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sabato 31 dicembre 2011

E' questo il Capodanno che sognavo da bambino (playlist per Vogue.it, ma Vogue.it era chiusa)

Che cosa ascoltare la notte di Capodanno? La serata rischia sempre di essere inferiore alle aspettative, zeppa com'è di quella coazione a divertirsi che rovinerebbe anche un antico rito pagano.
Perciò almeno sul piano musicale cerchiamo di assicurarci una serata piacevole.
Ecco alcune modeste proposte, per chiunque abbia a portata di mano Youtube.


  1. L'apertura dovrebbe spettare al classico Danubio Blu di Johann Strauss, utilizzato da Kubrik in 2001. Odissea nello spazio, per le prime scene con le astronavi. Il loro movimento lieve è talmente bello che se la cena fosse un po' pesante ci si potrebbe comunque astrarre con la fantasia pensando allo spazio siderale (http://www.youtube.com/watch?v=U8Q3X5Gw5I4&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&index=1&feature=plpp_video).
  2. In tema fin dal titolo, New year's day degli U2 avrà l'effetto di inserire una nota di tensione vintage nella serata festiva: consci dell'occasione festiva, in uno dei video disponibili i Nostri cantavano impellicciati su un campo innevato (http://www.youtube.com/watch?v=-6Y-t85vs4g&feature=autoplay&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_play_all&playnext=1). Ma per chi lo preferisse, c'è anche un video più casalingo (http://www.youtube.com/watch?v=f8BtB4C3Vi8&feature=related) dove si possono ammirare un Bono d'annata con i capelli ossigenati e un Larry Mullen Jr. (il batterista) che suona con la sigaretta in bocca come un qualsiasi Marlon Brando di periferia. Non saranno il colmo dell'eleganza formale ma ci ricordano che il nostro passato spensierato non si cancella mai completamente. Per fortuna.
  3. Un pezzo di Ian Axel può dare il LA alla frizzante leggerezza che dovrebbe improntare la serata, come non sempre accade, forse per via della COAZIONE a divertirsi (ne ho già parlato?). Il pezzo in questione non è straordinario, ma è il singolo di un album d'esordio che si intitola “This is the new year”. Qualcosa forse vorrà dire, e comunque largo ai giovani (http://www.youtube.com/watch?v=a5-RSKcPJHg&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video).
  4. Se lo zucchero giovanile era troppo, ecco un po' di soffici e taglienti sonorità ben temperate dal nuovo disco di PJ Harvey: Hanging In The Wire (http://www.youtube.com/watch?v=-7eCVU-BB1w&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video)
  5. Tanto per ricordere Cesaria Evora ma non spezzare completamente l'atmosfera cool ci vorrebbe il remake techno di E' preciso perdoar di Sakamoto-Veloso-Evora (http://www.youtube.com/watch?v=GZuQH0G1vQ0&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video).
  6. 5.bis In alternativa, il duo Celentano/Evora alle prese con Quel casinha, ossia il Ragazzo della via Gluck in salsa di Capo Verde, non mancherà di farsi notare, eventualmente attirando per qualche istante la conversazione, che a Capodanno rischia se non di languire di prendere vie inconsulte e moleste  (http://www.youtube.com/watch?v=UPPvUYymyv0&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&index=6&feature=plpp_video)
  7. Successivamente, la versione di Happy Day di Joan Baez convincerà anche i più scettici che, sì stiamo festeggiando proprio il Capodanno, pur evitando – forse - l'effetto pubblicità-cocacola: http://www.youtube.com/watch?v=Ixy7M7oDwQc&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&index=6&feature=plpp_video
  8. Dall'ultimo album di Jovanotti, un pezzo che pompa tantissimo e con un testo demenziale (“è questa la vita che sognavo da bambino, un po' di Apocalisse e un po' di Topolino”): Megamix. Si può sospettare che il testo sia un delirio meno sereno del previsto, ma intanto l'ascolto superficiale è di buon impatto. Qualcuno degli astanti potrebbe persino iniziare ad avere voglia di danzare (http://www.youtube.com/watch?v=-4r_q8MkuQw&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video).
  9. Così, se la voglia di danzare continuasse, al passo successivo la trascinante Lonely Boy (First Listen), dei The Black Keys, potrebbe indurre il commensale che avrà bevuto più degli altri ad alzarsi dal proprio posto e a cominciare euforico a molestare tutti quelli ancora seduti al loro posto (http://www.youtube.com/watch?v=a_426RiwST8&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video).
  10. Per continuare sulla sottotraccia brasiliana, rinunciando però alla tristezza apparentemente ineliminabile dalla musica del magico subcontinente americano, A banda mais bonita da cidade ci offre uno straordinario pezzo-mantra, bellissimo e benaugurante per l'anno nuovo: Oraçao (http://www.youtube.com/watch?v=QW0i1U4u0KE&feature=BFa&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&lf=plpp_video). Astenersi trenini.
  11. Poco prima dell'agognata Mezzanotte la versione di Round Midnight di Amy Winehouse (http://www.youtube.com/watch?v=1IuALymbySw&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&index=10&feature=plpp_video) accompagnerà gli animi con un misto di gioia e tristezza (soprattutto per la meravigliosa Amy) che ben si accorda alla fine inesorabile di quella che potrebbe anche essere un'epoca, e all'inizio di un anno di cui non sappiamo ancora nulla oltre al fatto che sarà nuovo.
  12. In coincidenza con la Mezzanotte, la canonica Marcia di Radetzsky dei concerti di Capodanno viennesi, qui nella versione di Karajan (http://www.youtube.com/watch?v=FHFf7NIwOHQ&list=PL3D8DB8EBA681B9D1&index=10&feature=plpp_video), accompagnerà l'esplosione dei tappi e dei botti (si spera ormai vietati in molte città).
    La playlist (direttamente cliccabile qui) dura circa 48 minuti: se iniziate ad ascoltarla verso le 23,05 le ultime note di Amy risuoneranno poco prima della Mezzanotte e la Marcia di Radetsky coinciderà con l'apice dei vostri festeggiamenti.

    Buon ascolto e buon anno.

    mercoledì 28 dicembre 2011

    Facebook e la timeline (Vogue33)


    [Pubblicato su Vogue.it]

    Udite udite! Su Facebook è da poco arrivato per tutti il diario o timeline, che dir si voglia. Noi utenti di Facebook siamo ormai abituati alla solita solfa: ogni tanto si cambia tutto, e il peggio è che sembra un po' come nel Gattopardo, Bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale.
    I rinnovamenti dell'interfaccia servono sicuramente a tenere desto l'interesse dell'Utente Medio Globale, che magari dopo i primi tempi di entusiasmo un po' si stanca e disamora. Cambiagli la disposizione delle informazioni personali, lo spazio in cui può vergare il suo attuale stato delle cose, le fotografie del gatto e della moto nuova, ingrandiscigliele fino ad occupare tutto lo schermo e lui si beerà per giorni delle futili novità. Così da tenerlo avvinto per un'altra importante quota di tempo e di mercato, fino a che non sarà necessaria un'innovazione ancora più ardita oppure fino a quando un concorrente più o meno leale verrà a sottrarre il bottino di umanità virtuale che ci si disputa tra aziende di social network.
    Se ci si ferma un po' a pensare, talvolta si ha la sensazione di una certa presa in giro, come se la nostra felicità di utenti dipendesse davvero da questi cambiamenti, piccoli o grandi che siano. Eppure è un po' come per la pubblicità: man mano che da ragazzi prendevamo coscienza della sua assenza di naturalità ci sembrava impossibile che qualcuno contasse sulla nostra complicità per farci diventare docili acquirenti e affezionati consumatori, ci sentivamo diversi, pensavamo sempre, in fondo: "Che stupide queste pubblicità, io non comprerei mai un prodotto per averlo visto alla televisione". Salvo accorgersi che al momento più insospettabile la tal marca del tal prodotto tornava in mente.
    Ecco, noi utenti dei social network siamo un po' così: ci sentiamo sempre superiori a tutte le decisioni che mutano lo stato attuale delle cose, rispondiamo sempre con attitudine blasée, per poi ritrovarci nella massa di coloro che si domandano: ma il post importante con la data in cui Agostino ha iniziato a pedalare, adesso, lo devo espandere oppure no?
    Sarà vero che l’inconscio è collettivo, ma talvolta la nostalgia di una vita mentale privata non ce la leva nessuno.

    mercoledì 21 dicembre 2011

    Ritratti natalizi di amici di Facebook, 3

    Credo che Jes sia sardo.

    Jes Grew si chiama Alessandro, ma il suo pseudonimo mi piace così tanto che mentalmente lo chiamo sempre Jes Grew.
    Mi ha spiegato che è un'etichetta slang riferita al jazz, mi pare. Forse è anche un personaggio di qualche libro americano bellissimo che Jes mi ha consigliato ma io non ho letto.
    Jes sa tutto di letteratura e filosofia, e anche d'altro. E' un vero UMANISTA, anche se credo abbia studiato un po' di tutto. E' un gran studioso Jes, anche se non ho idea se e cosa abbia studiato all'università.
    Sa anche cucinare bene: anzi, deve aver lavorato come cuoco.
    Jes sembra cattivo, ma sono sicuro che non lo è. E' estremamente categorico, e talvolta schiaccia sul pedale dell'apocalitticità. Ma è molto sensato.
    Quando sputiamo sentenze sulla (non)politica contemporanea andiamo d'accordissimo e ci divertiamo. Un po' meno d'accordo andiamo quando parliamo di cultura filosofica umanistica e scientifica.

    Jes scrive racconti e altre cose: ho letto qualcosa di lui su Facebook ma ammetto che non fa per me. E' bravo ma scrive di un mondo che non conosco. Credo che si tratti del mondo reale come lo vede lui.
    Jes e io siamo diversissimi.

    C'è una sua foto con una bella ragazza, credo sia la sua fidanzata: lui ha dei tatuaggi, forse anche lei, sono in una stanza che sembra quella di un hotel a Tangeri.
    A me i tatuaggi fanno paura, e non sono mai stato in Africa.

    Una volta ha detto che è stato in carcere. Io me lo immagino che parla di Cabbala con i carcerati. Non so però se quelli apprezzavano.

    Ritratti natalizi di amici di Facebook, 2

    Irada è la donna più misteriosa che ci sia su Facebook.
    Comprendere ciò che scrive Irada mi è impossibile, e credo sia impossibile per chiunque non possieda il codice segreto. Io non lo possiedo, questo codice, quindi non la capisco mai.
    "Mai" non è un'iperbole: sono sicuro di avere capito un paio di sue frasi qualche anno fa, ma sulla lunga distanza la mia incomprensione si avvicina asintoticamente allo zero.
    Irada è una scienziata (pazza?), ma ha studiato  filosofia e letteratura, credo. Forse ha fatto una tesi su Artaud.
    Si occupa anche di musica: apparentemente costruisce innovativi strumenti musicali.
    Prende parte a convegni di cui non comprendo nemmeno il titolo, sulla comunicazione, l'impresa, le neuroscienze e cose così.
    Mescola psicologia matematica arte, con nonchalance.
    Si occupa di ibridi pericolosi.

    Non so dove abiti, ma forse ha lavorato alle Seychelles.
    Credo che il suo nome venga dall'Oriente, ma non so da dove (e l'Oriente è grande).
    Talvolta sospetto che Irada non esista.
    Se non esistesse dovrebbero inventarla (anche perché è bellissima).


    Ritratti natalizi di amici di Facebook, 1

    Jacopo è un giovane intelligente e colto:
    all'università studia filosofia e poi musica e poi arte e poi di nuovo filosofia
    (le facoltà scientifiche non le ha ancora provate):
    cambia sovente, e fa bene, perché le gabbie non fanno per lui.

    Se c'è una cosa che Jacopo detesta è la grettezza culturale.
    E' un anarchico individualista e un esteta,
    cose entrambe che di solito mi fanno incazzare,
    ma non in lui: le porta con grazia e non potrebbe essere diverso.

    Jacopo è gentile e violento, discute con chiunque e non insulta nessuno,
    anche se talvolta si arrabbia o rattrista per certe reazioni ai suoi ragionamenti. Che facili non sono.
    Se vuoi incontrarlo cercalo di notte: lui non dorme come noi.

    Jacopo è vittima entusiasta della filosofia continentale,
    ma io spero ancora di liberarlo dal giogo metafisico.
    Un giorno forse ci riuscirò.

    lunedì 19 dicembre 2011

    Propositi per il 2012, 1

    Abolire lo Stato per dare vita a una società libera di individui responsabili.
    Qualora non fosse possibile, comportarsi almeno come individui responsabili in una società libera, sapendo che lo Stato è una finzione composta da individui spesso irresponsabili.

    martedì 13 dicembre 2011

    Questa gente sguazza nell'Orrore


    L'accaduto è semplice: una manifestazione di rabbia razzista contro un presunto stupro di una sedicenne ad opera di due rom. La conseguenza è elementare. Una manifestazione razzista nel quartiere di Torino in cui lo stupro NON è avvenuto, gente rabbiosa e pronta a “fare giustizia”, un mancato pogrom, l'incendio delle squallide baracche generosamente concesse a una cinquantina di rom (20 bambini) dalla prosperosa e civile città di Torino, la cui demente borghesia è tutta tronfia per il l'abbellimento del centro città.
    C'è poi una segretaria provinciale del PD, che è anche presidente di circoscrizione e partecipa alla manifestazione, chissà perché: la manifestazione organizzata con l'apporto degli ultras della Juventus si riunisce sulla base di manifesti che non lasciano spazio a interpretazioni: “ripuliamo la Continassa”.
    Il quartiere deve essere ripulito dai rom, la vera sporcizia. Quando il pogrom ha inizio i carabinieri hanno già allontanato le vittime prescelte: la segretaria del PD sostiene poi di avere chiesto i rinforzi, come se ce ne fosse bisogno, come se fosse lei a doverli chiedere. MA lei doveva essere lì, bisognava monitorare, chissà cosa sarebbe successo senza di lei. La sua frase a cose fatte ne fotografa l'insipienza politica e personale: “Temevo il peggio, mai visto nulla del genere”.

    Questa gente non chiede mai scusa, e non parlo dei razzisti selvaggi che volevano forse vedere il sangue: parlo dei politici del PD, governativi per definizione. Se c'è una manifestazione di persone esasperate ma che non puzzi di sinistra loro ci vanno: mantenere il contatto con la gente per loro vuol dire non perdere ulteriori consensi a favore della Lega (quando sarebbe forse bastato studiare il federalismo e non lasciarlo ai bifolchi). Chiamano fascisti i NoTav, elargiscono appalti ai cari imprenditori, ma ai rom dedicano poche risorse, infastiditi dalla loro insignificanza. Occuparsi politicamente dei rom è un sacrificio, la borghesia non sa che farsene, puzzano, mendicano e rubano.

    Questa gente sguazza nell'Orrore: non i rom e i sinti, persone che difendono anarchicamente la loro umanità, quasi stritolata dall'alienazione della civiltà occidentale, bensì questi politici di un partito che finge ancora di essere stato di sinistra. Trattano con l'Orrore, vogliono addomesticarlo senza rendersi conto (o fottendosene o piagnucolando) che l'Orrore li ha trasformati in persone orride.
    Idioti, servi del potere, miserabili burattini sdraiati sul loro fragile consenso.
    È un potere che inizia a tramontare, il loro, e per il quale nessuna comprensione, nessuna pietà ci è rimasta.

    martedì 29 novembre 2011

    Prepariamoci al default, 1

    Alessandro Spanu (Jes Grew) consiglia: "fate provvista di libri, e vettovaglie. farina, acqua, e scatolette, imparate a fare il pane e la pasta in casa. ecc. ecc."

    giovedì 24 novembre 2011

    Lettera di Pietro Salizzoni a sostegno di Luca Mercalli querelato da Virano

    Virano querela Mercalli

    pubblicata da Pietro Salizzoni il giorno mercoledì 23 novembre 2011 alle ore 12.41
    Mario Virano, presidente dell'Osservatorio per la tratta Torino - Lyon,
    ha querelato Luca Mercalli per diffamazione, per le dichiarazioni
    in questa intervista a la  “La Stampa” lo scorso 18 ottobre.  

    Per Mercalli, l’assedio simbolico alla Maddalena di Chiomonte è «una risposta all’occupazione coatta e ingiusta della valle: bisogna capire l’insofferenza, ha radici profonde». Valsusini e No Tav? «Sono persone che da anni non vengono ascoltate: se si aprisse un vero dibattito sui dati, immediatamente tutti si acquieterebbero». E l’Osservatorio per la Torino- Lione, che vanta cinque anni di lavoro per trovare un tracciato condiviso? Mercalli è più che perplesso: «Peccato sia stato un Osservatorio truccato», dichiara. «I dati controdedotti sono stati presentati giovedì 6 ottobre al Politecnico di Torino», nientemeno. «Ebbene: non c’erano politici in prima fila e neanche in seconda, non c’erano i tecnici di Ltf. Nessuno. Come sempre. L’opposizione popolare come quella scientifica vengono ignorate».

    Io la penso esattamente come Luca Mercalli: le conclusioni dell'osservatorio sono TRUCCATE poiché sono TRUCCATE le ipotesi che le sostengono.
    A dimostrazione di questa tesi posto (per l'ennesima volta) i grafici  che mostrano il confronto tra le previsioni  dei flussi di traffico (su ferro e su strada) assunti dall'osservatorio  e i dati reali. In base a queste previsioni (le curve rosse) si ritiene "necessaria" la costruzione della nuova linea. Mi sembra evidente che tali curve non abbiano alcuna parentela con l'andamento reale dei flussi di traffico, e che forniscano pertanto una rappresentazione TRUCCATA della realtà.
    Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

    Sarei pertanto lieto di poter condividere questa querela con Luca, e rispondere all'arroganza di chi,
    oltre a sostenere tesi indimostrabili, querela chi ha il buon senso e l'onestà intellettuale di criticarlo, con la speranza evidentemente di mettere a tacere ogni critica.


    Aggiungo pertanto il mio nome alla seguente mail di solidarietà, invitando a fare altrettanto.
    Ecco il testo, da inviare via mail all’indirizzo solidarietamercalli@gmail.com, indicando nome e cognome, città e firma.

    Ormai Virano ritiene di potersi permettere qualsiasi cosa, inclusa l’intimidazione dei non allineati mediante querela. Virano sa che non ha speranze di vincere la causa, ma punta sull’effetto intimidazione. L’affermazione di Mercalli su “La Stampa” del 18.10.2011 è non solo legittima, ma anche dimostrabile. L’Osservatorio infatti è “truccato” in quanto: mai, fin dall’inizio, il governo ha preso in considerazione l’ipotesi di rinunciare all’opera sulla base dei dati che l’Osservatorio avrebbe raccolto, quali che essi fossero;il presidente dell’Osservatorio, architetto Mario Virano, è stato nominato anche “commissario straordinario per la realizzazione della nuova linea AV/AC Torino-Lione”, per cui il suo compito – lautamente remunerato con pubblico denaro – è stato ed è quello di portare comunque alla realizzazione dell’opera a prescindere dai dati che l’Osservatorio accumula.


    Dall’inizio del 2010 dall’Osservatorio sono stati esclusi i rappresentanti dei comuni che non hanno dichiarato a priori l’accettazione della nuova linea, per cui i soggetti istituzionalmente critici nei confronti dell’opera e direttamente interessati alla sua realizzazione non possono venire a conoscenza delle informazioni raccolte dall’Osservatorio negli ultimi due anni e non possono interloquire nella definizione delle posizioni espresse dall’Osservatorio stesso.

    Sulla base di quanto sopra ci dichiariamo d’accordo, nella forma e nella sostanza, con la valutazione espressa da Luca Mercalli e la riaffermiamo qui pubblicamente a nostra volta. Chiediamo pertanto all’architetto Mario Virano di querelare anche tutti noi.

    Pietro Salizzoni, Lyon


    martedì 15 novembre 2011

    Infanzia, 1. Robot

    È un bambino che piange spesso, e si sente debole per questo. Una volta, la bambina che lui ama gli dice che quando piange “sembra un robot”. Questa frase, apparentemente detta senza cattiveria, lo ferisce profondamente e inizia in lui una storia ricca di conseguenze interiori. Quando la bambina ripeterà l'osservazione a distanza di tempo, lui sentirà di non avere per nulla guarito la ferita, e capirà di essere indifeso come la prima volta.
    Nel paesino in cui vive, tutti i bambini guardano i cartoni animati degli uforobot. Ne vanno tutti pazzi, anche i bambini più grandi che li vedono per la prima volta, e i giochi infantili ne risentono, si modellano su quei grandi soldati metallici dalle armi letali, esagerate. Un giorno, mentre lui contempla rapito la vetrina dell'unico negozio di giocattoli del paese, un altro bambino, che sta contemplando non meno di lui, lo attacca sul piano morale, forse istruito da genitori conservatori o catechisti bigotti. Quel bambino gli dice che “loro” sarebbero diventati pazzi a furia di guardare i cartoni animati degli uforobot. La cosa lo colpisce molto, si domanda se l'altro bambino non abbia ragione, anche se la cattiveria con cui glielo ha detto gli puzza subito di moralismo impartito dall'alto, senza un'autonoma valutazione delle giuste ragioni della cosa. Lo insospettisce soprattutto l'uso del termine “voi” per ostentare un contrasto. Capisce che quel pronome contiene una generalizzazione necessariamente falsa e ingiusta.
    Perciò, quando la bambina che lui ama gli dice che sembra un robot quando piange, lui si sente riempire di una strana vergogna mai provata prima. Si sente cristallizzato in una figura piatta, identificato con un misterioso Altro, a lui ignoto ma apparentemente evidente agli occhi della bambina. L'offesa è così grande e per lui insopportabile che si domanda se il suo amore per la bambina non debba essere considerato ormai terminato. Come può amare ancora chi lo offende tanto, e tanto ingiustamente?

    I suoi giocattoli preferiti sono i robot e ne possiede alcuni. Talvolta ci gioca con gli altri bambini del paese, anche se gli appare presto chiaro di essere considerato una specie di fortunato possidente, dato il numero dei suoi giocattoli. Una volta gioca con un suo compagno di scuola, e alla fine del pomeriggio i due bambini si scambiano i robot, con l'accordo di restituirseli dopo un paio di giorni. Sembra un modo semplice per poter godere brevemente delle delizie di un bene altrui e in parte ignoto. Allo scadere del prestito reciproco, l'altro bambino gli rivela, scusandosi ma discolpandosi, di avere rotto un braccio al suo robot, non si sa come. Lui non riesce a capacitarsene, è disperato, non doveva fidarsi e lo sapeva fin dall'inizio. Lui non avrebbe potuto rompere il robot dell'altro bambino, mai e poi mai. Come avrebbe ora potuto tollerare che il suo robot preferito fosse amputato di un braccio? Se i robot devono essere invincibili non possono essere monchi di un braccio, si capisce subito che la cosa non funziona più.
    Decide di trattenere il robot del suo compagno come risarcimento, anche se vorrebbe riavere il suo robot nuovo. Sa benissimo che i giocattoli sono prodotti all'infinito e che ci saranno per sempre nuovi robot uguali al suo. Basterebbe dunque che la mamma dell'altro bambino glielo ricomprasse e tutto sarebbe risolto. Chiede a sua madre di intervenire, ma non capisce bene l'esito della discussione tra i genitori. Gli sembra che si risolva in un amichevole nulla di fatto. Lui rimane con il robot dell'altro bambino, che è anche bello, ma fin dall'inizio privo di qualche pezzo, e comunque di qualità più scadente. Il suo robot era di metallo pesante, con piccoli pezzi scorrevoli e un complicato meccanismo per passare dalla posizione di volo alla posizione di combattimento. L'altro robot invece ha parti in plastica leggera, che invece dovrebbero essere di metallo pesante, è un robot più scadente, anche se nei cartoni animati è forte quanto l'altro se non di più. Ma il suo robot ha una cosa che lo riempie di orgoglio: una testolina retrattile minuta e squadrata che viene ricoperta da un elmo rosso, l'astronave del pilota, quando il robot è in posizione di combattimento. Quella testolina con un visino umanoide perfettamente cesellato lo riempie di tenerezza: privata dell'elemo sembra mostrare una debolezza che è solo apparente. Gli sembra un controsenso, che un robot tanto potente abbia una testolina così piccola, ma in fondo i robot non sono umani, non devono pensare, ed è un controsenso che gli piace.
    L'altro bambino non vuole il robot con il braccio rotto, ma lui è inflessibile: non si dice forse che chi rompe paga e i cocci sono suoi? In questo caso il pagamento consiste nell'appropriazione del robot superstite, seppure di qualità inferiore, e il bambino che l'ha rotto potrà ingegnarsi come meglio crede per tentare di riaggiustare il braccio del robot irriscattabile, privato di tutto il suo pregio agli occhi del precedente proprietario. Forse lui pensa che se non riuscirà ad aggiustarlo in nessun modo la punizione sarà completa.
    Alla fine, insiste talmente tanto con sua madre per avere un altro robot identico a quello rotto che ne ottiene una seconda copia. Si accorge che tutto il procedimento ha proiettato un'ombra sul suo possesso del nuovo robot (sarà davvero uguale in tutto e per tutto?) oltre a quello confiscato, ma ottiene facilmente di scacciare il pensiero di quella macchia. In fondo, ora lui possiede due robot.

    sabato 5 novembre 2011

    Appunti per l'audizione del 18 novembre, Commissione V+I, Comune di Torino

    PREAMBOLO

    Siamo estremamente soddisfatti del servizio che la Città ci ha offerto finora, un servizio che ci ha fatto ben sperare nelle potenzialità di questo Città e che ha aumentato la nostra fiducia nelle istituzioni comunali.
    Perfettamente consci che questo servizio rimane una sorta di “privilegio” di cui possono usufruire soltanto il 37% delle famiglie aventi diritto, date le promesse elettorali ci sentivamo di sperare di poter estendere la nostra fiducia ai troppi genitori per i quali l'asilo-nido comunale continua a essere un sogno irraggiungibile (e parlo di coppie con un reddito appena medio).

    Per questo, la notizia dei tagli alle educatrici precarie ci ha colpiti come un fulmine a ciel sereno.

    Non siamo stupiti per il fatto che dobbiate risparmiare, ma ci stupisce che pensiate di poter risparmiare SUI BAMBINI. Lo so che sembra facile retorica, in fondo non state PRIVANDO i bambini di nulla: statesoltantorimpiazzando delle educatrici con dipendenti comunali non privi di qualche titolo (del restoil TAV è solo un trenoe di questo passo potremmo banalizzare tutto:in fondo sono solo 500 punti di spread...).
    Ma il punto è: davvero non trovate NULL'ALTRO sui cui risparmiare? Non basta la parziale privatizzazione dei servizi pubblici che state avviando, quella che un vostro deputato disinformato continua a chiamareliberalizzazione?

    Quello che ci stupisce è che pensiate di poter trattare TUTTO ALLO STESSO MODO, secondo i criteri di una razionalità tecnica resa necessaria dalla cattiva gestione del debito pubblico, una cattiva gestione che ricade sulla giunta precedente ma che l'attuale giunta sembra voler considerare come una SEMPLICE DISGRAZIA, quasi EVENTO NATURALE. Come se non ci fossero precise responsabilità politiche e amministrative che NON POSSONO ESSERE FATTE RICADERE SULLE SPALLE DEI CITTADINI.
    I cosiddettiindignatiripetono spesso: NOI LA VOSTRA CRISI NON LA PAGHIAMO.
    Ecco, in questo caso vi diciamo: NON DOVETE FAR PAGARE LA CRISI AI BAMBINI.


    ARGOMENTI:

    1. incoerenza rispetto al programma elettorale (la situazione finanziaria era già nota e non è cambiata da allora)?

    Lettera al Coogen:

    - mantenimento nella qualità dei servizi, a partire da un corretto rapporto educatori/bambini, evitando come Voi dite lo scadimento dei nidi a luoghi di mera badanza;

    - assolutamente daccordo con lidea di un nido come primo livello educativo dei bambini, al punto da intenderlo come servizio universale.
    - Ma non solo, si può aprire un ragionamento per un reale progetto 06 anni cheintenda il sistema nidi, scuole dinfanzia, servizi integrativi (ludoteche, spazi genitori e bambini, etc) come un percorso di opportunità legate da un coerente progetto pedagogico di qualità, coinvolgendo in questi approfondimenti tutti i soggetti interessati, a partire dalle famiglie intese non solo come utilizzatori


    2. impossibilità di trattare nidi, asili e scuole come un QUALSIASI SETTORE DELL'AMMINISTRAZIONE COMUNALE, data la natura speciale e sensibilissima degli utenti-bambini.
    Non per nulla state istituendo l'importante figura del GARANTE PER L'INFANZIA e non per nulla Fassino nella sua lettera al Coogen aveva scritto:

    - esclusione dal patto di stabilità delle spese sostenute per le scuole dellinfanzia

    A questo proposito, pensiamo che sia necessario proseguire sulla strada di sottrarre e proteggere le scuole dell'infanzia contro le ragioni tecniche del patto di stabilità (referendum cittadino?)

    Ripensiamo a Montessori: della scuola tradizionale infantile Maria Montessori critica il fatto che, in essa, tutto l'ambiente sia pensato a misura di adulto.
    In un asilo-nido l'ambiente del bambino è fatto di relazioni affettive, oltre che di edifici scolastici: rimpiazzare improvvisamente gli educatori per ragioni estranee al benessere dei bambini equivale a calpestare la delicata psiche dei bambini (definiti da Montessoriembrioni spirituali) per ragioni del tuttoa misura di adulto.

    3. La mente non è una tabula rasa e le competenze non si improvvisano, specialmente quelle relazionali e affettive.
    Errore epistemologico insito nel credere di poter "formare" all'educazione e in poco tempo persone già formate per altre competenze, magari non più giovani, e non per esigenze programmatiche ma esclusivamente per tirare i cordoni della borsa.
    Le motivazioni di un dipendente comunale in mobilità non possono non essere profondamente diverse da quelle di persone che hanno scelto da anni di lavorare con i bambini. Noi genitori vogliamo avere vicino ai nostri bambini persone preparate e con motivazioni autentiche, non con motivazioni di semplice opportunità lavorativa.


    4. insoddisfazione e sfiducia del cittadino di fronte a un'amministrazione che giustifica il proprio operato con le restrizioni dall'alto: NOI VOGLIAMO LE VOSTRE RISPOSTE, non quelle del Governo appena cessato o di quello appena insediato.
    Se ritenete che tra le tante spese che si possono tagliare, gli stipendi delle educatrici precarie stiano sullo stesso piano di qualsiasi altra spesa da razionalizzare DOVETE ASSUMERVENE LA RESPONSABILITA'.

    I cittadini sapranno a loro volta trarne le conseguenze.

    venerdì 28 ottobre 2011

    Un sonetto di Alfonso Maria Petrosino a sostegno delle educatrici precarie minacciate dai tagli del Comune di Torino

    Al centro della Piazza del Palazzo
    il Conte Verde impugna lo spadone,
    istigando alla privatizzazione
    e a darci un taglio: era un crociato, un pazzo

    che bronzeo indica la via maestra.
    È di sinistra il sindaco Fassino,
    ma in questo modo al massimo è mancino
    e quello che fa la sua mano destra

    la sua sinistra non lo sa. Tiziana,
    Simona, Claudia, Laura, Deborah,
    nere di lutto, guidano il presidio.

    Il sindaco non scende, e si allontana
    da quella parte della società.
    La bara è il simbolo di un omicidio.

    giovedì 27 ottobre 2011

    Mia risposta a due commenti su "Ragionare con la mente estesa", su Alfabeta 2 online

    Postato su Alfabeta 2

    [...] è difficile non concordare sul fatto che il medium comunicativo condizioni i contenuti, ma da qui a concluderne che il mezzo sia il messaggio ci vuole la genialità di McLuhann. Se rifuggiamo dall’immagine strutturalista o postmodernista dell’individuo come nodo (o insieme di nodi) di una rete sistemica di sensi e significati, concorderemo che a monte di qualsiasi espressione/comunicazione c’è un’intenzione, un soggetto pensante e incarnato, la cui intenzionalità non si lascia comprimere completamente dal medium comunicativo (non più di quanto un regime totalitario comprima completamente le libertà individuali: qualcosa residua sempre).
    “Interazione leggera” mi sta benissimo, se alludiamo con questo al fatto che di norma si parte dall’assenza di interazione faccia a faccia. Il che non giustifica i toni apocalittici sulla perdita della dimensione fisica della relazione: certe relazioni fisiche non producono grande socializzazione, mentre in passato si sono dati casi più che soddisfacenti di rapporti ecsclusivamente epistolari tra illustri ingegni (mi vengono subito in mente Gandhi e Tolstoj).
    La questione del frame (suppongo in senso goffmaniano): è certamente importante, e un critico del social network ha gioco facile nell’osservare che l’assenza di corporeità costituisce un frame particolarmente asettico. Si può rispondere in molti modi: il frame non è mai assente, e allora non si vede perché dovremmo preferire i vecchi frames della comunicazione standardizzata nella società capitalista dello spettacolo integrato, (mercificata autoritaria strategica inautentica e chi più ne ha più ne disprezzi) piuttosto che una modalità “nuova” di interazione tra individui a priori reciprocamente sconosciuti, che scambiandosi frammenti testuali, immagini e segni di vario tipo possono agevolmente arrivare a conoscersi “realmente”, se ne hanno voglia e occasione.
    Sul fatto che pochi interagiscano per “costruire senso” (posto che il senso si costruisca socialmente, cosa che non credo, ma intendo l’espressione come un “agire comunicativo”) non sono d’accordo: la mia esperienza personale mi dice che di senso ho provato a costruirne parecchio (ho dialogato con scrittori e politici, ho imparato e insegnato, scambiato informazioni, corretto errori, smontato stupidaggini). E a parte il mio caso personale potrei solo limitarmi a citare gli esempi più politici, come l’attuale protesta NoTav, o il Popolo Viola e il No-Berlusconi Day, l’Onda, ecc.: sono tutti casi in cui individui non precedentemente integrati in gruppi costituiti hanno potuto comunicare, organizzarsi e agire efficacemente. Mi pare che questo possa corrispondere almeno a una delle possibili definizioni di “costruzione sociale di senso”.
    Certamente i social network sono diversi tra loro, e per parlarne nel dettaglio bisogna studiarli uno per uno: io mi riferivo genericamente a Facebook, che conosco e pratico più di ogni altro, e non pretendevo di considerare universale il mio modello.
    Riguardo alla filosofia: non ho mai pensato che la filosofia sia sterile, al punto che cerco sempre – senza gran successo – di convincere i miei allievi a studiarla all’università. Penso però che possa essere sterile, specialmente in una prospettiva planetaria e non provinciale come la nostra, l’insegnamento della storia della filosofia, o quantomeno il vecchio dogma hegeliano-gentiliano-crociano per cui la filosofia è storia della filosofia. In questo senso l’incontro (di persona e non su Facebook…) con il filosofo Roberto Casati è stato per me fondamentale: per fare filosofia – mi disse Roberto – bisogna studiare i problemi filosofici attuali, e poi eventualmente risalire all’indietro fin dove si vuole (lui disse vent’anni…). Ti rimando al capitolo della sua recente Prima lezione di filosofia per un punto di vista non storicista , che condivido in pieno, sull’insegnamento della filosofia.
    Ben vengano le “teorie dell’assurdo” (per citare un libro di Francesco Berto sui sistemi logici non classici) o la logica buddhista: sempre di logica si tratta, ossia – insisto – di una materia che nelle nostre scuole superiori non si studia normalmente. Nulla vieta di dilungarsi un po’ sul sillogismo mentre si spiega Aristotele, ma la logica moderna è tutt’altra cosa e il tempo scolastico per insegnarla io non saprei proprio dove trovarlo.
    Ora rispondo anche ad Andrea (che ho costretto a leggere fin qui…): tu mi obietti che il modello logico-argomentativo non sia mai scomparso dalla nostra società, almeno grazie alla conversazione, ma mi pare che tu alluda a un modello alto di conversazione, mentre se prendiamo come esempio la conversazione calcistica (con tutto il rispetto per lo sport) abbiamo un condensato di tutto ciò che argomentazione non è, nemmeno nel senso di “cattiva argomentazione”: semplicemente non si adducono argomenti, non li si concatena in modo logico, non si traggono conseguenze e se le si traggono non ci sforza di essere coerenti con esse. Conversazione a parte (e come dici tu, oggi anche quella è un’esperienza in via di scomparsa) mi riferivo al fatto che le cosiddette moltitudini siano ben poco esposte alle regole logiche dell’argomentazione.
    Da ultimo Wittgenstein, di cui ricordo, Andrea, che eri studioso in Francia: lungi da me l’idea di sminuirlo, lo considero semplicemente il filosofo più importante del Novecento (altro che Heidegger!) ma ciò non toglie che il paradigma cognitivo gli fosse necessariamente precluso, per ovvi motivi cronologici. Quindi, usare Wittgenstein contro le scienze cognitive mi pare un inutile anacronismo dato che Ludwig ha molto altro da dirci. Mi sembrerebbe insomma un po’ come usare Bruno o Bacone come antidoto alla scienza galileiana.
    Tu parli di contravveleno al cognitivismo, ma io penso che il vero veleno sia proprio il postmodernismo e la sua incapacità di confrontarsi con la scienza in modo costruttivo (salve forse rare eccezioni, ma non saprei bene quali) e al di là di una generica simpatia politica che non fatico a tributargli. L’importanza della scienza cognitiva per la filosofia è per me centrale, e anche questo lo devo a Casati: nella nostra chiacchierata inaugurale mi fece rapidamente capire come proprio grazie al confronto con le scienze cognitive la filosofia sia finalmente uscita dal recinto delle intuizioni personali e della filosofia da poltrona. Ci stava comoda, la filosofia, in poltrona, ma ora i tempi stanno cambiando. E per fortuna, aggiungerei da ottimista.

    martedì 18 ottobre 2011

    Pensieri sparsi sulla guerra sociale che ha luogo in Italia, 2011

    Possiamo ora dirlo liberamente, poiché è finalmente venuta ad esaurimento la leggera sbornia unitarista, da festeggiarsi con bandierine tricolori e iniziative pseudoculturali maggioritariamente insulse: L'Italia è in guerra, una guerra sociale, e questo stato di guerra è sotto gli occhi di ognuno.

    Per sapere che le classi sociali esistono non c'era bisogno di Marx (al limite bastava Hegel), così come oggi non c'è più alcun bisogno di riutilizzare il vecchio concetto di conflitto di classe: il proletariato industriale che Marx aveva idealizzato come "classe universale", non esiste più o forse non è mai esistito con quelle caratteristiche di omogeneità e universalità, come alcuni hanno sempre sospettato (per esempio Jacques Rancière). Ci sono classi, gruppi, settori, insiemi e soprattutto individui con proprietà sociali simili o diverse tra loro. Oggi, in Italia, gli individui e i gruppi sono attraversati tutti dallo stato di guerra sociale, che schiera due soli campi avversi.

    In Occidente, la situazione di guerra sociale, che alcuni (Agamben) teorizzano ormai da anni come guerra civile planetaria, è data dalla pretesa totalitaria del capitale di sussumere tutto il sociale. I cittadini occidentali, e particolarmente quelli della repubblica italiana (in Occidente un paese-frontiera della guerra sociale planetaria) sono schierati su due virtuali campi avversi: chi detiene ricchezza, o è al suo servizio, e chi detiene scarsa o nulla ricchezza o si schiera al fianco dei nullatenenti (anche perché viene rapidamente trasformato in uno di essi).
    All'interno di questi due campi le differenze sono molte e rilevanti. Ma i campi sono quelli, e in Italia l'esasperazione sociale, culturale e politica causata dal berlusconismo (più sintomo che causa della guerra sociale) li ha resi più compatti che in passato.

    Non è necessario approfondire se chi detiene ricchezze sia "capitalista" in senso marxiano, ossia se detenga realmente i mezzi di produzione, o se faccia semplicemente parte di un gruppo sociale che detiene o controlla i mezzi di produzione e dunque la produzione. E' evidente il collante materiale (postideologico) dei due campi in guerra: la ricchezza e il suo immaginario. Ogni altra ideologia sembra oggi ridotta al lumicino, inclusa quella falsamente universalistica della chiesa cattolica.

    Si è parlato molto di violenza e pacifismo, negli ultimi tempi, e molto a sproposito. Qualcuno (per esempio Belpoliti) ha teorizzato (per la verità debolmente) la fine delle rivoluzioni e l'inizio dell'epoca delle rivolte. Negli ultimi mesi in Italia ci sono in effetti stati alcuni episodi di scontri violenti tra poliziotti e gruppi di "antagonisti" bellicosi.
    Nota: La stessa definizione giornalistica di "antagonista" tende a maschere l'esistenza della guerra sociale. Come se chi critica anche violentemente quest'ordine sociale facesse parte di un semplice "agonismo", una leale gara tra capitale e individui.
    Ora, mi pare che non si sia ancora notato che in questi scontri la violenza è sempre stata in qualche modo irregimentata. L'obiettivo dei bellicosi è sempre il solito: la distruzione fisica di obiettivi simbolici come banche e gioiellerie (centrali di spaccio del capitale e del lusso), che non può non passare per il confronto fisico con le forze di polizia, anche nel corpo a corpo. Ogni scontro vede una parte di "vincitori" e una parte di "vinti". E' qui evidentemente in gioco una dimensione simbolica, sinteticamente analizzata da Toni Negri (Il lavoro di Dioniso): la posta consiste in una momentanea vittoria o sconfitta della forza antgonista o dello Stato, simboleggiato dalle forze di polizia. Quello che sembra essere veramente in gioco è il confronto con la forza dello Stato, all'interno di una logica di confronto violento ma non radicalmente distruttivo. Nessun bellicoso ripeterebbe oggi gli slogan degli anni settanta contro lo Stato. Il problema sembra non essere più lo Stato bensì direttamente il capitale.
    Tra i  bellicosi vi sono anarchici e marxisti: i primi sanno di essere troppo deboli per pensare di attaccare lo stato, gli altri non vogliono distruggerlo in quanto tale ma vorrebbero uno stato privo di capitale (vogliono certamente combattere lo stato capitalista: la questione dell'abolizione dello stato è rinviata indefinitamente).


    Un critico letterario neomarxista, commentando i fatti di Roma del 15 ottobre, si compiace di dichiarare "gente di merda" i bellicosi: di merda perché pensano di merda, anzi non pensano, perché non hanno una prospettiva politica.
    Nella reazione del postmodernista di fronte a quella che lui chiama "estetizzazione della politica" à la Benjamin, affiora chiaramente l'esacerbato senso di impotenza personale, e di casta, che affligge l'intellettuale italiano progressista nel 2011: il sogno del comunismo si rovescia nell'incubo della violenza anarchica e ai militanti comunisti che scelgono gli scontri di piazza non viene nemmeno riservata l'ipocrisia dei "compagni che sbagliano": sono semplicemente dichiarati impolitici.
    Così, l'intellettuale neomarxista prolunga la ridicola ma tragica abitudine delle scomuniche e degli anatemi comunisti: chi è nemico del Partito (oramai  virtuale e conseguentemente e per l'ennesima volta sostituito non senza ansia dal "movimento") lavora per i fascisti.

    Sarebbe del resto troppo facile far notare la contraddizione: accusati di "estetizzazione della politica", i blackbloc in realtà né pensano né fanno politica. Si dovrebbe dunque chiedere al critico neomarxista: CHE COSA E' dunque ciò che viene "estetizzato" da questi animali impolitici?


    Chi sono, in Italia, i cosiddetti indignati che il 15 ottobre 2011 hanno fatto la loro comparsa sulla pubblica scena italiana, subito intercettati dai bellicosi?
    L'etichetta deriva dal libretto di Stéphan Hessel, Indignez-vous!, subito adottato e amplificato dai mass-media di tutto l'Occidente. (Ma a New York l'etichetta è più diretta e tatticamente simbolica: Occupy Wall Street).
    Non è difficile vedere che si tratta di quello che Wittgenstein avrebbe chiamato un errore grammaticale. Il verbo "indignarsi", non tollera sensatamente l'imperativo. Dire a qualcuno "indìgnati" non ha più senso che dire a qualcuno "desidera!" oppure "devi volerlo!" o, in negativo: "non pensare a un elefante rosa". Non si può indurre qualcuno a indignarsi, come non lo si può indurre a non pensare a un elefante rosa dopo che lo si è evocato.
    Il linguaggio in molti casi non aderisce alla realtà, e questo è uno di quei casi.

    Da dove viene questa esigenza di autoetichettarsi di fronte all'opinione pubblica (a ciò che ne resta) e - soprattutto - di fronte ai mass-media? L'impressione è che un'etichetta confusa possa venire agitata con tanta ingenua convinzione quanto più è debole e confuso il movimento che si riconosce in esso.
    Non stupisce che i bellicosi prendano facilmente il sopravvento su un gruppo di persone che si vogliono pacifiche, ma che non è detto abbiano un rapporto sostanzioso con la teoria e la prassi della nonviolenza (ben lontana dall'esaurirsi nel "non lanciare le pietre").

    Potrebbe essere di qualche utilità la definizione che Spinoza dà dell'indignazione: "'indignazione è odio verso qualcuno che ha fatto del male a un altro" (Etica). Tre elementi sembrano qui essenziali: l'odio, il male commesso, l'altro che è vittima del male.
    Alcuni indignati dicono di protestare per se stessi e il proprio futuro. Questa si chiamerebbe più correttamente rabbia o ira ("cupidità da cui per odio siamo incitati a far del male a chi odiamo", sempre Spinoza). Non riesco a immaginare nessun militante di sinistra del Novecento mentre esclama la propria "indignazione" contro il capitale.
    La mia domanda è: perché si vuole mascherare la propria giusta rabbia sotto un'etichetta posticcia, amabigua e di provenienza spuria (editoriale e giornalistica)? La risposta che mi viene in mente è una sola, forse inattesa: perché SI HA PAURA DELLA VIOLENZA SENZA CONOSCERE LA NONVIOLENZA.


    La lotta NoTav è diventata una causa trasversale per tutti coloro che la guerra sociale non vogliono subirla inermi, indignandosi a mesi alterni e limitandosi a qualche lamentela se il tecnocrate di turno somiglia un po' troppo all'anomalo capopolo precedentemente lasciato governare senza contrasti.
    Coloro che lottano in Val di Susa contro un'opera pubblica pensata all'insegna di un'idea di progresso che solo politici ignoranti o in malafede possono proporre senza vergogna - in realtà è finalizzata unicamente al profitto privato, per di più in totale spregio alla crisi dell'economia capitalista che il paese, l'Europa e il mondo (occidentale?) stanno attraversando - non sono uniti dall'appartenenza di classe.
    Se è vero che in Valle lottano molti proletari, anarchici o comunisti più o meno bellicosi e organizzati, è altrettanto vero che aderiscono alla causa NoTav molti appartenenti alla cosiddetta "classe media" (esempio esemplare di non-concetto).
    La Valle è diventata un simbolo della lotta a un capitalismo feroce e demente, che non dà frutti se non agli affaristi bipartisan, spesso se non sempre collusi con le mafie, ed elargisce qualche sparuto posto di lavoro per operai temporaneamente prelevati dall'esercito di forza-lavoro disoccupata, riserva perenne e anzi crescente che, come vide Marx, il capitalismo si guarda bene dal tentare di riassorbire.
    Che la variante keynesiana del capitalismo da ultimo si rovesci storicamente in war-fare non sembra irrilevante per la guerra sociale della Val di Susa: i partiti borghesi di destra e sinistra, dopo avere affossato lo Stato che in effetti non hanno mai tenuto in gran conto, se non nella sua modalità di "stato d'eccezione", pretendono ora di dispensare squallide elemosine in forma di posti di lavoro manuale per grandi opere inutili e insostenibili. Per perseguire i loro scopi di accumulazione di profitti sono prontissimi a invocare il war-fare per una valle la cui popolazione maggioritariamente combatte ormai da anni con tutte le armi a sua disposizione.
    Tra queste armi, a differenza da quelle dei politici embedded, specialmente quelli del PD, non è affatto esclusa la nonviolenza. Il fatto che in questa fase i bellicosi abbiano preso il sopravvento dimostra soltanto che nessuna forza poltica ha realmente provato a inserirsi nel dissidio tra il movimento NoTav e l'affarismo bipartisan.
    I mezzi dei bellicosi sono sbagliati, anche se forse finora non del tutto controproducenti (la causa non è affatto indebolita, al contrario); ma gli affaristi che usano delle forze dell'ordine non solo usano mezzi violenti, ma li usano per fini del tutto immorali.
    [to be continued]

    giovedì 29 settembre 2011

    Adieu Monsieur Novecento (Vogue32)



    La musica del Novecento ha 86 anni e attualmente il suo nome è Pierre Boulez. È lui l'ultimo grande della Nuova Musica (etichetta che designa la musica d’avanguardia del secondo dopoguerra), uno dei più straordinari musicisti viventi e l'ultimo della sua generazione. La stessa di Stockhausen, Berio, Nono, Maderna, Ligeti. Il celebrato compositore ed eccelso direttore d'orchestra sta portando in tournée in Europa (in Italia, a Torino e a Milano, per il Festival MITO) il suo Pli selon Pli, un astratto ritratto musicale del poeta Mallarmé, costruito su alcuni sonetti del poeta francese.
    Boulez porta benissimo i suoi anni ed è molto emozionante vederlo dirigere con una precisione ineguagliabile e un’energia tutta intellettuale (siamo agli antipodi della figura del direttore romantico). La sua musica  è un misto di invenzione sublime e regole formali ferree (all’università Boulez studiò matematica). Comunica emozioni per la sua ostentata assenza di emozioni.
    Ascoltare oggi queste potenti e gelide composizioni per soprano e orchestra non può non far riflettere sulla grande musica del Novecento, di cui Boulez è ormai il glorioso superstite. La musica di Boulez (il cui “serialismo integrale” è uno sviluppo estremo della dodecafonia di Schoenberg) ha ovviamente i suoi detrattori. Basterebbe ricordare un articolo sardonico di Glenn Gould: “Boulez non sarà magari un grande compositore, ma è certamente un artista interessante” (L’ala del turbine intelligente). O il giudizio tranchant del grande musicista ungherese Ligeti, secondo cui la musica seriale è il frutto di un metodo dovuto a una nevrosi compulsiva. D’altra parte un evento come la collaborazione di Boulez con Frank Zappa, il geniale e dirompente musicista rock (ma l’etichetta “rock” non è mai stata meno sufficiente) per il disco The Perfect Stranger, proietta un fascio di luminosa simpatia umana sul compositore francese, da molti considerato né più ne meno che un cervellotico dittatore (per anni ha diretto – verrebbe da dire con pugno di ferro – l’IRCAM di Parigi, uno dei più importanti centri di ricerca acustica e musicale al mondo).
    Tornando al concerto, l'ultimo verso di Pli selon pli gela il sangue nelle vene: “un poco profondo ruscello calunniato la morte”, con la parola “morte” urlata sottovoce (non so come altro dire) dal soprano canadese Barbara Hannigan (http://www.barbarahannigan.com/). Un gesto musicale difficilmente dimenticabile e che basterebbe a smentire l’idea di una musica anaffettiva (quelle che scarseggiano, per non dire che sono del tutto assenti, sono le emozioni positive…). Se Boulez, dirigendo quest'opera grandiosa e gelida voleva farci pensare all’imminente fine, sua e del Novecento musicale con lui, ci è riuscito perfettamente. Per fortuna la bellezza quasi aggressiva della Hannigan, personaggio sempre più di spicco della musica contemporanea (ha esordito recentemente anche come direttrice d'orchestra), fa da perfetto contraltare alle emozioni cupe del concerto.
    Nel suo seducente e geometrico perfezionismo, Boulez avrà certamente calcolato anche questo.