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giovedì 27 maggio 2010

Piccolo manifesto metaforico per la Sinistra e il Pensiero (in fieri)

Dopo ripetute conversazioni con alcuni esponenti della Sinistra torinese, associazionista e partitica, ho deciso di intervenire a gamba tesa nel dibattito, iniziando a scrivere un piccolo manifesto ("bisogna scrivere documenti!", mi si dice).
La mia convinzione è che la Sinistra non abbia più parole d'ordine, non dico valide, ma di nessun genere.
Abbiamo rinunciato a tutto, anche ai pensieri, e la nostra debolezza pratica deriva dalla nostra inconsistenza teorica.
Voglio che si torni a pensare la politica, senza remore, liberamente prelevando concetti militanti dal corpo della filosofia, delle scienze, della storia e dell'arte, come mi hanno insegnato a fare i migliori filosofi postmoderni: Gilles Deleuze e Jacques Derrida, tra i morti; Alain Badiou e Slavoj Zizek tra i viventi (e Capitini insegna la compresenza dei morti e dei viventi).

Sono uno dei tanti che ha questo desiderio di pensare fuori dai vincoli suicidi delle necessità concrete, dei patteggiamenti, degli apparentamenti, delle strategie e delle tattiche, sempre perdenti e umilianti.
Perché la Sinistra possa respirare, e con essa una nuova società e una nuova umanità, ciascuno di noi deve dare forma espressiva al proprio pensiero politico.
Con tutti i miei limiti teorici e pratici, io comincio.

***

Piccolo manifesto metaforico per la Sinistra e il Pensiero (in fieri)



1) Soggetto politico è il soggetto fedele a certe verità.

2) La triplice verità sintetica della Sinistra è che gli uomini sono liberi, uguali e fraterni.

2.1) Libertà è la verità contraria a ogni tipo di autoritarismo, di destra e di sinistra; Uguaglianza è la verità contraria al capitalismo; Fraternità è la verità dell'empatia e della nonviolenza.

3) Il capitalismo è il falso sistema sociale che ha distrutto libertà, uguaglianza, fraternità.

3.1) Il capitalismo ha distrutto anche l'idea che libertà, uguaglianza, fraternità siano delle verità (o dei valori).

3.2) La Sinistra è anti-capitalista o non è Sinistra.

4) Il capitalismo è il simbolo dell'umanità deietta.

4.1) Il capitalismo non si può riformare ma solo combattere, indebolire, sconfiggere e superare.

5) Anarchia è il nome della Sinistra fedele a libertà, uguaglianza e fraternità.

5.1) Marxismo è il nome della Sinistra che non ha saputo essere fedele alle verità della Sinistra.

5.2) Il Marxismo non è una forma scientifica di pensiero politico, bensì una ottocentesca filosofia idealista e anti-scientifica.

5.3) Seppellire il cadavere del Marxismo, qualunque sia la sua varietà "neo-" e "post-", è una condizione necessaria per una Sinistra pensante.

6) L'Anarchia è l'organizzazione anti-capitalista del futuro dell'umanità.

7) La sintesi di Anarchia e Nonviolenza è il compito della Sinistra del futuro.

8) Se un'umanità degna di questo nome ha un futuro, non può essere che la Sinistra.

9) Il futuro del capitalismo è la morte dell'umanità.

10) Piuttosto che farci distruggere dal capitalismo pensiamo a distruggere il capitalismo.

lunedì 24 maggio 2010

Memorie d'altri tempi. Derrida

Quando andai a Parigi a studiare, per me Derrida non era più il numero uno, tuttavia rimaneva il primo grande filosofo vivente al quale mi ero appassionato in maniera proselitistica.
A Parigi in agosto per iscrivermi al DEA, il primo giorno che mi aggiravo per la città cercando ancora di incontrare Badiou per avere la sua firma sulle scartoffie, camminavo a un certo punto in boulevard Saint Michel, quasi davanti alla Sorbona. Improvvisamente qualcuno starnutì alla mia destra: era Jacques Derrida in persona, che si soffiava il naso in un fazzoletto!
Gli amici filosofi non mi credettero ma sono certo che lo starnutatore di boulevard Saint Michel fosse Derrida.
Il destino mi dava il benvenuto a Parigi in quel modo!

Ripetizione farsesca del fallimento dottorale

Devo ammetterlo, dopo avere fallito il mio primo dottorato (in filosofia, a Paris 8, 2000-2007) inizio a pensare che fallirò anche questo secondo (in scienze cognitive, a Torino, 2009-2012).
Potrò vantarmi di avere fallito per due volte la stessa cosa, e poiché ora ho molte meno aspettative, si invererà ancora una volta il detto marxiano secondo cui la storia si ripete, la prima volta come tragedia la seconda volta come farsa.

venerdì 21 maggio 2010

Memorie d'altri tempi. Maurizio Ferraris

Durante gli anni universitari, dopo Wittgenstein e prima di incontrare Deleuze (lo racconterò), la mia ossessione era Derrida. Mi affascinava ma non lo capivo. Percepivo nei suoi testi una luminosa aura potentissima, percezione certo dovuta all'effetto-guru, che mi faceva arrivare a dubitare della sua natura umana ("ma secondo te, chiesi una volta al compagno di studi, alla sera Derrida si infila anche lui le ciabatte? Mi pare impossibile!").
Dopo qualche tempo scoprii i libri di Maurizio Ferraris, che mi sembravano spiegarmi facilmente Derrida, quasi riducendomelo in formule. Ricordo qualcosa del tipo: "la presenza è un'assenza differente e differita"...
Ferraris mi urbanizzava Derrida, come sapevo che Gadamer aveva fatto con Heidegger (ciononostante leggendo Heidegger non sentivo il bisogno di un'esegesi d'altri che invece Derrida mi provocava).
Così, del tutto insoddisfatto degli insegnamenti pavesi, un giorno mi feci coraggio - non senza avere studiato per un anno a Strasburgo con i derridiani DOC Nancy e Lacoue-Labarthe - e telefonai a Ferraris (avevo cercato il suo numero sull'elenco telefonico).
Alla prima telefonata rispose una donna dall'accento straniero, dicendomi che il professore non era in casa. Alla seconda telefonata rispose Maurizio, molto gentile e dandomi un appuntamento a Torino all'uscita dall'università.
Abitavo ancora a Bra, perciò il giorno dell'appuntamento dovevo svegliarmi e prendere il treno per recarmi all'appuntamento. Misteriosamente la sveglia non suonò e mi ritrovai appena in tempo per tentare di prendere il treno successivo: lo persi, dunque pensai di andare a Torino con l'auto di mia madre, ma appena fuori dalla stazione mi resi conto che l'auto era senza benzina. Piangendo per la disperazione telefonai alla mia ex-fidanzata, spiegandole la mia angoscia e facendomi tranquillizzare da lei. Poi partii alla volta di Torino e arrivai in ritardo all'appuntamento. Ferraris era già ripartito per Milano.
Gli ritelefonai profondendomi in scuse e lui, sempre gentile, mi propose di vederci qualche giorno dopo, a Milano a casa sua.
Mi fece accomodare su una specie di chaise longue, o scomodissima poltrona con dei braccioli mobili e girevoli sui quali non potevo sostentare i gomiti. Bisognava stare eretti con un doloroso sforzo delle reni, il che sminuiva necessariamente la lucidità della mia performance comunicativa.
Gli spiegai che dopo avere studiato Derrida, in Francia avevo scoperto Deleuze e mi ero reso conto che il tema della scrittura poteva costituire un ottimo terreno di confronto tra i due pensatori che - nonstante ciò che si riteneva comunemente - dovevano necessariamente avere parecchio in comune. Tutto stava a trovarlo.
Ferraris mi raccontò che Deleuze non l'aveva conosciuto, ma che di lui Derrida criticava le assurde unghie lasciate crescere a dismisura, arricciate.
Ferraris mi disse che sì certo Derrida e Deleuze erano i massimi filosofi francesi, Lyotard un po' meno, e tuttavia, siccome erano due pensatori enormi e troppo vicini a noi, per confrontarli si sarebbe dovuto fare qualcosa come un détour, un heideggeriano Schritt zurueck ("passo indietro", ma questo lo dico io adesso, Maurizio parlava schietto).
Era il periodo che lui studiava Kant, questo l'avevo capito leggendo i ringraziamenti di certi suoi articoli recenti. In effetti ora so che era il periodo in cui preparava la sua virata anti-ermeneutica e quasi-analitica, che lo avvicinò a filosofi come Casati e Varzi.
Io però non ero per niente soddisfatto del détour propostomi, anche se cercai di non darlo a vedere: Kant non mi piaceva, sapevo che per Deleuze era un nemico, e in ogni caso mi puzzava di grande sgobbata e per giunta inutile.
Io volevo confrontare Deleuze e Derrida, che m'importava di Kant!
Seduto su quella scomodissima poltrona - mentre mi si configurava in mente che le possibilità di fare una tesi con Ferraris si riducevano col succedersi degli istanti - a un certo punto per darmi un contegno mi tirai leggermente su, inarcando faticosamente le vertebre lombari e feci, con nonchalance: "dovrò andare in caccia dei testi nei quali Deleuze e Derrida parlano di Kant".
Anziché scomporsi per la mia espressione neologistica ("andare in caccia"), Ferraris la ripeté facendola sua: "ecco, bravo, lei vada pure in caccia di quei testi e poi...".
Non lo disse per sfottermi, ma per quell'istinto mimetico immediato che contraddistingue Maurizio, qualcosa che lo rende elocutivamente spregiudicato e anche libero, fantasioso e piuttosto divertente, qunado non francamente brillante.
Nonostante la mia goffaggine, che secondo me mi rendeva un laureando del tutto improbabile, Maurizio mi regalò il suo nuovo libro, L'immaginazione, primo di una serie abbastanza lunga di libri ricevuti da lui.
In cambio, io non mi sono poi laureato con lui, e per giunta ho potuto soltanto fargli dono di Narradiohead.
Ignoro se Maurizio l'abbia letto e che cosa ne abbia pensato e non glielo chiederò mai.

Facebook Therapy (FB&filosofia)

Secondo Freud, si sa, l'analisi è interminabile, eppure prima o poi termina (tranne che nel caso di Woody Allen) semplicemente a causa della finitezza delle nostre vite, e per ragioni pratiche, di soldi, tempo e accettabilità del raggiunto livello di analisi.

La frequentazione di Facebook presenta un'analogia con la terapia psicoanalitica: è pensabile che un giorno si smetterà di frequentarlo, quando ne saremo abbastanza appagati, e abbastanza sicuri di non potere fare nessuna nuova esperienza.
In principio si può stare su Facebook per tutta la vita, ma da un punto di vista pratico è sensato presupporre che arriverà il giorno di dire addio agli amici di FB.

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Nel passare dalle note su FB ai post di questo blog, mi rendo conto che quassù manca il pulsante "mi piace", e che questa mancanza mi fa desiderare meno di postare i miei pensieri.
Mi rendo conto che HO BISOGNO di quei piccoli feedback che mi arrivano ogni volta che posto qualcosa su FB. Mi rendo anzi conto che FB è fatta esattamente di quello, che senza quei piccoli atti di comunicazione non vivrebbe affatto.
Il punto è che sul blog non hai questi piccoli feedback del tutto non impegnativi: gli eventuali lettori potrebbero al massimo scrivere un commento, che però richiede un impegno maggiore.
Il fatto stesso che un blog si debba "andare a leggerlo" fa la differenza rispetto a FB: lì ci sono le notifiche che in maniera un po' random espongono l'utente a un flusso di eventi testuali e multimediali.
Su FB non bisogna impegnarsi per fare una scelta positiva ("vado a leggere il blog di Acotto") ma semplicmente cliccare se si vuole dare un'occhiata anche solo di sfuggita, oppure non cliccare se l'evento postato da qualche amico di FB, magari un simpatico sconosciuto, non sembra per nulla interessante.

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Nella terapia di gruppo il terapeuta interviene quando tutto rischia di esplodere, tiene le redini del gruppo, rintuzza e dà torto o ragione, mette ognuno al suo posto.
Su FB ci si può soltanto affidare al grande Altro di cui parla Lacan, l'istanza superiore sintetica che però non esiste realmente ma solo nell'Immaginario.
Litigare su FB è particolarmente impoverente perché alla fine nessun grande Altro interviene a darti alcun segno, e a lite terminata ti senti più solo di prima.

L'errore di quelli che guardano a FB come se fosse un laboratorio artistico e letterario, è dimenticare che si tratta innanzitutto di un laboratorio psicologico.

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Quando si fa una terapia di gruppo, le persone che compongono il gruppo diventano "persone fidate", se non proprio grate: sai che ci saranno sempre, o almeno per un bel po', che potrai sempre confrontarti con loro, in positivo e in negativo, attivamente o passivamente, almeno finché tu o loro non deciderete di abbandonare il gruppo e la terapia (cosa che in ogni caso avviene discutendone NEL GRUPPO).
Su FB, invece, le amicizie, alleanze e consorterie, non sono mai sicure, ma piuttosto tendono a una certa spettralità, sono evanescenti, possono scomparire di botto e da un giorno all'altro uno può avere l'impressione di essersi fino ad allora confidato con i mulini a vento.

mercoledì 19 maggio 2010

Interpretanti e Trasformatori, 1. Intellettuali che vogliono educare il pubblico


"The current populations of academicians, intellectuals, and experts in the social sciences and humanities are by and large ill-equipped to undertake the collective task of revolutionizing our knowledge structures." (D. Harvey)

L’opposizione marxiana interpretare/trasformare può essere utile per classificare gli intellettuali italiani odierni.
Alcuni, grosso modo i debolisti, si accontentano di INTERPRETARE il Testo generale; possono essere in buona fede ("non c'è altro da fare"!) e speranzosi che una buona pratica ermeneutica potrà indebolire le violente strutture metafische su cui si fonda l'Occidente e il suo potere.
Gli altri vogliono invece TRASFORMARE la realtà sociale e sono per lo più post- o neo-marxisti, con qualche rara e luminosa eccezione (Goffredo Fofi, vicino alla nonviolenza capitiniana ed esponente di una forma di socialismo libertario per certi versi vicina a qualche varietà di anarchismo).
In generale, i Trasformatori sono convinti del chiasma teoria-prassi, e più genericamente della connessione tra pensiero e azione (culturale e sociale): essi si autointerpretano generosamente come attori sociali dotati di un effettivo potere.
Tra coloro che vogliono trasformare, si potrebbe operare un’ulteriore distinzione: da una parte vi sono coloro che mirano a modificare in meglio la realtà sociale, il “popolo” e il “pubblico”; dall'altra parte ci sono coloro che, più umilmente e realisticamente, sanno di potere tutt'al più modificare alcune rappresentazioni mentali degli stessi intellettuali, partendo dunque da sé come gruppo sociale dotato di potenzialità uniformi e sperando che una trasformazione maggioritaria del proprio gruppo professionale possa renderlo complessivamente più attivo dal punto di vista sociale.

Chi vuole trasformare popolo e pubblico lamenterà la cattiveria dell’industria culturale, disprezzerà i libri di successo (e i loro autori, considerati talvolta quasi alla stregua di squallidi traditori) e invocherà un'avanguardia culturale che possa incidere buoni segni sulla tabula rasa della mente comune, egemonizzata dal mercato spettacolare.
Si tratta ovviamente di una forma di culturalismo (la mente è inizialmente vuota e solo la la cultura la riempirebbe di pensieri) che assume le fattezze di un vero e proprio leninismo culturale, fondato sul mito dell'avanguardia che forza la storia e impone la giusta linea di condotta alle masse.
Dopo i tragici e sublimi Anni Settanta e il fallimento delle facili utopie fondate sull'erronea visione della mente-tabula rasa (l'educazione può tutto, un giorno la dodecafonia sarà la musica del popolo e l'espressionismo astratto il genere di pittura preferito dalle famiglie) la realtà sociale ha già risposto al culturalismo seppellendolo con un'amara gran risata.
A questi compagni che sbagliano, i Trasformatori che persistono nell'errore culturalista, temo che la società riserverà per congedo un altro genere di manifestazione corporea, di tipo più bachtinianamente comico.

domenica 16 maggio 2010

L'omino dalle mani ghiacciate

è piccolo e ha le mani molto fredde. Ha le manine ghiacciate. Compare nei momenti più domestici, quando preparo il brodo o rassetto il lavello. Non so come arrivi lì.
Giunge appena all'altezza delle mie ginocchia. Mi guarda dal basso in alto, con la bocca socchiusa, interrogativo. Non so che voglia da me, ma non me la sento di respingerlo bruscamente: è così carino!
Provo a dirgli: vai via, lasciami in pace, devo fare il brodo! Niente.
Provo a dirgli: che cosa vuoi da me? Vai a molestare la ragazza seduta davanti al computer, oppure - non so - aggrappati alla sedia, fatti un giro, ok? Niente.
Provo a dirgli: guarda che questo è il brodo per Agostino, devo fargli il brodo, vuoi lasciarmi un po' in pace? Chi glielo fa il brodo ad Agostino sennò? Niente, lui non si muove.
Sta lì sempre aggrappato alle mie gambe e mi guarda da sotto in su.
Ha le manine ghiacciate

giovedì 13 maggio 2010

È una vanità il volersi opporre alla moda. Hegel sulla moda (Vogue1)

Pubblicato su Vogue.it

Hegel ha ragionato filosoficamente sull’inessenzialità della moda:
"Il vestiario non è cosa che rientri in una determinazione razionale, ma è regolato soltanto dal bisogno, che si fa sentire da sé: nei paesi settentrionali ci si deve vestire altrimenti che nell’interno dell’Africa, e così di inverno non si può andare in giro con abili di cotonina. Tutto il resto è in balia del caso e dell’opinione, senza che vi abbia alcuna parte l’intelligenza […]. Il taglio del mio abito è fissato dalla moda, ed è cosa che spetta al sarto: non tocca a me d’inventar nulla a questo riguardo, e grazie a Dio hanno già inventato tutto gli altri. Questo dipendere dall’abitudine, dall’opinione, è pur sempre meglio che dipendere dalla natura. Quindi non conviene applicare l’intelligenza a cose siffatte; il contegno che si deve tenere verso di esse è la pura indifferenza, chè in realtà la cosa è di per sé indifferente. Tuttavia vi sono quelli che sanno rendersi singolari in questo campo, mirando con ciò ad attirare l’attenzione; ma è una vanità il volersi opporre alla moda" (Lezioni sulla Storia della Filosofia, Laterza, vol. II, p.147).
Hegel legittima la moda, ma le nega qualsiasi importanza essenziale. L’essere originali, per il filosofo, coincide con la singolarità eccentrica che si oppone ostentatamente alla moda.
Se la moda è vanità, la negazione della moda è vanità delle vanità.

Espettorazione superstite del litigio con Gilda Policastro

Il detentore della nota della discordia, Vladimir D'Amora, ha preferito - secondo me correttamente - spegnere la nota con il suo codazzo di nostri commenti vacui e "livorosi" (GP), ovverosia velenosi "lazzi e frizzi" (EA).
Per fortuna, o no, avevo scritto in word la mia prima replica più sostanziosa.
Eccola qui:

ehm, ehm, la trama si infittisce, come direbbe Snoopy, il mio critico preferito.
A parte che le mie contraddizioni non saranno mai macroscopiche come le tue, che neghi dignità di comprensione al popolo del social network (SN) e poi dedichi tempo per rispondergli puntualmente…
Lasciami espettorare ancora un poco, che mi sento la gola gonfia.
C'è del verissimo in quel che dici, e tuttavia c'è del falso.
Premetto che hai ragione, sono forse io il più frustrato qui dentro, tuttavia non è quello il motivo per il quale non mi piace trovar citati Deleuze & Guattari (che ho studiato per svariati anni) come se fossero un indicatore di cultura. Quella cultura (all’ingrosso la postmoderna) si fonda su un certo tipo di saccente ignoranza, in particolare su un atteggiamento ostile verso il realismo scientifico, col che si finisce a sostenere le stupidaggini di Vattimo & co. (Berlusconi ha vinto perché si è abbandonato il pensiero debole).

Ho anche lasciata aperta la possibilità di non avere compreso la tua poesia, e infatti rileggendola per l’ennesima volta decido che va letta come sospettavo, ossia CONTRO Deleuze & Guattari ecc.

Ma ora ti rispondo come ti stavo rispondendo prima di riorientare la mia lettura. In modo non organico e contraddittorio, perché nessuno deve darmi un voto.

Riguardo alla tua intolleranza del nostro amichevole scambio di lazzi e frizzi rivolti a un tuo testo: capisco che sia sgradevole ma se si scrive un testo ci si espone anche a questo, e siccome il testo interrogato non risponde, fa un po’ ridere che il suo autore corra poi in suo soccorso per rispondere in vece sua, come amorevole madre di un logos scritto, figlio orfano bastardo.

Mi pare più che altro che pecchi di incomprensione psicologica verso le dinamiche comunicative dei social networks. Dire che sia frustrato chi comunica qui, parlando di arte, o di politica, o di sesso o della tua poesia, è un atteggiamento che non spiega nulla: si è frustrati quando si parla leggermente di qualcosa con "amici"? Sono frustrati i critici che non scriveranno mai come gli autori criticati? Sono frustrati quelli che inventano eventi politici come il cosiddetto Popolo Viola? Sono frustrati quelli che su Facebook conoscono i loro scrittori preferiti? Erano frustrati i leghisti, ma ora governano.
La tua risposta ai nostri espettoramenti mi fa venire in mente la posizione dei musicologi che difendono il “principio della serialità atonale”, come lo chiami tu (meglio: serialismo integrale, estensione della dodecafonia, a sua volta superamento dell’atonalità): “il pubblico non apprezza? Deve imparare ad apprezzare, la mente umana è plasmabile e l’educazione può forgiare la mente…”
La mente come tabula rasa sottende una psicologia comportamentista secondo cui la reazione segue necessariamente allo stimolo: "se offri musica dodecafonica in pasto al pubblico di merda, quello si accultura e dodecafonizza, e alla fine i quartetti di Webern saranno apprezzati dal pubblico come un tempo quelli di Haydn e Mozart". MA NON E' VERO. Questa immagine della mente, in psicologia è da tempo superata grazie a studiosi seri come Chomsky (non simpatici filosofi zuzzurelloni come Deleuze e Guattari). Il comportamentismo associazionista non può spiegare l’apprendimento linguistico e culturale, e la mente ha le sue regole naturali che sono innanzitutto di tipo cognitivo, e solo secondariamente di tipo culturale.
Su questa psicologia retriva di tipo comportamentista si fonda implicitamente gran parte della cultura umanistica contemporanea, letteraria, artistica, sociologica e anche politica.
Ne sono arciconvinto ed ecco perché mi provoca sconforto trovare citati D&G e la musica seriale, luminosi esempi di un pensiero di sinistra errato impotente e sconfitto, come il marxismo, vetero- neo- e post-.

[ma ora ammetto di avere forse frainteso, forse la pensi anche tu in maniera simile, e connoti negativamente D&G]

Che ti interessi poco o punto sapere che c’è gente che viene a conoscere alcuni tuoi testi e interventi proprio grazie al SN, non fa alcuna differenza (ormai funziona così, non ci puoi fare niente) e semmai denota una tua posizione un po’ arroccata, come se “il mondo vero” della cultura fosse quello in cui vivi tu e tutti gli altri poveretti incapaci di pensiero organico coerente e lineare vivessero nel mondo della favola. In un’epoca in cui si legge poco e si capisce ancor meno, la tua è una posizione difficile da sostenere: se il SN fa circolare rappresentazioni collettive, bisogna fare i conti con queste rappresentazioni collettive.
Sul SN regna l’anarchia, dici tu, e io dico: evviva l’anarchia se l’alternativa è l’accademia così com’è stata finora, un’accademia che mi pare tu difenda col coltello tra i denti, senza accennare a spiegare perché dovrebbe essere cosa difendibile da tutti e non soltanto da chi ne ha fatto la propria ragione di vita (intellettuale).

mercoledì 12 maggio 2010

Litigi virtuali tra persone reali

[Contesto: serata un po' stanca, Agostino si è addormentato presto. Potrei leggere un po' ,mentre Viviana prepara la sua lezione per domani. Invece avevo in mente di riassumere quanto successo oggi]

La giornata odierna su Fb è stata funestata da un assurdo web-litigio con Gilda Policastro, giovane critica e poetessa.
Un amico comune aveva postato una sua poesia e io, insieme ad altri abbiamo scritto un po' grevemente che non ci piaceva e perché.
Poi è arrivato un tizio sconosciuto che ci ha mandati a cagare dandoci dei "becero-fascisti". Io l'ho rabbonito, poi, oggi è comparsa Gilda sulla scena.
Ci ha (giustamente?) insultati tutti quanti quanti eravamo, abbiamo risposto e la cosa è proseguita finché lei non è giunta a minacciare Manuela di denunciarla per stalking.
Cose assurde, reazioni sopra le righe, eppure m'ha funestato la giornata.
UNo potrebbe fregarsene, di Gilda Policastro e simili battibecchi, ma io ci sono sempre cascato nei litigi virtuali.
Borgogno, il mio psicoterapeuta, se andassi ancora da lui mi direbbe sicuramente che avrei di meglio da fare che perdere il mio tempo così, e avrebbe ben ragione.
Dovrei quindi riuscire a spiegare perché passo così tanto tempo su Fb. Ma di questo scriverò in un altro post, perché se scrivessi con questa stanchezza addosso il mio umore peggiorerebbe senz'altro

martedì 11 maggio 2010

Arrogante scrittore buddhista

Uno si immagina tutto solo nel suo mondo piccolo, a scrivere, per differenziarsi, da altri soli nel loro mondo piccolo.
Io no. So di inter-essere.
Io ho capito il Buddha

Il compleanno di mio figlio

Oggi è il primo compleanno di mio figlio. Non mi sono ancora abituato, ad avere un figlio, alle volte ci penso e mi sembra incredibile. Io, ho un figlio? Io che fino a qualche anno fa non pensavo di poter mai raggiungere una forma di vita all'incirca "normale"?
Che cosa è successo nel mezzo? Ho fatto la mia psicoterapia col Borgogno, poi ho incontrato Viviana, ci siamo innamorati e fidanzati, poi lei mi ha convinto ad avere Agostino.
Come ha fatto a convincermi, considerato che sono abbastanza sicuro che vivere sia un male inutile?
Di fatto, il buddhismo mi è servito nel senso contrario a quello che mi aspettavo: a un certo punto – tentando di trovare un argomento che mi autorizzasse a diventare padre – ho pensato che mio figlio avrebbe potuto un giorno migliorare il karma collettivo più di quanto non avrei potuto fare io senza di lui. Questo non è affatto improbabile.
In un certo senso ho scommesso sul mio fallimento e sul suo successo. Avrei potuto fare il contrario, puntare su me stesso e temere che un figlio mi desse dispiaceri, ma ero già convinto di non poter più diventare un santo buddhista (a differenza di qualche anno fa).
Rimane la possibilità che io abbia compiuto un doppio errore... ossia che né io né mio figlio miglioreremo di un’unghia il karma collettivo. Ma mi risulta difficile crederlo, semplicemente perché mi accade spesso di vedere negli altri una specie di gratitudine nei miei confronti (per esempio nei miei allievi). E se io posso dare qualcosa agli altri, io che ho le forze limitatissime e sono l’Accidioso, allora Agostino che invece sarà forte e robusto e non dovrà rimediare alle malefatte dei suoi genitori, Agostino potrà fare moltissimo per il mondo futuro.
Ci voglio credere.

Buon compleanno scimmiottino.

giovedì 6 maggio 2010

Heidegger, spiegato a quelli che non sono intelligenti come me

I cosiddetti "esistenziali" di Heidegger si basano su un semplice bias, per il quale noi ci sembriamo essere sempre migliori degli altri.
Questo bias si chiama illusory superiority (http://en.wikipedia.org/wiki/Illusory_superiority), e spiega appieno la chiacchiera la curiosità e l'equivoco di cui parla Heidegger. Quel borioso e stupido nazista.

Depressione politica

(aggiornamento 21 dicembre 2010)

Anche stasera, speravo, insieme ad altri, che allla riunione si decidesse che avremmo fatto una lista civica con le nostre idee, umilmente ma senza badare alle contingenze politiche, per affermare ciò che davvero crediamo.
Pare impossibile, almeno per ora, ma io non mi lascio scoraggiare: sono sicuro di poter trovare QUALCUNO CHE LA PENSI ESATTAMENTE COME ME...

***

(6 maggio 2010)

La riunione da Terry è stata depressiva perché mi ha chiaramente manifestato la mancanza di un orizzonte comune per "la sinistra" torinese e nazionale (lasciamo perdere quella internazionale).
Viene da pensare che cazzeggiare alla Toni Negri sia l'unico modo di consolarsi fingendo ancora di pensare (al)la poltica.

Che cosa ci distingue da quelli del PD? Loro vogliono amministrare, possono anche essere spinti dalle migliori intenzioni del mondo, però hanno come uno scudo protettivo nella coscienza, per cui non si sentono in dovere di non tollerare gli orrori che la semplice ammministrazione dell'esistente inevitabilmente produce.

Noi non vogliamo tollerare l'orrore, ci appare chiaramente che "ne va" della nostra dignità umana. E' questo il concetto che ci frega.
Forse i compagni "non non-violenti" hanno ugualmente rinunciato alla loro dignità umana, accettando di poter eventualmente ferire e uccidere, persino gli innocenti (come ad Atene) o persone che difendono l'orrrore ma non ne sono direttamente responsabili (come i poliziotti in Val di Susa).

Mi sento come Kurz prima di farsi ammazzare: politicamente, vedo ormai solo l'Orrore...

martedì 4 maggio 2010

Uno non dovrebbe guardare la televisione

Uno non dovrebbe guardare la televisione se si schifa come me. La televisione l'ho buttata via, ma ogni tanto ci casco e guardo Ballarò sul web.
Se c'è qualcuno che attacca i fascioberlusconiani, all'inizio mi entusiasmo di una contentezza fatua, poi quelli del PD come al solito iniziano ad apparirmi come i veri mostri che sono, quasi avessi inforcato gli occhiali di They Live. Ma a quel punto è troppo tardi, mi rimane un fegato grosso di bile così.

La verità è che il piccolo schermo non lascia serena la mente, non lascia distanza, non lascia nulla ma brucia tutto come una stella enorme che diventa un buco nero.
Ho fatto bene a buttare l'ordigno audiovisivo (F. Cordero) e non devo mai più cedere alla curiosità di vedere quei buffoni nel loro micidiale salottino.
Giuro che non ci casco più

lunedì 3 maggio 2010

La psicoterapia mi ha decisamente giovato.

Oggi ho superato una crisi di sconforto, che stavo quasi per manifestare su FB.
Un po' è l'estate incipiente che mi fa impazzire. O forse no. Non si sa mai in questi casi.
Comunque o sono riuscito a controllarmi, oppure la cosa è scemata da sé.
Un tempo ero nevrotico. La psicoterapia mi ha decisamente giovato.

Avere un figlioletto cui badare, alle volte stanca più che filosofare.

Oggi, come risultato del nervosismo di ieri, mi sono venuti in mente vecchi libri e ho iniziato a leggere il Proust e i segni di Deleuze, sempre trascurato chissà perché. Bello, molto sensato.

domenica 2 maggio 2010

E così ho ritrovato "il mio blog". Uno spazio che avevo aperto molto tempo fa, quand'ero una persona molto diversa da ora.
Ho poca memoria personale, il mio passato mi si cancella quasi in tempo reale, come le orme sulla battigia. (La neve, al contrario, conserva le tracce).
Chi ero, che cosa facevo, che cosa volevo quando ho iniziato questo blog? Zero: nessun ricordo.
Del resto un tempo tenevo un diario appositamente per evitare questa sensazione di assenza di memoria. Poi l'ho interrotto, dirò a suo tempo come e perché.

Intanto questa sera è così: Facebook mi ha dato un senso di solitudine, perciò ho trovato il pretesto per riscoprire questa spazio di scrittura.
Lo userò, probabilmente, come un diario semipubblico.
Se e quando ne avrò voglia.