Visualizzazioni totali

venerdì 28 ottobre 2011

Un sonetto di Alfonso Maria Petrosino a sostegno delle educatrici precarie minacciate dai tagli del Comune di Torino

Al centro della Piazza del Palazzo
il Conte Verde impugna lo spadone,
istigando alla privatizzazione
e a darci un taglio: era un crociato, un pazzo

che bronzeo indica la via maestra.
È di sinistra il sindaco Fassino,
ma in questo modo al massimo è mancino
e quello che fa la sua mano destra

la sua sinistra non lo sa. Tiziana,
Simona, Claudia, Laura, Deborah,
nere di lutto, guidano il presidio.

Il sindaco non scende, e si allontana
da quella parte della società.
La bara è il simbolo di un omicidio.

giovedì 27 ottobre 2011

Mia risposta a due commenti su "Ragionare con la mente estesa", su Alfabeta 2 online

Postato su Alfabeta 2

[...] è difficile non concordare sul fatto che il medium comunicativo condizioni i contenuti, ma da qui a concluderne che il mezzo sia il messaggio ci vuole la genialità di McLuhann. Se rifuggiamo dall’immagine strutturalista o postmodernista dell’individuo come nodo (o insieme di nodi) di una rete sistemica di sensi e significati, concorderemo che a monte di qualsiasi espressione/comunicazione c’è un’intenzione, un soggetto pensante e incarnato, la cui intenzionalità non si lascia comprimere completamente dal medium comunicativo (non più di quanto un regime totalitario comprima completamente le libertà individuali: qualcosa residua sempre).
“Interazione leggera” mi sta benissimo, se alludiamo con questo al fatto che di norma si parte dall’assenza di interazione faccia a faccia. Il che non giustifica i toni apocalittici sulla perdita della dimensione fisica della relazione: certe relazioni fisiche non producono grande socializzazione, mentre in passato si sono dati casi più che soddisfacenti di rapporti ecsclusivamente epistolari tra illustri ingegni (mi vengono subito in mente Gandhi e Tolstoj).
La questione del frame (suppongo in senso goffmaniano): è certamente importante, e un critico del social network ha gioco facile nell’osservare che l’assenza di corporeità costituisce un frame particolarmente asettico. Si può rispondere in molti modi: il frame non è mai assente, e allora non si vede perché dovremmo preferire i vecchi frames della comunicazione standardizzata nella società capitalista dello spettacolo integrato, (mercificata autoritaria strategica inautentica e chi più ne ha più ne disprezzi) piuttosto che una modalità “nuova” di interazione tra individui a priori reciprocamente sconosciuti, che scambiandosi frammenti testuali, immagini e segni di vario tipo possono agevolmente arrivare a conoscersi “realmente”, se ne hanno voglia e occasione.
Sul fatto che pochi interagiscano per “costruire senso” (posto che il senso si costruisca socialmente, cosa che non credo, ma intendo l’espressione come un “agire comunicativo”) non sono d’accordo: la mia esperienza personale mi dice che di senso ho provato a costruirne parecchio (ho dialogato con scrittori e politici, ho imparato e insegnato, scambiato informazioni, corretto errori, smontato stupidaggini). E a parte il mio caso personale potrei solo limitarmi a citare gli esempi più politici, come l’attuale protesta NoTav, o il Popolo Viola e il No-Berlusconi Day, l’Onda, ecc.: sono tutti casi in cui individui non precedentemente integrati in gruppi costituiti hanno potuto comunicare, organizzarsi e agire efficacemente. Mi pare che questo possa corrispondere almeno a una delle possibili definizioni di “costruzione sociale di senso”.
Certamente i social network sono diversi tra loro, e per parlarne nel dettaglio bisogna studiarli uno per uno: io mi riferivo genericamente a Facebook, che conosco e pratico più di ogni altro, e non pretendevo di considerare universale il mio modello.
Riguardo alla filosofia: non ho mai pensato che la filosofia sia sterile, al punto che cerco sempre – senza gran successo – di convincere i miei allievi a studiarla all’università. Penso però che possa essere sterile, specialmente in una prospettiva planetaria e non provinciale come la nostra, l’insegnamento della storia della filosofia, o quantomeno il vecchio dogma hegeliano-gentiliano-crociano per cui la filosofia è storia della filosofia. In questo senso l’incontro (di persona e non su Facebook…) con il filosofo Roberto Casati è stato per me fondamentale: per fare filosofia – mi disse Roberto – bisogna studiare i problemi filosofici attuali, e poi eventualmente risalire all’indietro fin dove si vuole (lui disse vent’anni…). Ti rimando al capitolo della sua recente Prima lezione di filosofia per un punto di vista non storicista , che condivido in pieno, sull’insegnamento della filosofia.
Ben vengano le “teorie dell’assurdo” (per citare un libro di Francesco Berto sui sistemi logici non classici) o la logica buddhista: sempre di logica si tratta, ossia – insisto – di una materia che nelle nostre scuole superiori non si studia normalmente. Nulla vieta di dilungarsi un po’ sul sillogismo mentre si spiega Aristotele, ma la logica moderna è tutt’altra cosa e il tempo scolastico per insegnarla io non saprei proprio dove trovarlo.
Ora rispondo anche ad Andrea (che ho costretto a leggere fin qui…): tu mi obietti che il modello logico-argomentativo non sia mai scomparso dalla nostra società, almeno grazie alla conversazione, ma mi pare che tu alluda a un modello alto di conversazione, mentre se prendiamo come esempio la conversazione calcistica (con tutto il rispetto per lo sport) abbiamo un condensato di tutto ciò che argomentazione non è, nemmeno nel senso di “cattiva argomentazione”: semplicemente non si adducono argomenti, non li si concatena in modo logico, non si traggono conseguenze e se le si traggono non ci sforza di essere coerenti con esse. Conversazione a parte (e come dici tu, oggi anche quella è un’esperienza in via di scomparsa) mi riferivo al fatto che le cosiddette moltitudini siano ben poco esposte alle regole logiche dell’argomentazione.
Da ultimo Wittgenstein, di cui ricordo, Andrea, che eri studioso in Francia: lungi da me l’idea di sminuirlo, lo considero semplicemente il filosofo più importante del Novecento (altro che Heidegger!) ma ciò non toglie che il paradigma cognitivo gli fosse necessariamente precluso, per ovvi motivi cronologici. Quindi, usare Wittgenstein contro le scienze cognitive mi pare un inutile anacronismo dato che Ludwig ha molto altro da dirci. Mi sembrerebbe insomma un po’ come usare Bruno o Bacone come antidoto alla scienza galileiana.
Tu parli di contravveleno al cognitivismo, ma io penso che il vero veleno sia proprio il postmodernismo e la sua incapacità di confrontarsi con la scienza in modo costruttivo (salve forse rare eccezioni, ma non saprei bene quali) e al di là di una generica simpatia politica che non fatico a tributargli. L’importanza della scienza cognitiva per la filosofia è per me centrale, e anche questo lo devo a Casati: nella nostra chiacchierata inaugurale mi fece rapidamente capire come proprio grazie al confronto con le scienze cognitive la filosofia sia finalmente uscita dal recinto delle intuizioni personali e della filosofia da poltrona. Ci stava comoda, la filosofia, in poltrona, ma ora i tempi stanno cambiando. E per fortuna, aggiungerei da ottimista.

martedì 18 ottobre 2011

Pensieri sparsi sulla guerra sociale che ha luogo in Italia, 2011

Possiamo ora dirlo liberamente, poiché è finalmente venuta ad esaurimento la leggera sbornia unitarista, da festeggiarsi con bandierine tricolori e iniziative pseudoculturali maggioritariamente insulse: L'Italia è in guerra, una guerra sociale, e questo stato di guerra è sotto gli occhi di ognuno.

Per sapere che le classi sociali esistono non c'era bisogno di Marx (al limite bastava Hegel), così come oggi non c'è più alcun bisogno di riutilizzare il vecchio concetto di conflitto di classe: il proletariato industriale che Marx aveva idealizzato come "classe universale", non esiste più o forse non è mai esistito con quelle caratteristiche di omogeneità e universalità, come alcuni hanno sempre sospettato (per esempio Jacques Rancière). Ci sono classi, gruppi, settori, insiemi e soprattutto individui con proprietà sociali simili o diverse tra loro. Oggi, in Italia, gli individui e i gruppi sono attraversati tutti dallo stato di guerra sociale, che schiera due soli campi avversi.

In Occidente, la situazione di guerra sociale, che alcuni (Agamben) teorizzano ormai da anni come guerra civile planetaria, è data dalla pretesa totalitaria del capitale di sussumere tutto il sociale. I cittadini occidentali, e particolarmente quelli della repubblica italiana (in Occidente un paese-frontiera della guerra sociale planetaria) sono schierati su due virtuali campi avversi: chi detiene ricchezza, o è al suo servizio, e chi detiene scarsa o nulla ricchezza o si schiera al fianco dei nullatenenti (anche perché viene rapidamente trasformato in uno di essi).
All'interno di questi due campi le differenze sono molte e rilevanti. Ma i campi sono quelli, e in Italia l'esasperazione sociale, culturale e politica causata dal berlusconismo (più sintomo che causa della guerra sociale) li ha resi più compatti che in passato.

Non è necessario approfondire se chi detiene ricchezze sia "capitalista" in senso marxiano, ossia se detenga realmente i mezzi di produzione, o se faccia semplicemente parte di un gruppo sociale che detiene o controlla i mezzi di produzione e dunque la produzione. E' evidente il collante materiale (postideologico) dei due campi in guerra: la ricchezza e il suo immaginario. Ogni altra ideologia sembra oggi ridotta al lumicino, inclusa quella falsamente universalistica della chiesa cattolica.

Si è parlato molto di violenza e pacifismo, negli ultimi tempi, e molto a sproposito. Qualcuno (per esempio Belpoliti) ha teorizzato (per la verità debolmente) la fine delle rivoluzioni e l'inizio dell'epoca delle rivolte. Negli ultimi mesi in Italia ci sono in effetti stati alcuni episodi di scontri violenti tra poliziotti e gruppi di "antagonisti" bellicosi.
Nota: La stessa definizione giornalistica di "antagonista" tende a maschere l'esistenza della guerra sociale. Come se chi critica anche violentemente quest'ordine sociale facesse parte di un semplice "agonismo", una leale gara tra capitale e individui.
Ora, mi pare che non si sia ancora notato che in questi scontri la violenza è sempre stata in qualche modo irregimentata. L'obiettivo dei bellicosi è sempre il solito: la distruzione fisica di obiettivi simbolici come banche e gioiellerie (centrali di spaccio del capitale e del lusso), che non può non passare per il confronto fisico con le forze di polizia, anche nel corpo a corpo. Ogni scontro vede una parte di "vincitori" e una parte di "vinti". E' qui evidentemente in gioco una dimensione simbolica, sinteticamente analizzata da Toni Negri (Il lavoro di Dioniso): la posta consiste in una momentanea vittoria o sconfitta della forza antgonista o dello Stato, simboleggiato dalle forze di polizia. Quello che sembra essere veramente in gioco è il confronto con la forza dello Stato, all'interno di una logica di confronto violento ma non radicalmente distruttivo. Nessun bellicoso ripeterebbe oggi gli slogan degli anni settanta contro lo Stato. Il problema sembra non essere più lo Stato bensì direttamente il capitale.
Tra i  bellicosi vi sono anarchici e marxisti: i primi sanno di essere troppo deboli per pensare di attaccare lo stato, gli altri non vogliono distruggerlo in quanto tale ma vorrebbero uno stato privo di capitale (vogliono certamente combattere lo stato capitalista: la questione dell'abolizione dello stato è rinviata indefinitamente).


Un critico letterario neomarxista, commentando i fatti di Roma del 15 ottobre, si compiace di dichiarare "gente di merda" i bellicosi: di merda perché pensano di merda, anzi non pensano, perché non hanno una prospettiva politica.
Nella reazione del postmodernista di fronte a quella che lui chiama "estetizzazione della politica" à la Benjamin, affiora chiaramente l'esacerbato senso di impotenza personale, e di casta, che affligge l'intellettuale italiano progressista nel 2011: il sogno del comunismo si rovescia nell'incubo della violenza anarchica e ai militanti comunisti che scelgono gli scontri di piazza non viene nemmeno riservata l'ipocrisia dei "compagni che sbagliano": sono semplicemente dichiarati impolitici.
Così, l'intellettuale neomarxista prolunga la ridicola ma tragica abitudine delle scomuniche e degli anatemi comunisti: chi è nemico del Partito (oramai  virtuale e conseguentemente e per l'ennesima volta sostituito non senza ansia dal "movimento") lavora per i fascisti.

Sarebbe del resto troppo facile far notare la contraddizione: accusati di "estetizzazione della politica", i blackbloc in realtà né pensano né fanno politica. Si dovrebbe dunque chiedere al critico neomarxista: CHE COSA E' dunque ciò che viene "estetizzato" da questi animali impolitici?


Chi sono, in Italia, i cosiddetti indignati che il 15 ottobre 2011 hanno fatto la loro comparsa sulla pubblica scena italiana, subito intercettati dai bellicosi?
L'etichetta deriva dal libretto di Stéphan Hessel, Indignez-vous!, subito adottato e amplificato dai mass-media di tutto l'Occidente. (Ma a New York l'etichetta è più diretta e tatticamente simbolica: Occupy Wall Street).
Non è difficile vedere che si tratta di quello che Wittgenstein avrebbe chiamato un errore grammaticale. Il verbo "indignarsi", non tollera sensatamente l'imperativo. Dire a qualcuno "indìgnati" non ha più senso che dire a qualcuno "desidera!" oppure "devi volerlo!" o, in negativo: "non pensare a un elefante rosa". Non si può indurre qualcuno a indignarsi, come non lo si può indurre a non pensare a un elefante rosa dopo che lo si è evocato.
Il linguaggio in molti casi non aderisce alla realtà, e questo è uno di quei casi.

Da dove viene questa esigenza di autoetichettarsi di fronte all'opinione pubblica (a ciò che ne resta) e - soprattutto - di fronte ai mass-media? L'impressione è che un'etichetta confusa possa venire agitata con tanta ingenua convinzione quanto più è debole e confuso il movimento che si riconosce in esso.
Non stupisce che i bellicosi prendano facilmente il sopravvento su un gruppo di persone che si vogliono pacifiche, ma che non è detto abbiano un rapporto sostanzioso con la teoria e la prassi della nonviolenza (ben lontana dall'esaurirsi nel "non lanciare le pietre").

Potrebbe essere di qualche utilità la definizione che Spinoza dà dell'indignazione: "'indignazione è odio verso qualcuno che ha fatto del male a un altro" (Etica). Tre elementi sembrano qui essenziali: l'odio, il male commesso, l'altro che è vittima del male.
Alcuni indignati dicono di protestare per se stessi e il proprio futuro. Questa si chiamerebbe più correttamente rabbia o ira ("cupidità da cui per odio siamo incitati a far del male a chi odiamo", sempre Spinoza). Non riesco a immaginare nessun militante di sinistra del Novecento mentre esclama la propria "indignazione" contro il capitale.
La mia domanda è: perché si vuole mascherare la propria giusta rabbia sotto un'etichetta posticcia, amabigua e di provenienza spuria (editoriale e giornalistica)? La risposta che mi viene in mente è una sola, forse inattesa: perché SI HA PAURA DELLA VIOLENZA SENZA CONOSCERE LA NONVIOLENZA.


La lotta NoTav è diventata una causa trasversale per tutti coloro che la guerra sociale non vogliono subirla inermi, indignandosi a mesi alterni e limitandosi a qualche lamentela se il tecnocrate di turno somiglia un po' troppo all'anomalo capopolo precedentemente lasciato governare senza contrasti.
Coloro che lottano in Val di Susa contro un'opera pubblica pensata all'insegna di un'idea di progresso che solo politici ignoranti o in malafede possono proporre senza vergogna - in realtà è finalizzata unicamente al profitto privato, per di più in totale spregio alla crisi dell'economia capitalista che il paese, l'Europa e il mondo (occidentale?) stanno attraversando - non sono uniti dall'appartenenza di classe.
Se è vero che in Valle lottano molti proletari, anarchici o comunisti più o meno bellicosi e organizzati, è altrettanto vero che aderiscono alla causa NoTav molti appartenenti alla cosiddetta "classe media" (esempio esemplare di non-concetto).
La Valle è diventata un simbolo della lotta a un capitalismo feroce e demente, che non dà frutti se non agli affaristi bipartisan, spesso se non sempre collusi con le mafie, ed elargisce qualche sparuto posto di lavoro per operai temporaneamente prelevati dall'esercito di forza-lavoro disoccupata, riserva perenne e anzi crescente che, come vide Marx, il capitalismo si guarda bene dal tentare di riassorbire.
Che la variante keynesiana del capitalismo da ultimo si rovesci storicamente in war-fare non sembra irrilevante per la guerra sociale della Val di Susa: i partiti borghesi di destra e sinistra, dopo avere affossato lo Stato che in effetti non hanno mai tenuto in gran conto, se non nella sua modalità di "stato d'eccezione", pretendono ora di dispensare squallide elemosine in forma di posti di lavoro manuale per grandi opere inutili e insostenibili. Per perseguire i loro scopi di accumulazione di profitti sono prontissimi a invocare il war-fare per una valle la cui popolazione maggioritariamente combatte ormai da anni con tutte le armi a sua disposizione.
Tra queste armi, a differenza da quelle dei politici embedded, specialmente quelli del PD, non è affatto esclusa la nonviolenza. Il fatto che in questa fase i bellicosi abbiano preso il sopravvento dimostra soltanto che nessuna forza poltica ha realmente provato a inserirsi nel dissidio tra il movimento NoTav e l'affarismo bipartisan.
I mezzi dei bellicosi sono sbagliati, anche se forse finora non del tutto controproducenti (la causa non è affatto indebolita, al contrario); ma gli affaristi che usano delle forze dell'ordine non solo usano mezzi violenti, ma li usano per fini del tutto immorali.
[to be continued]