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domenica 20 aprile 2014

Vecchia bozza incompleta di una risposta alle sciocchezze di Massimo Recalcati sulla scuola

L'assurdo articolo di MR è qui: quando una collega lo fece leggere a scuola, all'inizio del collegio docenti, provai sgomento e rabbia. Com'era possibile che i miei colleghi si lasciassero abbindolare da simili sciocchezze disinformate e confuse?
Iniziai a scrivere questa risposta, mai terminata. Anche perché a un certo punto pensai: ma perché diavolo devo spendere tempo prezioso per far notare che costui dice stupidaggini? Chi non lo capisce da sé non presterà evidentemente nessun ascolto alle critiche.



"Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita."

L'augurio di MR è sicuramente gradito ma, da insegnante, non riesco a non vederne la fortissima valenza ideologica che sarà il tema di tutto ciò che dirò qui.
Il mondo della scuola non vive di solo spirito e il suo esser-così dipende in toto da due fattori: 1) le decisioni ministeriali in materia di politiche scolastiche 2) le determinazioni reali dell'attuale società. Se sul secondo fattore non si può intervenire direttamente tramite la scuola (educando e formando bisogna come minimo attendere anni per influire su un nuovo stato di cose sociale), la responsabilità del primo fattore, quello di cui si può cogliere immediatamente il nesso di causa-effetto, è integralmente politica.
Senza voler spingere l'analisi all'epoca Berlinguer (Luigi), cosa che sarebbe comunque sensata, basta limitarsi alla (contro)riforma Gelmini per individuare una causa diretta di condizioni lavorative radicalmente contrarie alla "passione" augurata agli insegnanti da MR.
Come si può chiedere "passione" (ma si può davvero CHIEDERE passione? E si può chiedere A UN LAVORATORE?) a un insegnante che si ritrova a lavorare con classi di 35 ragazzi, tra cui inevitabilmente dislessici, disgrafici, discalculici, diversabili, stranieri di recente immigrazione, persone disagiate dal punto di vista socio-economico ecc. (tutte caratteristiche recepite nella recente normativa sui BES)?
La "passione", che laicamente tradurrei come "motivazione", c'è o non c'è, e si può lavorare su questo, magari non a livello di iniziativa personale; ma anche se c'è un contesto lavorativo disfunzionale e tutt'altro che casuale bensì causato da un potere apparentemente insensibile ai bisogni essenziali dei giovani cittadini (sempre che non si voglia leggere una vera e propria volontà di rendere meno competitivo il servizio pubblico per favorire il trasferimento di risorse verso il privato: un disegno che molti ritengono evidente ma che in ogni caso sembrerebbe fallito, almeno finora).

"Sempre più si sta imponendo una scuola che il “sogno” di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre “i” (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione."

Lasciando da parte il fatto che insistere sullo studio dell'inglese e dell'informatica è come insistere sulla necessità di alfabetizzare un qualsiasi cittadino del  mondo globalizzato, e lasciando da parte il desiderio neoliberale di una scuola connessa col mondo delle imprese (ribadito recentemente dal ministro PD del governo Letta: "lavorare prima dei 25 anni"), il principio di prestazione si è imposto tramite decisioni ministeriali, e quindi politiche: test Invalsi ecc. La responsabilità, dunque, non è evidentemente degli insegnanti bensì dei politici, e delle scelte elettorali dei cittadini. Personalmente, pur non dovendo somministrare i test, sciopero ogni anno insieme a un 1,5 di colleghi in segno di disaccordo ideologico, ma in ultima istanza non si vede perché la massa dei lavoratori della scuola debba farsi carico di contrastare simbolicamente scelte che non sembrano infastidire affatto la politica e la società (ci sono anche genitori che boicottano gli Invalsi ma sono una minoranza paragonabile a quella dei docenti scioperanti).
E qui scatta la reazione emotiva all'analisi razionale del discorso di MR: perché chiedere a noi qualcosa che dovresti chiedere a ben altri soggetti? Non voglio parafrasare Don Abbondio dicendo che la passione uno non se la può dare, ma voglio sottolineare che finché il discorso pubblico non saprà vedere da una prospettiva realistica e sistematica i soggetti coinvolti nel mondo della scuola, si potranno scrivere molti altri articoli giornalistici e libri divulgativi senza che lo stato delle cose cambi di un'unghia. Anzi, peggiorando nel frattempo a causa della dinamica innescata dalla riforma Gelmini [Nota 31/03/2015: all'epoca non si parlava ancora di Buona Scuola, ma ora possiamo dire che in confronto la riforma Gelmini non faceva che iniziare un processo che adesso viene spinto molto più in profondità. Si tratta di spezzare la scuola come comunità educativa e renderla un mercato come un altro, soggetto alla competizione e all'antagonismo tra colleghi, rigorosamente valutabili da colleghi "esperti" (sarà interessante vedere con che logiche verrano scelto questi esperti)].

"Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo. Il nostro tempo non concepisce più l’allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto."

Non è qui possibile non leggere in controluce la polemica della psicoanalisi contro le scienze cognitive, polemica più che legittima se si voglia fare un discorso filosofico sulle "immagini del mondo", ma abbastanza sterile se si vuole contrapporre il "sapere" psicoanalitico, più pratico che scientifico, alle acquisizioni delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Ma senza entrare nella questione che ci porterebbe molto molto lontano, mi sento di poter dire che la maggioranza degli insegnanti della scuola pubblica italiana NON si ispira alla metafora cognitivista della mente come computer, semplicemente perché lo studio delle scienze cognitive NON fa parte del bagaglio formativo della maggioranza dei docenti attualmente in servizio (età media 50 anni). (Inoltre, alla metafora mente-computer non crede praticamente più nessuno).
Si potrebbe peraltro obiettare che è sicuramente più presente e attiva la metafora della mente come tabula rasa, che però non è di derivazione cognitivista bensì umanistica, al punto da essere uno degli obiettivi polemici del cognitivismo (si veda il best-seller di Steven Pinker, Tabula Rasa).
Se vogliamo parlare di conformismo, parlerei piuttosto di un conformismo della rassegnazione: gli insegnanti sono rassegnati ormai ad essere considerati lavoratori di serie B, in un paese in cui vige non tanto il principio di prestazione, che da un punto di vista cognitivo può avere una sua utilità, bensì il principio della prestazione MERCIFICATA, comandata dalle esigenze del capitalismo (per altro in grave crisi strutturale).

"La sua matrice si trova nel gesto di Socrate narrato nel Simposio di Platone. Agatone, l’allievo, si siede vicino al maestro coltivando l’illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l’illusione che abita ogni scolastica dell’apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all’orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere “riempito”. Negandosi alla domanda ingenua di Agatone – “travasa in me il tuo sapere” – Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa “trasporto”, “sentirsi trasportati”) distogliendolo dall’illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l’allievo si metta in movimento – si senta trasportato – verso il sapere, affinché nasca nell’allievo un desiderio autentico di sapere.
Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch’io non so quello che tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi (illusione psicologista) perché l’alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile."

Questo è il passaggio teoreticamente più confuso del testo di MR. Riguardo al personaggio di Agatone, va notato innanzitutto che non si tratta di un ragazzo bensì di un giovane uomo di spettacolo, padrone della casa nella quale si svolge il Simposio, e secondariamente che non è il maestro, Socrate, a sedersi accanto a lui per trasmettergli meccanicamente informazioni bensì è lui che si siede vicino a Socrate. La scena è rovesciata rispetto a quella immaginata da MR. Agatone è un bel giovane, come tale seducente, ed è attratto dal sapere incarnato da Socrate. Difficilmente si potrebbe sostenere che Agatone voglia imparare questa o quella informazione: piuttosto, è proprio un esempio di quell'amor di sapere che MR indica come l'obiettivo da suscitare nei discenti.


sabato 5 aprile 2014

Roman nouveau, FILOSOFI1

Deleuze è un filosofo della Differenza. Il concetto di differenza è al centro del sistema del suo intricatissimo pensiero. Deleuze pensa che la differenza sia “intensiva”, qualitativa anziché quantitativa. La Differenza diventa un concetto metafisico che non ha nulla a che vedere con il concetto logico di differenza (ma com'è possibile?) e si collega alla nietzscheana “volontà di potenza”, consistente nella valutazione di ogni ente secondo la prospettiva della sua intrinseca quantità di energia. Il concetto di Differenza va analizzato insieme a quello di molteplicità. L’identità non è più il concetto privilegiato della metafisica, così come avviene nella tradizione filosofica da Platone fino a Hegel: nella prospettiva di Deleuze ogni ente è paragonabile a una monade leibniziana che anziché rapportarsi all’essere secondo le modalità della rappresentazione “sintetizza” una quota di intensità o energia (da intendersi metaforicamente, senza riferimento alla fisica) e questa energia è una molteplicità di possibilità. L’elemento qualitativo è particolarmente presente nell’opposizione, di provenienza nietzscheana, tra le “forze forti” e le “forze deboli”. Contro la lettura volgare del pensiero gerarchico di Nietzsche, Deleuze fa valere una ben diversa lettura: poiché il prospettivismo nietzscheano annulla il concetto di sostanza pensante, soggetto cartesiano, individuo, anche la realtà umana, come quella naturale, risulta leggibile come campo di forze metafisiche che si affrontano perennemente (visione tragica dell’essere, eraclitea). Una forza è “forte” quando esprime appieno la propria essenza, la propria potenzialità; è “debole” quando non giunge a realizzare appieno la propria natura potenziale.