E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

domenica 3 marzo 2024

Per Mark Fisher, 1

"Oddio, non so niente di economia, sul serio... (Scoppia a ridere.)" (M. Fisher, Desiderio postcapitalista).

La domanda da cui vorrei partire è questa: come può un critico brillante del capitalismo, quale Fisher senza ombra di dubbio era, ignorare l’economia, e ancor più: come può pensare di affermare pubblicamente di ignorarla senza conseguenze per la sua reputazione di critico del capitalismo?
Ossia: da quand'è che la sinistra ha ammesso la propria fondamentale ignoranza dell’economia?
Io stesso, che appartengo più o meno alla generazione di Mark Fisher (sono più giovane di quattro anni), sono un esempio di chi ha sempre considerato fondamentale l’economia e la sua critica, per una politica progressista, pur senza riuscire a impararla.
Ma a differenza di Fisher non ho mai pensato che fosse possibile rinunciare a comprenderla per poter criticare il capitalismo. Il capitalismo non esiste a prescindere dall'economia, e le interpretazioni altisonanti dell'economia come "nuova religione", da Benjamin ad Agamben, saranno anche affascinanti (non certo per me) ma non permettono alcuna critica costruttiva, emancipativa, progressista o rivoluzionaria, del capitalismo=economia reale.
Recentemente, leggendo Byung-Chul Han, un filosofo considerato in qualche modo, forse erroneamente, erede della sinistra (si spende per lui il ricordo della Scuola di Francoforte) ho constatato che nei suoi scritti agili e pop non pare esservi traccia di quell'economia reale che chiamiamo capitalismo.
Mi pare dunque essenziale ripartire da una critica delle critiche non-economiche del capitalismo.
A questo fine, il socialista Thomas Piketty, di cui sto leggendo Capitale e ideologia, sembra molto utile.