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sabato 18 settembre 2010

Due poesie per me di Alfonso Maria Petrosino

1.
@cotto

Ehi dico a te, Edoardo Acotto, euh! tss!
non so se sai chi siamo noi (chi?).
Tu sei lo sguattero di Guattari
e Guattari varrà mezzo Deleuze,

il quale, è lui a dirlo, ha “beaucoup bu”
e non si riferisce all’acqua fresca.
È meglio la filosofia tedesca
della francese e valgono di più

le caute verità di Gadamer
di quelle di uno che scatarra e incanta
come una viola che accompagni un fado.

Per quanto invece, ahimé, riguarda me
ok, mi piace mettermi a 90,
ma tu filosofeggi al quinto grado.


2.

Al diavolo i filosofi: Platone
ha dato e detto tutto già, perfino
contraddicendosi. Qualcuno pone
una domanda a Socrate e "Sì, sì... no"

di solito risponde quel cialtrone
portando i giovani nel suo casino.
Neanche i moderni sono O.K.: Bacone
mi piace solo se c'è un egg vicino.

e di Descartes e altri rescogitanti
io francamente me ne frego e fotto,
nanetti sotto ai piedi dei giganti.

Il solo e l'unico che non mi ha rotto
e che potrei trattare con i guanti
è lo stanchissimo Edoardo Acotto

Alfonso Maria Petrosino

Pensare la gastronomia (Vogue13)

Pubblicato su Vogue.it

Nicola Perullo, professore associato di estetica all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, apre con eleganza un nuovo percorso filosofico in un campo tradizionalmente escluso dalla filosofia accademica: la gastronomia.

Il tuo ultimo libro, Filosofia della gastronomia laica, è molto bello perché analizza da un punto di vista originale problemi filosofici tipicamente contemporanei, che tu, convincentemente, mostri essere meritevoli di un’ approfondita considerazione. Puoi spiegarci in breve che cos’è la “gastronomia laica”?

Grazie. Filosofia della gastronomia laica – che ha per sottotitolo il gusto come esperienza - nasce da una doppia irritazione: da una parte, contro i pregiudizi che ancora in gran parte i filosofi hanno verso il gusto del cibo. Avere una expertise in questo campo viene considerato al massimo un hobby da praticare con misura, nulla di più, perché cucinare non è né una scienza né un’arte (secondo gerarchie antiche e ancora oggi molto diffuse), allo stesso modo in cui gustare non è un’esperienza conoscitiva né estetica. Io cerco di argomentare contro questa idea, sia teoreticamente sia eticamente, cioè militando: sono un gastronomo, da vent’anni frequento anche il mondo dei foodies, conosco cuochi e vini, ho collaborato molto anche a prodotti di valutazione gastronomica, come guide e repertori. Dall’altra parte, però, e con il medesimo gesto, la mia irritazione è rivolta a un certo atteggiamento che è emerso con forza negli ultimi anni: quello dei gastromaniaci, di coloro cioè che, costituitisi in comunità di eletti, ritengono la gastronomia quasi un sapere specialistico ed esoterico. Sono quelli che girano con macchina fotografica e telecamera e riprendono tutto quello che mangiano, analizzandolo e prendendo appunti. Ecco, credo che questo atteggiamento sia sbagliato in modo speculare a quello dei filosofi contro il gastronomico: per motivi teoretici (il cibo ha, tra le sue peculiarità, quella di essere un oggetto d’uso quotidiano, necessario alla vita, e dunque strutturalmente legato a una dimensione anche volgare: uso questa espressione nel suo senso più profondo), e per motivi etici. I gastronomi ossessivi-compulsivi di cui oggi pullula l’universo on-line – basta fare una ricerca dei blog tematici per verificarlo – sono persone che finiscono per assumere un atteggiamento insopportabile e pedante, autistico e autocompiaciuto, che sopperisce carenze di altro tipo sublimandole nel gusto per il cibo.
L’espressione gastronomia laica indica una terza possibilità, che chiamo anche “saggezza gustativa”: massima attenzione e rispetto per il gusto, per il piacere e il sapere che possiamo trarne, ma anche massima apertura alla sua molteplicità di manifestazioni, senza dogmi di sorta.

Le categorie che usi nel tuo libro a proposito del cibo (conoscenza, piacere, indifferenza), potrebbero essere riferite anche al modo di abbigliarsi?

Credo di sì. Anzi, credo che queste categorie possano riferirsi a tutte le modalità in cui possiamo esperire qualcosa. A me piace molto l’idea che noi siamo sempre dentro a contesti, a esperienze, rispetto alle quali siamo sia attivi che passivi, abbiamo margini di scelta e orientamento ma anche “paletti” dati da come le cose si danno a noi in quel determinato contesto. Ci si può vestire solo per il piacere  che ci dà un certo modello un certo tessuto, ma anche per il piacere di essere visti e apprezzati (e questo accade anche nel gusto del cibo, anche se forse a proporzioni invertite: l’immagine ovviamente è più immediata e forte nel caso dell’abbigliamento). Ci si può vestire in un certo modo perché si conoscono le caratteristiche, la storia, le qualità del prodotto, e perché con questo si vuole dare un certo messaggio (e questo vale anche per il cibo). E ci si può vestire come capita, senza alcuna cognizione e senza godere del modo in cui ci si abbiglia, tanto per coprirsi: vale anche per il cibo, quando il gusto lascia spazio alla sola necessità nutritiva. Anche per l’abbigliamento, credo che la modalità “saggia” possa costituire un atteggiamento interessante: tutte tre le categorie possono andare bene in determinati contesti e in esperienze opportune.

Nel tuo libro a un certo punto dici che nell'immaginario massmediologico la moda è trattata meglio del gusto: secondo te perché?

Il design come ambito degno di essere annoverato nella cultura è stato sdoganato già da molto tempo. Gillo Dorfles, in Italia, comprese già negli anni ’50 quanto la sartoria e la moda fossero attività estetiche. Credo che la questione riguardi il fatto che la capacità di fare sia in questo caso connessa a un manufatto che, innanzitutto, si apprezza con la vista, laddove il cibo, per quanto godibile agli occhi, deve poi essere gustato; e la gerarchia del sensibile (vista e udito superiori a gusto e olfatto) gioca qui un ruolo. Inoltre, questo manufatto visibile, il prodotto di un designer o uno stilista, è qualcosa che perdura nel tempo: anche se il mio cappotto si consuma, il modello del mio cappotto resterà come opera dello stilista. Nel caso del cibo, le cose vanno diversamente: il manufatto si consuma. E quel che resta, la ricetta che l’ha creato, non è sufficiente: l’ingegnosità non è nella ricetta ma nella sua esecuzione, che viene verificata solo al momento del consumo. Si aprono qui ulteriori questioni molto serie, che riguardano la gerarchia  dei saperi e dei mestieri: tipicamente, il lavoro intellettuale sta più in alto di quello manuale. Oggi, alcuni cuochi come Adrià possono essere da alcuni considerati “artisti” (Adrià è stato l’unico cuoco mai invitato a Documenta a Kassel nel 2007) nella misura in cui per l’appunto vengono identificati come designer, master of concept, e non come cucinieri/manipolatori/artigiani. È un tema che io affronto criticamente, non mi convince questa suddivisione gerarchica, ma di fatto è quella che ha un po’ sdoganato la cucina nel campo della cultura “alta” in questi ultimi anni. Invece, se guardiamo alla cucina tradizionale, si trova una grande presenza sui massmedia ma ancora molto spesso con uno sguardo poco attento e a volte un po’ troppo folcloristico.


http://www.meltemieditore.it/Scheda_libro.asp?Codice=Y092