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martedì 26 ottobre 2010

Nuovi argomenti?

(Pubblicato sul sito del Sole 24 Ore, in risposta a questo articolo di Christian Raimo, e in seguito a una chiacchierata con Gianluigi Ricuperati sull'invidia.)

Gli argomenti di discussione toccati recentemente da alcuni scrittori e giornalisti su queste pagine sono moltissimi, per non dire una moltitudine. Il tema centrale sembra essere la possibilità di aprire un nuovo spazio di dibattito pubblico per la cultura, eventualmente con la Domenica del Sole 24 Ore come spazio privilegiato. Le affermazioni fatte in questi articoli sono forse non del tutto condivisibili, e altri problemi sembrano non essere stati tematizzati. Si può approfondire un discorso di per sé interessante?
I tre articoli che compongono finora il dibattito, citano un presunto risentimento: degli intellettuali italiani; degli italiani in generale; di uno scrittore costretto a fare una scelta esistenziale lavorativa come insegnante di liceo, ecc. Da un po’ di tempo sembra essersi diffuso nelle pagine dei migliori critici letterari l’uso quasi sistematico del concetto di risentimento, o invidia, spesso puntato contro i social networkers. Ora, a meno di discettare del concetto nietzscheano di risentimento - meglio se a partire dalla bella analisi fattane da Deleuze - questo concetto è fintamente esplicativo, un po’ come la virtus dormitiva dell’oppio. Di che cosa si parla ESATTAMENTE quando si stigmatizza la Rete come nuovo girone degli invidiosi? Non si prende qui affatto in considerazione il semplice punto di vista di molti normali cittadini più o meno intellettuali: se un bravo autore scrive un buon libro saremo tutti arricchiti dalla sua buona riuscita, di critica o di pubblico o meglio di entrambi. Non si capisce dunque perché dare per scontata la rappresentazione di un pubblico livoroso e irriconoscente. C’è persino un elemento positivo in una sensata invidia del talento, collante sociale essenziale che non dovrebbe dispiacere agli scrittori più liberali: un ottimo libro può forse suscitare nel lettore, e anche nell’altro scrittore, l’ammirazione per un’opera esemplare e il desiderio più o meno implicito di potere un giorno eventualmente produrre qualcosa di similmente bello. (Rossini diceva di Mozart: “la speranza della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità e la consolazione della mia vecchiaia”).
Se il pubblico italiano viene dipinto come invidioso, la Rete è il perfetto capro espiatorio. Fare politica si ridurrebbe per molti a un clic su Facebook: un’accusa certamente falsa e forse non del tutto priva di malafede. Chi non faceva politica prima di Facebook continua a non farla; chi la faceva già ha trovato in Facebook et similia validi ausili per l’organizzazione e la comunicazione dell’attività politica. In ogni caso, la blogosfera non è una realtà omogenea, e i soggetti online non sono tutti appassionati lettori di Dagospia. Al contrario: chi è intellettualmente attivo in Rete non ha certo tempo e soprattutto non ha probabilmente il gusto per le forme deteriori della comunicazione spettacolare. Perché dunque fare di tutta la Rete un fascio?
Riguardo all’impegno politico concreto, negli articoli citati si sostiene più o meno che la politica dovrebbe tornare ad ascoltare gli scrittori. Verrebbe da dire che sono gli scrittori che devono fare politica se vogliono farsi ascoltare. Qualcuno infatti lo fa. Ma si può fare politica sulla carta? Lagioia (10 ottobre) sostiene che l’impegno politico dello scrittore consisterebbe nello scrivere un buon libro. Torna alla mente la “lotta di classe nella teoria” di althusseriana memoria. Se è innegabile che l’impegno nel proprio campo professionale sia una questione di etica e spesso anche di estetica, non sembra realistico sostenere che scrivendo letteratura si faccia politica, semplicemente perché la letteratura oggi non ha un pubblico politico, almeno non un pubblico politico di massa (con l’eccezione di Saviano, sulla cui politicità molto già si è discusso).
Già agli inizi del Novecento, Max Weber vide la progressiva separazione e l’autonomizzarsi delle sfere della società contemporanea: economia, cultura, politica diventano insiemi escludentisi e relativamente non comunicanti. Nell’Italia deuterorepubblicana il fenomeno colpisce particolarmente per il venir meno della famigerata “egemonia culturale della sinistra”, gradualmente dissoltasi in culturalismo debolista. Ma se nella società contemporanea le sfere sociali si separano strutturalmente, perché mai la politica dovrebbe sporgersi ad ascoltare gli scrittori in un inedito movimento oblativo? Scendendo poi al più basso livello del “teatrino della politica”, non si può oscurare il fatto che stiamo attraversando un momento cardine per capire se il berlusconismo si imporrà definitivamente come cifra culturale della politica italiana o se possono esistere alternative politiche credibili. Mi aspetterei dunque da chi invoca una nuova alleanza tra cultura e politica che si pronunciasse concretamente su quale politica vorrebbe: la vaghezza infatti può essere un pregio in poesia, leopardianamente, ma in politica genera sospetti e opacità.
Su quale cultura si vorrebbe, infine, sembra esserci una discreta oscurità. Non che negli anni passati siano mancati i dibattiti: forse, a essere desertiche erano le idee. La cultura letteraria italiana è quanto mai restia ad aprirsi all’altro da sé, alla cultura scientifica e persino a quella filosofica, eccezion fatta per il postmodernismo e l’ermeneutica, o una filosofia del linguaggio sempre piegata al gusto del postmodernismo e dell’ermeneutica. (Dopo Calvino Gadda e Levi, uno scrittore scientista, se non scienziato, sembra impossibile in Italia, dove si stenta ad apprezzare persino uno Houellebecq). Tra l’altro, sul Sole 24 Ore scrivono da anni alcuni tra i migliori filosofi e psicologi italiani: non è strano che gli scrittori non sentano, non dico la necessità, ma almeno la curiosità di provare a coinvolgere nel dibattito i loro vicini di rubrica, moderatamente più anziani ma dalla sicura solidità teoretica? Forse la “nuova piccola civiltà letteraria” dovrebbe somigliare a un rovesciamento della Repubblica platonica, con la messa al bando non dei poeti ma dei filosofi?
Ecco: per iniziare a sperare in qualche nuovo genere di fenomeno culturale, sulle pagine del Sole 24 Ore e altrove, uno come me, normalmente soddisfatto del suo impegno esistenziale, lavorativo e politico (online e offline) avrebbe bisogno di vedere che anche a queste domande si danno risposte, anziché doversele semplicemente immaginare.

Il dilemma del prigioniero decostruito

Il Dilemma del prigioniero è un buon terreno di prova per l’applicazione della prospettiva nonviolenta. Il Dilemma è costruito in modo da non lasciare scelte: ci sono solo due attori e le conseguenze delle azioni sono calcolate astrattamente in modo da rendere di gran lunga preferibile un’opzione piuttosto che un’altra : una situazione al limite dell’irrealtà. Inoltre - e questo è il punto che riguarda più da vicino la nonviolenza – nel Dilemma la comunicazione è totalmente impossibile. Eppure la nonviolenza, come la realtà stessa, si basa proprio sulla comunicazione, anzi, la nonviolenza è (un certo tipo di) comunicazione. Il Dilemma è insomma costruito escludendo in partenza la dimensione nonviolenta, che ha nella comunicazione la sua dimensione e il suo veicolo privilegiato (e quasi unico).
Il Dilemma del prigioniero è un modello astratto, costruito selezionando certi tratti di realtà; da questo modello è escluso per essenza il modello di comportamento che potremmo chiamare di nonviolenza tecnica, ossia tutte quelle strategie di mediazione che le discipline sociali e i peace researchers hanno saputo inventare. Nel Dilemma, per esempio, si è scelto a priori che nessun Terzo Mediatore intervenga e far comunicare i due prigionieri. Perché questa scelta?

La comunicazione, in realtà, è (quasi) sempre possibile.
Una situazione storica simile al Dilemma è forse quella del confronto tra USA e URSS nell’epoca della guerra fredda relativamente all’escalation nucleare. Persino in quel caso le reali possibilità di comunicazione erano numerose e di fatto il conflitto nucleare che riempiva la fantasia degli sceneggiatori cinematografici e televisivi negli anni Settanta non è mai scoppiato (non è di poco conto il fatto che sia Gorbaciov che Shevardnadze attuassero con successo una politica di «disarmo asimmetrico» (cfr. Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, p.42).
Insomma se il Dilemma del prigioniero rispecchiasse davvero la realtà esprimendo la dinamica autentica delle situazioni umane e politiche, sarebbe forse difficile spiegare come si sia evitata la guerra nucleare, dato che le due superpotenze tendevano certamente a comportarsi come i prigionieri del Dilemma .

Il prigioniero buddhista
Volendo comunque prendere per buoni i termini del Dilemma, il comportamento del singolo prigioniero non è affatto scontato. Un prigioniero buddhista, per esempio, potrebbe svolgere un ragionamento come questo: « io e l’altro prigioniero siamo una cosa sola, perché né io né lui abbiamo una realtà individuale separata dal Tutto, la cui reale natura è il vuoto. L’interessere è la sostanza della realtà, e se io cercassi di salvare me stesso mettendo l’altro nei guai, in realtà danneggerei anche me stesso, perché lui e io siamo la stessa cosa. D’altra parte per lui rimanere in carcere potrebbe essere una grave sofferenza, mentre per me non è così terribile: dentro il carcere o fuori dal carcere, non fa differenza, l’importante è vivere in perfetta presenza mentale: dove, non importa. Se lui mi denuncia, ebbene, praticherò la presenza mentale qui dentro per i prossimi vent’anni.»
Con questo atteggiamento, forse possibile anche senza essere buddhisti (è sufficiente che "la voce della coscienza" impedisca di accusare ingiustamente altre persone), il prigioniero che pensa all’altro si espone al rischio di avere la condanna peggiore, ma ciò gli appare preferibile rispetto alla prospettiva di fare del male ad un’altra creatura.

Il prigioniero gandhiano
Un aspetto interessante del Dilemma è il fatto che non si dica se i due prigionieri sono colpevoli o meno. Uno dei pilastri della nonviolenza gandhiana è la nonmenzogna - per Gandhi, anzi, le due cose fanno tutt’uno. Un prigioniero gandhiano, se colpevole, dovrebbe ammettere la propria colpa per amore di verità : se anche l’altro prigioniero – colpevole – fosse un gandhiano, o semplicemente uno incline a dire la verità, i due avrebbero il massimo della pena, ma la nonmenzogna sarebbe salva. Si potrebbe d’altronde sostenere che, in caso di colpevolezza, entrambi accetterebbero la punizione che le leggi dello stato destinano loro.
Se poi i due gandhiani fossero innocenti, o l’uno innocente e l’altro colpevole, la strategia non cambierebbe: entrambi direbbero la verità, a prescindere dalla loro convenienza. Nemmeno questa assoluta dedizione alla verità è destinata a determinare il risultato più negativo: se i due sono innocenti, non accuseranno né se stessi né l’altro, e avranno il minimo della pena.
Anche in questo caso dunque – bizzarro ma non impossibile logicamente – il risultato non sarebbe quello "razionale" previsto dal Dilemma: non vi sarebbe anzi affatto Dilemma.

La prospettiva nonviolenta non è dunque conciliabile con la strategia "Tit for Tat" , di cui il Dilemma è un’illustrazione, e che si può sintetizzare così: cooperare se l’altro coopera, competere se l’altro compete (o anche: se c’è conflitto, confliggi, se no coopera).
Ma questo sembra essere il meccanismo spontaneo di ogni interazione umana, senza che vi sia il bisogno di formulare particolari strategie razionali.
Mettiamo alla prova il principio con un esempio fantastorico: quando si sarebbe dovuto aggredire Hitler? Al ripudio del Trattato di Versailles (marzo 1935)? All’occupazione militare della Renania (marzo 1936)? All’annessione dell’Austria (12 marzo 1938)? All’invasione dell’intera Cecoslovacchia in violazione dell’appena stipulato trattato di Monaco (marzo 1939)?
Se il principio "Tit for Tat" non si applica per una o più "mosse", che cosa bisogna fare all’ennesima mossa mancata? Il principio infatti non dice che sia bene reagire aggressivamente alle aggressioni dopo che si sono tollerate precedenti aggressioni. Potrebbe essere peggio…
Qualcuno potrebbe sostenere: «Se si fosse risposto in modo aggressivo al primo comportamento non-cooperativo di Hitler, applicando la regola "Tit for Tat", la Seconda Guerra Mondiale non sarebbe mai scoppiata». Forse. In ogni caso, in prospettiva nonviolenta ci interessa vedere se esistano alternative al "pan per focaccia".
Qui entra in gioco il pensiero della nonviolenza: se anziché attaccare militarmente Hitler quando vi fu l’invasione della Polonia si fossero presi provvedimenti, molto prima, affinché non si determinassero le cause che portarono Hitler al potere? Anziché proiettare il principio "Tit for Tat" sul momento della prima aggressione internazionale hitleriana si potrebbe pensare che si sarebbe potuto evitare il risentimento letale dell’intera Germania dopo la Prima Guerra mondiale .
In altre parole: dove inizia e dove finisce una catena causale relativamente all’innesco della violenza? Un vantaggio epistemologico della nonviolenza è quello di non isolare arbitrariamente un inizio e una fine alla catena, ma di ragionare in modo olistico anche relativamente al tempo storico (potremmo coniare il neologismo "cronolistico"...).
L’esempio del nazismo offre un’altro spunto di riflessione riguardo al principio "Tit for Tat": se il nostro comportamento deve essere simmetrico a quello altrui, e di fronte a una minaccia armata noi ci armiamo, questo genera il ben noto fenomeno dell’escalation militare.
Ma il fenomeno dell’escalation della violenza è la norma etologica per eccellenza: la Nonviolenza si propone esattamente di spezzare quel circolo normativo in modo efficace, se necessario anche unilateralmente.

REGOLA PRATICA (WITTGENSTEINIANA): Non pensare mai che la comunicazione sia impossibile, ma guarda che cosa puoi fare per comunicare migliorando la situazione di conflitto.

REGOLA ETICA (S. WEIL): «Sforzarsi di diventare ogni giorno più non-violenti in modo efficace».