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mercoledì 9 marzo 2011

Piccola grammatica della nonviolenza (prefazione a Senza violenza)

1. Terminologia elementare.

Partiamo da un’osservazione fondamentale: per quanto possa sembrare strano, gli studiosi tendono a non utilizzare il termine “pacifismo”, che appare essere una nozione tropo imprecisa e spesso connotata negativamente (è la parola usata dagli avversari dei movimenti per la pace). I termini “pacifismo” e “nonviolenza”, certamente tra i più popolari e utilizzati (spesso a sproposito) dai mass-media, non sono sinonimi. Come dice Nanni Salio, spesso «il linguaggio comune e soprattutto quello impiegato dai media svolge una duplice funzione negativa: nasconde alcuni possibili significati, soprattutto quelli alternativi, e ne veicola altri, stereotipati, funzionali alla cultura dominante, alle tesi che si vogliono dimostrare e alle decisioni politiche che si vogliono imporre. [...]» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.136).
Il linguaggio comune, dunque, anche relativamente al tema della pace abbisogna di analisi chiarificatrici, per evitare confusioni e strumentalizzazioni, per altro all’ordine del giorno.
Possiamo cercare di definire alcuni termini più frequenti:
L’antimilitarismo è «l’opposizione alla dominazione dell’ideologia e dell’istituzione militare sulla società» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.22).
Il pacifismo può essere definito come «il rifiuto intransigente, morale, della violenza anche in mancanza di alternative radicali ed anche per difesa di altri, a volte coincidente con la passività totale (pacifismo assolutistico)» (Cozzo, p.28). Come osserva Muller «il discorso pacifista si squalifica quando lascia credere che eserciti ed armamenti siano le cause delle guerre, presentando la loro soppressione come condizione necessaria e sufficiente per la pace. Per promuovere una politica di disarmo, è invece importante pensare a degli “equivalenti funzionali della guerra” in grado di offrire alle nazioni i mezzi per difendersi contro un’eventuale aggressione.
Proprio perché percepita in modo negativo da parte dell’opinione pubblica, la parola “pacifismo” è speso utilizzata nei discorsi dominanti per designare i movimenti di pace che si oppongono ai vari aspetti della politica militare degli Stati [...]. Nello stesso tempo uno dei mezzi più sicuri per screditare un movimento è di squalificarlo nominandolo. Infatti nella maggior parte dei casi questo nome, che vuole essere un’accusa, viene dato a movimenti che sviluppano analisi e scelgono obiettivi che differiscono radicalmente da quelli del “pacifismo”» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.94).
Ciò non toglie che, specie nella prima metà del XX secolo, autori che oggi designeremmo come nonviolenti facessero uso della parola anche per autodefinirsi.
Il termine nonviolenza è la traduzione letterale del termine sanscrito ahimsa, composto da a privativa e himsa, danno, violenza. La parola ahimsa implica una sfumatura intenzionale che si potrebbe rendere con “assenza del desiderio di nuocere, di uccidere”. Altre proposte, per esempio innocenza, sembrano comunque perdere qualcosa del significato originario. È stato sempre Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. (Anche noi, quando non citiamo, scriveremo sempre “nonviolenza”). Gandhi invece sottolineava proprio questo elemento negativo: «In effetti la stessa espressione “non-violenza”, un’espressione negativa, sta ad indicare uno sforzo diretto ad eliminare la violenza che è inevitabile nella vita.» (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, p.77).
L’espressione resistenza passiva era usata dallo stesso Gandhi fino a quando si rese conto che l’espressione correva il rischio di far pensare a un pacifismo passivo di tipo religioso, inerte di fronte all’ingiustizia. Inoltre Gandhi voleva una parola indiana per una forma di lotta indiana.
Satyagraha è il neologismo è formato a partire da parole della lingua natale di Gandhi (il gujurati). Letteralmente significa forza della verità (Satya:Verità, graha: forza). Gandhi adottò tale termine per distinguere la “nonviolenza del forte” dalla resistenza passiva, la quale può coincidere con la “nonviolenza del debole”.
Con l’espressione movimento/i per la pace si intendono le molteplici forze sociali, intellettuali e professionali che operano per la pace, concretamente e sul piano teorico. «Il movimento per la pace è sempre stato uno “strano” movimento, composito, disomogeneo, con componenti interne che provengono da tradizioni culturali diverse e spesso in conflitto tra loro, con opinioni discordi e privo, in Italia ancor più che altrove, di una leadership riconosciuta autorevole. [...] Sarebbe quindi più corretto parlare di movimento per la pace al plurale invece che al singolare, poiché in realtà il movimento per la pace al singolare è “un movimento che non c’è”». D’altra parte «la prima confusione sta nell’usare come sinonimi il termine movimento pacifista e movimento per la pace. Può sembrare una distinzione sottile, quasi inutile, ma non è così. In tutta la letteratura sull’argomento si usa distinguere un generico movimento pacifista, nel quale confluiscono in alcuni momenti storici larghi settori dell’opinione pubblica, alcune forze politiche e religiose ben definite, dal movimento per la pace inteso come una struttura organizzata e permanente, con un suo ben preciso programma di azione politica proiettato nel tempo, non soltanto contingente e genericamente contrario alle guerre, ma costruttivo, che si basa su un’ampia riflessione teorica e culturale» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.52; p.136).
Infine, con il termine tecnico di peace research si intende un insieme di dottrine accademiche e non accademiche che studiano il problema della pace nella prospettiva di un rinnovato (più comprensivo, olistico) paradigma delle scienze umane. Suo iniziatore è il grande teorico Johan Galtung. L’importanza della peace research consiste nel fornire concetti rigorosi per una teoria della pace e della nonviolenza, strappando defintivamente alla confusione del senso comune un tema davvero vitale.

Il concetto-guida di questo libro è quello di nonviolenza. Riguardo alla definizione della nonviolenza e alla distinzione tra i possibili tipi di nonviolenza occorre analizzare un po’ più da vicino almeno il pensiero di Gandhi, ai cui scritti ci si deve riferire come all’origine teorica della nonviolenza moderna.

2. ABC della nonviolenza.

Cominciamo con le parole di Nanni Salio, uno dei più importanti studiosi italiani di peace research: «L’idea di nonviolenza non è nuova, ma “antica come le colline”, come insegna Gandhi, sebbene sia proprio merito suo averla trasferita con piena dignità nel campo stesso della politica.
La nonviolenza si oppone ad ogni forma di violenza, sia diretta sia strutturale [cioè insita nell’ingiustizia del sistema economico e sociale], senza giustificare il ricorso all’una per eliminare l’altra: spezza il circolo vizioso della violenza rifiutando a priori di farvi ricorso. E per precisare questa scelta la nonviolenza va ancora più a fondo, rifiutando anche la violenza che si manifesta a livello culturale, nascosta nelle pieghe delle nostre convinzioni religiose, morali, sociali» (Salio, Le guerre del Golfo, p.21).
La nonviolenza gandhiana è duplice: ahimsa e satyagraha, astensione dalla violenza e lotta contro la violenza altrui.
Una possibile definizione sintetica è la seguente: teoria dei conflitti volta ad individuare gli strumenti di lotta che portano alla maggior riduzione possibile di violenza in tutte le sue forme (Cozzo, p.23). Questa definizione ha il pregio di sgombrare il campo dall’equivoco che la nonviolenza sia inazione o, peggio, rinuncia a combattere la violenza diretta e quella strutturale (cioè “depositata” nelle strutture sociali). La nonviolenza non è semplice negazione della violenza e del conflitto ma, come suggerito dalla grafia capitiniana senza il trattino, può essere pensata come un concetto positivo e costruttivo.
L’intuizione di Simone Weil secondo cui la violenza reifica, cioè disumanizza e trasforma in cosa chiunque la compia, può fornire uno sfondo filosofico adeguato. La nonviolenza è il rifiuto della disumanizzazione, che necessariamente deriva dall’esercizio della violenza quand’anche fosse attuata per fini pretesi “giusti”, come nel caso dell’autodifesa violenta.
La nonoviolenza si basa sulla scelta etica di patire la violenza nell’ambito di un conflitto piuttosto che infliggerla, nella convinzione che l’avversario possa essere convertito dall’esempio del nonviolento. Mentre il violento infligge per non subire, il nonviolento subisce pur di non infliggere alcun male e nel tentativo di “trasformare” l’avversario violento, nella convinzione che così facendo l’avversario possa essere migliorato moralmente e prima o poi abbandoni la propria posizione violenta.
L’alternativa violenza/nonviolenza corrisponde insomma a quella tra la scelta coerente di una determinata qualità dell’esistenza e l’obiettivo della semplice conservazione della propria, integrità fisica, libertà e vita: piuttosto che degradarsi compiendo violenza anche autodifensiva, il nonoviolento sceglie di conservare una diversa (migliore) qualità morale confidando nel suo valore esemplare universale e “contagioso”.
La violenza non viene annullata dall’azione nonviolenta ma in un certo senso “cambia direzione”: il “soldato” nonviolento si espone, pone se stesso come possibile beraglio di violenza: «Il conflitto è accettato nella sua interezza, senza alcun timore o passività, ma in una forma tale che l’energia non è impiegata per distruggere l’avversario ma per persuaderlo, e dunque preferendo provocare una sofferenza a se stessi piuttosto che a lui, non però per ricattarlo psicologicamente con un atteggiamento vittimistico ma per sincero desiderio di non costringere nessuno» (ivi, p.75).
La nonviolenza mira dunque a giungere a una soluzione dei conflitti senza fare ricorso a mezzi violenti. Dire nonviolenza significa dire lotta per la pace e la giustizia (pace “nonviolenta”). Si vede allora come la pratica della nonviolenza richieda dedizione e coraggio quanto, se non più dell’eroismo militare.
Spesso si sostiene che la violenza è intrinseca alla natura umana. Ma, argomentava già Gandhi, «il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità o dell’amore. Dunque la prova più grande e più inconfutabile del successo di questa forza deve essere vista nel fatto che malgrado tutte le guerre che si sono avute nel mondo, questo continua ad esistere» (Teoria e pratica della non-violenza, p.65).
Nel pensiero di Gandhi la violenza non è qualcosa di “naturale” a cui ci si possa e debba opporre con una strategia culturale: «La non-violenza è la legge della nostra specie come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito nel bruto è addormentato, ed egli non conosce altra legge che la forza fisica. La dignità dell’uomo richiede l’obbedienza ad una legge più elevata, alla forza dello spirito» (ivi, p.20).


2.2 Forme di nonviolenza.

Gandhi distingueva la nonviolenza del forte, o satyagraha, o nonviolenza come convinzione, dalla nonviolenza del debole, o duragraha, o resistenza passiva.
Una definizione di satyagraha è la seguente: «il metodo di salvaguardare i diritti mediante la sofferenza personale» (Gandhi, Antiche come le montagne, 1993, Mondadori).
Il satyagraha è attiva lotta contro la violenza e dunque non si limita a un astensione dalla violenza e non è riconducibile a tattica o strategia. La nonviolenza satyagraha non è però completa eliminazione della violenza perché per Gandhi la violenza non è mai del tutto eliminabile dall’esistenza: «A rigor di termini, nessuna attività e nessuna occupazione è possibile senza un certo grado, per quanto limitato, di violenza. La stessa vita è impossibile senza un certo grado di violenza. Ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza quanto più è possibile» (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, p.77).
La resistenza passiva, invece, può rappresentare la fase iniziale di un conflitto violento, durante la quale non ci si sente ancora abbastanza forti da impugnare le armi. Sotto la guida di un leader e di un gruppo dirigente che professino la nonviolenza come convinzione, anche la resistenza passiva può svilupparsi in direzione del satyagraha.
Cosa evidentemente diversa dalla nonviolenza del debole è l’inazione per viltà, cui per Gandhi è da preferirsi anche l’uso delle armi: «Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione» (ivi, p.22).
Si può poi distinguere tra nonviolenza positiva e nonviolenza negativa: la prima mira a «rendere più facile alla nostra controparte il compiere azioni che il gruppo nonviolento approva»; la seconda mira a «rendere più difficile il compiere azioni cui si oppone un gruppo nonviolento» (Galtung, Gandhi oggi, p.152).
Dato che l’atteggiamento nonviolento coinvolge diverse dimensioni dell’essere umano, quella sociale e politica come quella privata e affettiva, le implicazioni etiche della nonviolenza sono notevoli, e forse primarie. Ecco dunque un’altra possibile definizione di nonviolenza, data da Aldo Capitini: scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.


2.3 Etica della nonviolenza.

Caratteristica fondamentale della nonviolenza è la riconsiderazione della relazione mezzi-fini. Nell’etica della politica (occidentale) moderna prevale il principio machiavelliano secondo cui il fine può giustificare i mezzi. Per la nonviolenza, al contrario, vige il principio dell’omogeneità tra mezzi e fini: un fine buono si deve raggiungere attraverso mezzi buoni, perché «mezzi impuri producono un fine impuro» (Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, p.126).
L’imperativo categorico della nonviolenza non è il negativo «astieniti dalla violenza», bensì l’ancor più impegnativo «Agisci in modo tale che la tua azione porti alla maggior riduzione possibile della violenza a lungo termine e in tutte le sue forme» (Pontara, Introduz. a Teoria e pratica della non-violenza, p.XXXII-XXXIII). E secondo Pontara questo imperativo «fa parte di un sistema di norme ciascuna delle quali è fornita di uguale validità e tale che, ove venga a conflitto con una o più delle altre, può essere da quella o da quelle soverchiata. Sì che si possono dare situazioni in cui l’uso della violenza, pur essendo proibito in base all’imperativo accennato, potrà tuttavia essere sancito come legittimo in quanto richiesto da una o più norme in misura più forte che non sia proibito dall’imperativo della non-violenza» (ibid.). Questo spiega come mai lo stesso Gandhi, differentemente da Tolstoj e dai pacifisti religiosi, riteneva che fosse preferibile commettere violenza piuttosto che rinunciare ad affrontare la violenza per mera vigliaccheria: «Uccidere può essere un dovere. [...] Noi distruggiamo la vita di tutto ciò che riteniamo necessario al sostentamento del nostro corpo. [...] Per il bene degli altri poi, nell’interesse dell’umanità, noi uccidiamo le belve. Quando dei leoni o delle tigri minacciano i loro villaggi, gli abitanti considerano loro dovere ucciderli o farli uccidere.
In alcuni casi può essere necessario perfino versare sangue umano. Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole.
Dal punto di vista dell’Ahimsa è chiaro dovere di ciascuno uccidere un simile uomo». (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, p.69-70)
La nonviolenza non implica nemmeno il porre sullo stesso piano tutte le forme di vita: «La mia non-violenza non è semplicemente una forma di bontà verso tutte le creature viventi. [...]» (ivi, p.75).
Gandhi ha spesso risposto a chi gli poneva quesiti pratici a proposito della nonviolenza sostenendo che la violenza in certi casi è irrinunciabile, e comunque tra la codardia e la violenza bisogna senz’altro scegliere la seconda: «Quando mio figlio maggiore mi chiese quello che avrebbe dovuto fare se fosse stato presente quando nel 1908 fui aggredito e quasi ucciso, se avrebbe dovuto fuggire oppure avrebbe dovuto usare la sua forza fisica, come avrebbe potuto e voluto, e difendermi, io gli risposi che sarebbe stato suo diritto difendermi anche facendo ricorso alla violenza» (ivi, p.18).
In particolare, è immorale lasciare alla mercé della violenza coloro che hanno bisogno di difesa: «Erano state saccheggiate le case di alcuni abitanti di un villaggio. Questi erano fuggiti lasciando le mogli, i figli e i parenti alla mercé dei saccheggiatori. Quando io li rimproverai per la codardia che avevano dimostrato non compiendo il loro dovere, essi impudentemente si appellarono alla dottrina della non-violenza. Io denunciai pubblicamente la loro condotta e affermai che la mia non-violenza giustificava pienamente la violenza usata da coloro che non credevano nella non-violenza e che erano chiamati a difendere l’onore delle loro donne e dei loro bambini. La non-violenza non è una giustificazione per il codardo ma è la suprema virtù del coraggioso. La pratica della non-violenza richiede molto più coraggio della pratica delle armi. La codardia è assolutamente incompatibile con la non-violenza.» (ivi, p.23).


2.4 Tecniche della nonviolenza.

Gandhi ha sperimentato in decenni di lotta quanto la nonviolenza richieda forte autocontrollo e capacità di organizzare gruppi e strategie nonviolente. Oltre la dimensione più puramente etica della nonviolenza esistono dunque vere e proprie tecniche di gestione nonviolenta dei conflitti.
La non-cooperazione o non-collaborazione è «il principio essenziale della strategia dell’azione nonviolenta [...] È necessario allora organizzare la resistenza invitando ciascun membro del gruppo o della collettività a ritirare il proprio sostegno ai responsabili di una comprovata ingiustizia, privandoli in questo modo del concorso del quale necessitano per assicurarsi il dominio» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.80); va notato che la non-cooperazione in un primo tempo può essere perfettamente legale e solo in un secondo tempo, esauriti tutti i mezzi legali può sfociare in azioni di disobbedienza civile.
La disobbedienza civile (espressione coniata da H. D. Thoreau) è la più forte azione di non-collaborazione. «Quando la legge non adempie più alla sua funzione anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei più sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l’ingiustizia, non soltanto è un diritto, ma è un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare sistematicamente l’obbedienza alla legge» (Muller, Significato della nonviolenza, p.23).
Il digiuno o più propriamente lo sciopero della fame, ha lo scopo di esercitare una pressione sociale sulla controparte affinché si ponga termine alle situazioni d’ingiustizia. È una tipica azione nonviolenta basata sull’esempio: «Quanto più la coercizione viene ridotta, tanto più c’è bisogno di presentare esempi che abbiano, per se stessi, una efficacia persuasiva, talvolta anche fuori dell’ordinario» (Capitini, Le tecniche della nonviolenza, p.54). Va osservato però che se è ricattatorio, lo sciopero della fame perde il suo carattere nonviolento: «C’è ricatto quando si lascia capire, più o meno esplicitamente, che quelli che sono entrati in sciopero [...] fanno cadere la responsabilità della loro morte, se morte ci sarà - e non si potrebbe escludere a priori - sull’avversario. È un ricatto inammissibile. L’avversario porta su di sé la responsabilità dell’ingiustizia per la quale conduco lo sciopero della fame, ma se conduco uno sciopero della fame, devo prendere fino in fondo le mie responsabilità e non far cadere su altri la responsabilità dei rischi cui vado incontro» (Muller, cit., p.18).
Il boicottaggio è «un metodo di non-cooperazione sul piano economico: rifiuto di far beneficiare l’altro del mio potere d’acquisto che diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio avversario» (ivi, p.19).
Lo sciopero è la più nota e usata forma di non-collaborazione: «S’intende che lo sciopero è una tecnica nonviolenta quando non compie alcuna violenza, neppure nel difficile caso dei non scioperanti o krumiri, e non è animato da odio verso coloro dai quali stacca la collaborazione. [...] Il diritto allo sciopero è stato riconosciuto, ed è chiaro che la società deve essere in grado di pagarne il costo ricevendone in cambio l’evoluzione delle lotte da modi violenti a modi nonviolenti, l’ascesa di classi che si trovano in condizioni inferiori, il vantaggio della libertà di espressione di problemi esistenti. » (Capitini, cit., p.90).



3. Movimenti per la pace: tipologie.

Sono state proposte diverse tipologie dei movimenti per la pace.
In Il problema della guerra e le vie della pace, Norberto Bobbio (che dal punto di vista terminologico adotta “pacifismo” identificandolo con il genere di cui la nonviolenza radicale è specie) distingueva vari tipi di pacifismo attivo, a sua volta suddiviso a seconda che si indirizzi ai mezzi attraverso i quali tendere alla pace, oppure alle istituzioni o ancora agli uomini. Si hanno così il pacifismo strumentale, il pacifismo istituzionale e il pacifismo finalistico.
Il pacifismo strumentale è per Bobbio quella forma del movimento per la pace che si limita a preconizzare il disarmo. Questa forma di pacifismo avrebbe il limite di trascurare di considerare le conseguenze del disarmo, ignorando l’eventuale effetto positivo della violenza (effetto escluso dai teorici della nonviolenza). Inoltre sarebbe sì attuabile ma scarsamente efficace in quanto non dà garanzie sul comportamento di tutte le parti in causa. In realtà, il disarmo unilaterale, sostenuto da pensatori come Albert Einstein, Bertrand Russell, Simone Weil, non può essere liquidato troppo semplicemente. Tanto più che Gorbaciov e Shevardnadze attuarono proprio, e con successo, una politica di «disarmo asimmetrico» (cfr. Salio, Il potere della nonviolenza, p.42).
Il pacifismo istituzionale invece può essere giuridico (la guerra dipende dall’esistenza dello stato in quanto tale: per superarla occorre un superstato mondiale) o sociale (la guerra dipende da una forma di stato basato sullo sfruttamento di classe: occorre abolire lo stato capitalista). Lo sforzo per la ricerca delle cause e dei rimedi delle guerre è qui maggiore rispetto al pacifismo strumentale.
All’interno del pacifismo finalistico, per cui la vera pace può essere ottenuta agendo sugli uomini e non sulle istituzioni, Bobbio distingue poi una tendenza spiritualista, che spiega la violenza in termini morali e religiosi, e una materialista, che vede nell’uomo un essere biologico la cui violenza è da comprendersi in termini psicologici e sociologici.
Una diversa classificazione dei movimenti per la pace è quella che distingue tra pacifismo religioso (obiezione di coscienza), internazionalismo liberale, anti-coscrizionismo (lotta per la salvaguardia delle libertà civili), resistenza alla guerra di tradizione socialista (anti-militarismo), internazionalismo socialista, antimilitarismo femminista, pacifismo radicale (nonviolenza gandhiana); inoltre prima del crollo del blocco sovietico erano fortemente rilevanti anche il pacifismo filosovietico e il pacifismo nucleare.
Un’ulteriore classificazione potrebbe aversi distinguendo movimenti per la pace che lottano contro tutte le guerre, o contro una guerra determinata (ad esempio quella del Golfo), o contro un aspetto particolare delle guerre (armi atomiche).
Una particolare declinazione del movimento per la pace è il movimento nonviolento ambientalista. Il presupposto di questa forma di attenzione all’interazione uomo-natura è che la violenza verso l’ambiente sia violenza anche verso gli esseri umani, in quanto essi dipendono strettamente dalla conservazione dell’ecosistema in cui popoli e culture si sono sviluppati e vivono.


4. Idee di pace.

Riguardo all’idea stessa di pace si possono individuare tre concezioni principali, sviluppatesi nel corso della storia dell’umanità e della cultura.
La pace negativa è intesa come semplice assenza di guerre: «si rivela ben presto insufficiente. La pace negativa si realizza infatti come pace armata, come una tregua tra una guerra e l’altra.[...] L’idea di pace negativa condanna la violenza diretta, intesa come la violenza che si esercita direttamente sulla persona fisica [...] ma giustifica la guerra come strumento di difesa dalle aggressioni e tace su un altro tipo di violenza, quella strutturale, meno evidente ma non per questo meno grave. Su una persona si può esercitare violenza [...] indirettamente, per omissione, privandola del necessario per sopravvivere [...]» (Salio, Le guerre del golfo, p.16). Questa idea di pace «assolutizza il valore di libertà e del benessere materiale, e quindi i diritti umani della prima generazione» (ivi, p.18).
I fautori della cosiddetta pace positiva, invece, considerano insufficiente una pace che non si accompagni a giustizia sociale, dato che l’ingiustizia provoca violenza. L’idea di pace positiva mette in evidenza il valore della giustizia e dell’equilibrio ecologico (in assenza di un rapporto equilibrato con le risorse del pianeta non può esservi pace, sostiene tutto un filone del pensiero nonviolento). Questa idea di pace considera ammissibile la guerra come strumento di liberazione e porta alla ribalta una “seconda generazione” di diritti umani legati all’idea di giustizia.
L’idea di pace nonviolenta vuole infine mettere insieme entrambi i valori che emergono nelle due precedenti idee di pace: «mentre la pace negativa assolutizza la libertà e la pace positiva la giustizia, la nonviolenza mette in evidenza che una società costruita su un solo valore è di fatto una società non desiderabile, nella quale quello stesso valore verrà prima o poi calpestato. In altre parole non c’è vera libertà senza giustizia e non c’è vera giustizia senza libertà» (ivi, p.16). E libertà e giustizia, in quanto fini buoni non possono essere perseguiti con mezzi ingiusti, ossia violenti.
Qual è l’idea di pace prevalente al momento attuale? Il paradigma dell’“attacco preventivo” sembra avere alla base l’idea di pace negativa (la necessità di far valere la pace con le armi) ma con argomentazioni prese a prestito dall’idea di pace positiva, nel tentativo di giustificare la guerra e la violenza con la volontà di portare a tutti i popoli oppressi libertà e giustizia, che invece si riducono proprio in conseguenza della guerra.


5. Il futuro è nonviolento?

Dopo l’attentato dell’11 settembre, che ha portato all’invasione dell’Afganistan e dell’Iraq, poteva sembrare che la strategia della nonviolenza fosse per lungo tempo sconfitta. Ma poiché l’impasse a cui ha condotto la guerra è sempre più sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale, anche i più schiamazzanti “interventisti” appaiono ormai più pacati, e si inizia a parlare di ritiro anche da parte americana. Ecco dunque che la situazione ritorna a essere propizia perché le proposte dei movimenti per la pace si facciano sentire.
Senza mediazione nonviolenta non c’è futuro planetario immaginabile, a meno che si concepisca e desideri la possibilità di un’esistenza umana sempre più militarizzata su scala mondiale. Si assisterebbe in questo caso a un’ulteriore evoluzione (o meglio involuzione) delle forme di società classificate dal filosofo francese Michel Foucault: dopo la società disciplinare dell’Ancien Régime, dopo l’attuale società di controllo (ideologico, mass-mediatico, poliziesco) si arriverebbe alla trasformazione (di una parte consistente) della società in società militare. È quello che il teorico della pace Johan Galtung (in AA.VV. I movimenti per la pace, I) chiama stile intellettuale “bruno”, cioè la modalità militaristica e poliziesca di vita e di pensiero che potrebbe affermarsi in futuro se non si affermerà lo stile “verde”, libertario ed ecologista (altri “stili” sono: blu-liberale, rosso-socialista).
L’incubo di una società militarizzata, che distrugga risorse naturali ed economiche, è forse irrealizzabile per la stessa, relativa, debolezza economica e ideologica dei neoconservatori di tutto il mondo (lo stesso Galtung, attirandosi ovviamente vuote critiche di “antiamericanismo”, prevede il crollo degli USA entro il 2020).
Ma bisogna essere chiari per evitare autoillusioni: il movimento per la pace, intendendo con questa espressione l’insieme di organizzazioni durature che da decenni lavorano alla costruzione di un pace nonviolenta in tutto il mondo, non ha certo il potere di causare accelerazioni significative alla storia. La stessa adesione delle masse all’ideale della pace ha una sua dinamica storica evidenziabile con un grafico (cfr. grafico Salio). Tuttavia donne e uomini di tutto il mondo si impegnano per la pace lavorando metodicamente affinché la trasformazione delle nostre società vada verso il Verde e non verso il Bruno.
La pace nonviolenta non si afferma automaticamente, non è il frutto delle magnifiche sorti e progressive, né l’inevitabile risultato di un progresso storico, dialettico o lineare, né di singoli eventi rivoluzionari, “epocali”. A differenza di quanto riteneva il pacifismo passivo (Bobbio) tipico dell’ottocentesco ottimismo positivista secondo cui il progresso tecnico e scientifico avrebbe portato all’estinzione delle guerre, nessuna mano invisibile guida l’umanità sulla strada del dialogo e della cooperazione nonviolenta.
La costruzione di una futura pace nonviolenta, una “pace con mezzi pacifici” (Galtung) non potrà essere se non il frutto di un’interazione feconda fra l’azione organizzata di élites specializzate nella peace research e la buona volontà e l’impegno di tutti coloro che possono entrare a far parte dei movimenti per la pace.



Bibliografia essenziale:

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  • AA.VV., Nonviolenza in cammino. Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992, Edizioni del movimento nonviolento, Verona, 1998
  • AA.VV., Agire la nonviolenza. Prospettive di liberazione nella globalizzazione, Atti del convegno del Partito della Rifondazione Comunista, San Servolo 28-19 febbraio 2004, Venezia.
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  • Id., Le guerre del golfo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1991.
  • Sémelin J., Senz’armi di fronte a Hitler, edizioni Sonda, Torino, 1991
  • Sharp G., Politica dell’azione nonviolenta, EGA, Torino, 1985-1997.
  • Weil S., Sulla guerra, Pratiche, Parma, 1996.


(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

La verità su certi padri e certi figli: un racconto per me fondamentale di Julio Cortàzar (Storie di cronopios e di famas)

I cronopios non hanno quasi mai figli, ma quando ne hanno perdono la testa e capitano cose straordinarie. Per esempio, un cronopio ha un figlio e subito è rapito in estasi ed è fermamente convinto che quel figlio suo è la quintessenza della bellezza e che nelle sue vene scorre la chimica al completo, con qua e là isole tutte belle arti poesia e civismo. Allora questo cronopio non può stare al cospetto di suo figlio senza prima una grande riverenza e rivolgergli espressioni di rispettoso ossequio.
Il figlio, come è ovvio, lo odia minuziosamente. Quando ha raggiunto l’età di andare a scuola, il padre lo iscrive alla prima elementare e il piccolo è felice fra altri piccoli cronopios, famas e speranze. Man mano che si avvicina il mezzogiorno, però, la sua allegria diminuisce perché sa che all’uscita ci sarà il padre ad aspettarlo e che vedendolo alzerà le mani e dirà tante cose, come: Buenas salenas cronopio cronopio, il più buono e forte e sano e capace e rispettoso e studioso fra tutti i figli.
Per cui i famas e le speranze junior si scompisciano dal ridere sul marciapiede e il piccolo cronopio odia dal più profondo del cuore il padre e finirà col fargli sempre un brutto scherzo fra la prima comunione e il servizio militare. Ma i cronopios non se la prendono molto perché anche loro hanno odiato i genitori, e anzi si direbbe che questo odio sia uno dei nomi della libertà o del vasto mondo.