(Pubblicato sul sito del Sole 24 Ore, in risposta a questo articolo di Christian Raimo, e in seguito a una chiacchierata con Gianluigi Ricuperati sull'invidia.)
Gli argomenti di discussione toccati recentemente da alcuni scrittori e giornalisti su queste pagine sono moltissimi, per non dire una moltitudine. Il tema centrale sembra essere la possibilità di aprire un nuovo spazio di dibattito pubblico per la cultura, eventualmente con la Domenica del Sole 24 Ore come spazio privilegiato. Le affermazioni fatte in questi articoli sono forse non del tutto condivisibili, e altri problemi sembrano non essere stati tematizzati. Si può approfondire un discorso di per sé interessante?
I tre articoli che compongono finora il dibattito, citano un presunto risentimento: degli intellettuali italiani; degli italiani in generale; di uno scrittore costretto a fare una scelta esistenziale lavorativa come insegnante di liceo, ecc. Da un po’ di tempo sembra essersi diffuso nelle pagine dei migliori critici letterari l’uso quasi sistematico del concetto di risentimento, o invidia, spesso puntato contro i social networkers. Ora, a meno di discettare del concetto nietzscheano di risentimento - meglio se a partire dalla bella analisi fattane da Deleuze - questo concetto è fintamente esplicativo, un po’ come la virtus dormitiva dell’oppio. Di che cosa si parla ESATTAMENTE quando si stigmatizza la Rete come nuovo girone degli invidiosi? Non si prende qui affatto in considerazione il semplice punto di vista di molti normali cittadini più o meno intellettuali: se un bravo autore scrive un buon libro saremo tutti arricchiti dalla sua buona riuscita, di critica o di pubblico o meglio di entrambi. Non si capisce dunque perché dare per scontata la rappresentazione di un pubblico livoroso e irriconoscente. C’è persino un elemento positivo in una sensata invidia del talento, collante sociale essenziale che non dovrebbe dispiacere agli scrittori più liberali: un ottimo libro può forse suscitare nel lettore, e anche nell’altro scrittore, l’ammirazione per un’opera esemplare e il desiderio più o meno implicito di potere un giorno eventualmente produrre qualcosa di similmente bello. (Rossini diceva di Mozart: “la speranza della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità e la consolazione della mia vecchiaia”).
Se il pubblico italiano viene dipinto come invidioso, la Rete è il perfetto capro espiatorio. Fare politica si ridurrebbe per molti a un clic su Facebook: un’accusa certamente falsa e forse non del tutto priva di malafede. Chi non faceva politica prima di Facebook continua a non farla; chi la faceva già ha trovato in Facebook et similia validi ausili per l’organizzazione e la comunicazione dell’attività politica. In ogni caso, la blogosfera non è una realtà omogenea, e i soggetti online non sono tutti appassionati lettori di Dagospia. Al contrario: chi è intellettualmente attivo in Rete non ha certo tempo e soprattutto non ha probabilmente il gusto per le forme deteriori della comunicazione spettacolare. Perché dunque fare di tutta la Rete un fascio?
Riguardo all’impegno politico concreto, negli articoli citati si sostiene più o meno che la politica dovrebbe tornare ad ascoltare gli scrittori. Verrebbe da dire che sono gli scrittori che devono fare politica se vogliono farsi ascoltare. Qualcuno infatti lo fa. Ma si può fare politica sulla carta? Lagioia (10 ottobre) sostiene che l’impegno politico dello scrittore consisterebbe nello scrivere un buon libro. Torna alla mente la “lotta di classe nella teoria” di althusseriana memoria. Se è innegabile che l’impegno nel proprio campo professionale sia una questione di etica e spesso anche di estetica, non sembra realistico sostenere che scrivendo letteratura si faccia politica, semplicemente perché la letteratura oggi non ha un pubblico politico, almeno non un pubblico politico di massa (con l’eccezione di Saviano, sulla cui politicità molto già si è discusso).
Già agli inizi del Novecento, Max Weber vide la progressiva separazione e l’autonomizzarsi delle sfere della società contemporanea: economia, cultura, politica diventano insiemi escludentisi e relativamente non comunicanti. Nell’Italia deuterorepubblicana il fenomeno colpisce particolarmente per il venir meno della famigerata “egemonia culturale della sinistra”, gradualmente dissoltasi in culturalismo debolista. Ma se nella società contemporanea le sfere sociali si separano strutturalmente, perché mai la politica dovrebbe sporgersi ad ascoltare gli scrittori in un inedito movimento oblativo? Scendendo poi al più basso livello del “teatrino della politica”, non si può oscurare il fatto che stiamo attraversando un momento cardine per capire se il berlusconismo si imporrà definitivamente come cifra culturale della politica italiana o se possono esistere alternative politiche credibili. Mi aspetterei dunque da chi invoca una nuova alleanza tra cultura e politica che si pronunciasse concretamente su quale politica vorrebbe: la vaghezza infatti può essere un pregio in poesia, leopardianamente, ma in politica genera sospetti e opacità.
Su quale cultura si vorrebbe, infine, sembra esserci una discreta oscurità. Non che negli anni passati siano mancati i dibattiti: forse, a essere desertiche erano le idee. La cultura letteraria italiana è quanto mai restia ad aprirsi all’altro da sé, alla cultura scientifica e persino a quella filosofica, eccezion fatta per il postmodernismo e l’ermeneutica, o una filosofia del linguaggio sempre piegata al gusto del postmodernismo e dell’ermeneutica. (Dopo Calvino Gadda e Levi, uno scrittore scientista, se non scienziato, sembra impossibile in Italia, dove si stenta ad apprezzare persino uno Houellebecq). Tra l’altro, sul Sole 24 Ore scrivono da anni alcuni tra i migliori filosofi e psicologi italiani: non è strano che gli scrittori non sentano, non dico la necessità, ma almeno la curiosità di provare a coinvolgere nel dibattito i loro vicini di rubrica, moderatamente più anziani ma dalla sicura solidità teoretica? Forse la “nuova piccola civiltà letteraria” dovrebbe somigliare a un rovesciamento della Repubblica platonica, con la messa al bando non dei poeti ma dei filosofi?
Ecco: per iniziare a sperare in qualche nuovo genere di fenomeno culturale, sulle pagine del Sole 24 Ore e altrove, uno come me, normalmente soddisfatto del suo impegno esistenziale, lavorativo e politico (online e offline) avrebbe bisogno di vedere che anche a queste domande si danno risposte, anziché doversele semplicemente immaginare.