontrato prima (conoscevo soltanto un po' di Wittgenstein, che non avevo capito) e rapidamente dovetti confessare a me stesso che non ero tagliato per la filosofia. Ma che importava? Oramai, al secondo anno di Collegio, mi ero innamorato più volte, mi ero ubriacato parecchio, avevo cercato goffamente di sedurre alcune fidanzate dei miei amici, ed erano quindi in ballo questioni ben più importanti della facoltà universitaria, come il senso della vita, l'amore, l'odio, la gelosia e la morte.
Si capisce insomma agevolmente che al Collegio Ghislieri mi occupai perlopiù di cose diverse dallo studio dei filosofi francesi contemporanei, per quanto questi mi sembrassero profondissimi e necessari. Nulla di strano, dunque, se alla fine la mia tesi di laurea su L'ontologia della rappresentazione nella filosofia di Gilles Deleuze era davvero assai scadente.
Rileggendola adesso confesso che non si capisce quasi nulla di ciò che intendevo dire. Mi domando anzi come abbiano potuto permettermi di laurearmi.