E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
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sabato 15 marzo 2025

Come uscire dall'eurocentrismo culturale

La questione sollevata in questi giorni, "solo l'Occidente conosce la storia", somiglia a quella che si discuteva anni fa: la filosofia è solo occidentale? I filosofi di sinistra hanno speso tante belle parole decostruttive per dimostrare che la pretesa eurocentrica è violenta, ma si sono ben guardati dal fare l'unica cosa che a mio parere avrebbe un vero valore dimostrativo, ossia studiare le filosofie non occidentali.
O meglio, qualcuno l'ha fatto, ma non si sono veramente creati dei percorsi trasversali come credo sarebbe stato possibile, oltre che auspicabile.
Uno dei pochi esempi che mi vengono in mente, a parte i due sinologi francesi, François Jullien e François Cheng (che comunque rimangono fortemente legati all'orizzonte della filosofia continentale e della cultura umanistica), è quello di Graham Priest.
Priest, da filosofo e logico, indaga da parecchi anni le logiche non occidentali, come l'antica logica buddhista, in un confronto illuminante con le, "occidentalissime", logiche non classiche. In questo modo Priest tocca e mostra l'universale della cultura umana planetaria, molto più che con affermazioni di principio ma prive di contenuto empirico, quali possono essere considerate quelle della filosofia decostruttiva anti-eurocentrica.
Un po' come Marx (a cui Priest ha dedicato parecchi testi, anche proprio in connessione con il buddhismo) che è fuoriuscito dalla filosofia, rinnovandola, praticando l'economia anziché semplicemente affermare la necessità di abbandonare l'idealismo filosofico.
Priest mostra concretamente l'universale del pensiero umano anziché limitarsi a celebrare programmaticamente le particolarità culturali, singolari, com'è nelle corde della filosofia postmoderna, derivata non tanto da Derrida quanto da Foucault.
In fondo le stesse affermazioni di Galli della Loggia & co. sulla storia come appannaggio dell'Occidente sono frutto del culturalismo, in questo caso di destra.

domenica 10 febbraio 2019

Se ascolto Arisa, Mi sento bene (Sanremo 2019)


So che molti non saranno d'accordo ma penso che la canzone sanremese di Arisa, Mi sento bene, sia quella più significativa e degna di nota.
Tutti, a destra e a sinistra (per motivi ovviamente opposti), concordano che viviamo in un'epoca di passioni tristi per dirla con Spinoza e lo psicoanalista Benasayag: un'epoca dove trionfa l'atomizzazione della società e la depressione, nemmeno sublimata in spleen. Una depressione spesso travasata in pratiche esistenziali autodistruttive e preoccupantemente individualistiche (e sessiste), come quelle cantate dai rapper, tra i quali anche Achille Lauro di cui tanto si è parlato per il suo inno alla Rolls Royce (automobile di lusso o droga sintetica, o tutt'e due?).
La canzone di Arisa, cantante alla quale nessuno nega evidenti doti canore e musicali, ha un titolo e un testo alquanto banali, che ha provocato il giudizio negativo di molti.
Io voglio difenderla.
La musica della canzone è interessante, tripartita com'è in un'intro e una chiusa melense da musical disneyano, e in un corpo centrale concitato dal ritmo serrato esaltante, con una linea melodica fatta di guizzi verso l'acuto e rotonde ricadute alla partenza. Un esperto mi ha suggerito che lo stacco tra primo e secondo tempo potrebbe addirittura ricordare il David Bowie di Station to Station, e in ogni caso, mi pare musicalmente figa, degno di Elio e le storie tese o di un buon musical.
Il testo della canzone propone una specie di visione zen adatta ai nostri tempi, forse più femminile che maschile: rinunciare a pensare troppo alla nostra finitudine, al passato, ai desideri irraggiungibili, e aderire alla realtà può far sentire bene.
È un messaggio ambiguo: se appare superficialmente banale è in realtà ben difficile da praticarsi. D'altra parte, sul piano politico rischia di essere quietista e reazionario, un rischio insito in generale nelle filosofie orientali, che insegnano appunto a votarsi all'adesione a ciò che è, più che la progettazione di ciò che potrebbe essere e ancora non è (compito che in Occidente la filosofia si è caricata sulle spalle da Marx e la sinistra hegeliana in poi).
Da una prospettiva pop-zen, Arisa indica una via individualmente percorribile per staccarsi dalle passioni tristi: guardare una serie alla tv, fa stare bene (per qualcuno fa persino pensare), fare l'amore fa stare bene, sentirsi belle perché qualcuno ci desidera fa stare bene, ecc.
Questo “stare bene” mi colpisce perché è ambiguo: da un lato sembra indicare una rinuncia a qualcosa di più elevato o di più complesso, dall'altro sembra un obiettivo difficile da raggiungere, nonostante la sua apparente facilità (“quasi elementare e semplice”).
Le premesse filosofiche non sono tra le meno serie: abbandonare il desiderio di eternità (“basta non pensarci più e vivere”) proprio di una buona metà della filosofia occidentale e di quasi tutta la filosofia orientale); abbandonare la ricerca del senso del transeunte (“chiedersi che senso ha, è inutile, se un giorno tutto questo finirà”).
La natura contradditoria e tragica della realtà è esplicitamente definita “questo assurdo controsenso”: una visione schopenhaueriana della realtà che non dispiacerebbe forse a Houellebecq.
Il messaggio pratico di Arisa, il suo “tetrafarmaco”, sembra essere il non pensare al passato (“cosa ne sarà dei pomeriggi al fiume da bambina, degli occhi di mia madre, quando questo tempo finirà? Se non ci penso più mi sento bene”).
Tra i mali di vivere su cui fare epoché, come gli antichi stoici, Arisa annovera giustamente la vecchiaia (“non aver paura d'invecchiare”, una frase che potrebbe essere di Battiato). Nel buddhismo ci sono anche malattia e morte, ma a una canzone di Sanremo non possiamo chiedere troppo.
Se facciamo un confronto con la canzone vincitrice di qualche anno fa, Occidentalis karma, capiamo che per noi occidentali la filosofia orientale ha due possibilità entrambe spettacolarizzabili: la sua superficializzazione postmoderna e pop, da Battiato a Francesco Gabbani, oppure la sua interiorizzazione dagli esiti imprevedibili, da Schopenhauer a Noah Yuval Harari, e Arisa.
Se contrapponessimo le due possibilità come Heidegger faceva per l'autenticità e l'inautenticità, ricadremmo in un eroico dualismo della scelta, poco probabile ai giorni nostri.
Lasciarci trasportare dalla canzone di Arisa potrebbe suggerirci come trovare nella nostra quotidianità per lo più alienata qualche isola di tranquillità, se non proprio l'oceano di silenzio invocato dal maestro Battiato.
E più non penso e più mi sento bene.”

giovedì 26 luglio 2018

Post scriptum (Roman nouveau, Omega)

Un giorno d'inverno portai una minuscola statuetta di Buddha sulla tomba di mio padre. Era il mio periodo buddhista, avevo l'ispirazione per fare un gesto privo di significato e tuttavia facilmente leggibile all'interno di una tradizione umana di culto dei morti.
La prima statuina che volevo portare a mio padre l'avevo regalata al bellissimo figlioletto del mio amico Max: eravamo in montagna per una riunione tra ex compagni di università, Viviana era incinta di Agostino. Tito aveva quattro anni e quando vide la statuina dorata che mi portavo sempre appresso, dopo che l'avevo posata sul tavolino al quale sorseggiavamo il nostro aperitivo tra vecchi amici in vacanza, la guardò con occhi incuriositi e avidissimi: “questo è Buddha”, gli dissi con benevolo tono di ammaestramento.
“Buddo!”, urlò Tito gioiosamente afferrando la statuina e impadronendosene in modo ostentato. Ebbi una piccola crisi interiore: era una statuina che adoravo, una specie di portafortuna su cui si concentravano tutte le mie quasi-credenze pseudo-buddhiste dell'epoca. Inoltre avevo già deciso di portarla sulla tomba di mio padre... E adesso quel moccioso la voleva per sé! Cercai di dominare l'angoscia furente che si stava formando da qualche parte nella mia psiche contorta: mi dissi che se Tito era attratto dal buddhino risplendente era giusto che diventasse suo, anche se privarmene mi generava un notevole disagio. Mi dissi che in fondo il buddhismo insegna proprio il distacco e mi tornò in mente il proverbio cinese che esprime il culmine dell'irrazionalità buddhista chan, poi zen: “se incontri Buddha sulla tua strada, uccidilo”. 
Provai così a uccidere Buddha in quella statuina, ma forse non vi riuscii proprio benissimo, se ora sto scrivendo di questo fatto, a dieci anni di distanza. Successivamente trovai un'altra statuina simile a quella che avevo visto scomparire nella manina di Tito: ma non era altrettanto bella e insomma portarla da mio padre mi sembrava già un po' meno significativo.
Comunque mi recai al cimitero monumentale di Torino, dove ritrovai non senza fatica (devo sempre richiedere le coordinate alla mia vecchia zia) il lotto in cui stazionavano le spoglie mortali incenerite del mio genitore, appoggiai la statuina sul loculo di papà, mi sedetti nella posizione del loto, dopo essermi ficcato dei giornali sotto il sedere per evitare il freddo del pavimento cimiteriale, e provai a fare un po' di meditazione.
Niente, non sentivo niente, non mi veniva in mente nulla che io potessi fieramente lasciar scorrere nella mia mente, non i pensieri “che saltano di ramo in ramo come le scimmie”.
Non pensando niente non potevo staccarmi da niente. Nulla aveva senso, era tutto ridicolo e inutile: stavo davanti a un pezzo di marmo contenente un po’ di polvere, e negli avelli contigui c’erano pure dei cadaveri in putrefazione.

Quando tornai dopo un anno a visitare la tomba, la statuina era scomparsa.
Siamo usciti dal nulla, siamo fatti di nulla, stiamo tornando nel nulla.

giovedì 21 settembre 2017

Nuovo diario buddhista, 1

Nell’estate del 2005 stavo diventando buddhista da appena un mese. Appena finito di esaminare i maturandi al Galfer di Torino, partii per un viaggetto da Leonardo a Venezia. Ci trovammo al bar Rosso in campo Santa Margherita, e il discorso sul buddhismo venne fuori subito. Scherzando dissi a Leo che volevo fare proseliti e convertire tutti gli amici. Non era così falso anche se lì per lì pensavo di essere ironico. Avevo inziato a diventare buddhista dopo un percorso abbastanza lungo, cominciato con la fine della mia storia con F. La strada verso il buddhismo doveva essere una sorta di destino perché non sono andato in cerca di nulla. Gli eventi sono avvenuti, dipendevano dal mio karma.

Nel settembre del 2003 F. ed io ci lasciammo dopo una storia violenta e abbastanza tragica. In termini di karma, entrambi ce lo siamo sporcato con le cattiverie che ci siamo fatti. F. odiava molto il mio marxismo e questo mi ha scosso le certezze, facendo sì che poco dopo esserci lasciati io comprendessi come la mia vera ispirazione politica fosse l’anarchismo e non il marxismo. Tutt’ora vorrei studiare seriamente i rapporti reali e possibili tra buddhismo e anarchismo (storicamente credo siano pochi).

Finché ero marxista non sarei potuto diventare buddhista perché «la religione è l’oppio dei popoli». Una volta diventato anarchico mi sono convinto a dirmi ateo, anche se qualcosa non mi convinceva nell’odio degli anarchici spagnoli contro il cattolicesimo: le famose fucilazioni delle statue di Cristo, e gli incendi delle chiese non mi parevano atti politici intelligenti... (D’altra parte va detto che Durruti non è responsabile dell’incendio della cattedrale di ...). Però non avevo ancora messo a fuoco la nonviolenza dunque non capivo che cosa non mi stesse bene dell’anarchismo. Divenni anarchico grazie ai libri di Chomsky. Fu un passo importante per liberarmi del mio dogmatismo razionalista;

Poi iniziai ad andare settimanalmente dal Dottor B., psicanalista freudiano torinese molto figo, perché dopo F. con le donne mi sentivo un disastro. La psicanalisi è praticamente opposta al buddhismo, perché questo predica l’assenza di un Io, quella te lo vuole rafforzare.

In prospettiva buddhista la contraddizione si supera facilmente, ma per la psicanalisi il complesso di credenze buddhiste deve necessariamente risultare una copertura di ragioni più psicomateriali e in ultima istanza legate alla libido.

Diciamo che se non ci riesci diversamente, con la sola pratica buddista, la psicanalisi può darti quella tranquillità nei confronti di te stesso che poi ti permetterà di trascenderti attraverso la pratica della presenza mentale e la meditazione sul non-sé. 

Quando ho iniziato a parlare del buddhismo al Dottor B. lui ha detto che gli sembrava che io non volessi impegnarmi in una sola cosa. Ha ragione: perché mai dovrei?

Nel luglio 2004, infine, sono iniziati i miei problemi di salute per le intolleranze alimentari sovrapposte: ho abbandonato l’alcol e sono diventato tendenzialmente vegetariano. Bizzarramente iniziai a stare male per l’alimentazione proprio mentre leggevo Gandhi e Capitini che legano dieta vegetariana e nonviolenza.

Al momento attuale ho scoperto che tutte le mie presunte intolleranze erano frutto della mia mente. Sto benissimo, me lo ha fatto capire un dietologo che mi ha anche ingiunto una dieta iperproteica per mettere su muscoli (sono astenico) e di correre tre volte alla settimana per allenarmi alla maratona. Questo sarà difficile ma l'allenamento l'ho iniziato.

mercoledì 20 settembre 2017

Diario della presenza mentale, 9

In La biada quotidiana, 2 (Spinoza e la presenza mentale), si era affacciata per l'ultima volta nelle mie note la Presenza Mentale (d'ora in poi PM).

Oggi è ritornata.

Penso che la PM sia una sorta di grazia. In ogni caso non è possibile darsela.
Oggi pomeriggio ha fatto la sua ricomparsa.
Sembra l'effetto remoto di una lunghissima, misteriosa, catena causale.
In certe situazioni "mi torna in mente" la (possibilità della) PM: allora provo a praticarla e dopo pochi secondi percepisco me stesso in un altro modo, mi rilasso, mi pare di ricordarmi che non ci sia nulla di cui preoccuparsi.
La sensazione dura però pochi secondi, poi scompare. A quel punto sento che dovrei fare un grande sforzo per ricominciare*.

Credo che, questa volta, la PM mi sia tornata per via delle mie letture di Emanuele Severino: l'idea che tutto sia eterno non mi risulta più così assurda come un tempo. Del resto, quando anni fa mi dedicai al buddhismo zen, riuscivo a pensare l'essere-vuoto del tutto. (Sono idee complementari? Sono la stessa idea?)


*Nel Diario della presenza mentale, 8, dicevo infatti: "una volta che l'idea della presenza mentale è presente, bisogna usare la volontà per praticarla. La mia volontà deve anzi lottare duramente contro l'inerzia della mente per riuscire a concentrarsi nella propria autopresenza.
So che la mia coscienza può cambiare di qualità attraverso la presenza mentale, anche se non l'ho mai sperimentata per tempi lunghi. Ormai penso di dovermelo imporre volontariamente."

mercoledì 15 febbraio 2017

La biada quotidiana, 1 (Spinoza e il buddhismo)

C'è qualcosa di profondamente simile nella teologia spinoziana e nella metafisica buddhista. Questa vede l'essere come vuoto, mentre Spinoza lo percepisce come Tutto: i due concetti sono mistici, hanno un significato diverso dal loro normale campo semantico (quello della fisica per "vuoto", quello della logica per "tutto").

Il significato di Vuoto e di Tutto rimane vago anche per chi creda di averne un'intuizione abbastanza precisa: nessun riferimento è possibile nei due casi se non un'esegesi della teoria implicita nei concetti.
Dire che l'essere è essenzialmente vuoto significa che al di sotto del molteplice divenire c'è un essere Uno, un Nulla che annulla tutte le differenze che si manifestano come fenomeni spaziotemporali (samsara).
Dire che l'essere è il Tutto significa invece dire che non v'è spazio, nell'essere, per il non-essere, ossia per la coscienza sartriana intesa come centro di possibili negazioni.

In entrambi i casi è: come far apparire all'essere (della mia coscienza modale) ciò che sempre già è nell'assoluto della sostanza-uno? Come allontanarsi dall'illusione del negativo?

La risposta è senz'altro: la presenza mentale.

PS: per chi non vuol seguire la strada mistico-intuitiva, segnalo che Antonio Damasio, in Alla ricerca di Spinoza, spiega l'etica spinoziana in funzione dell'omeostasi emotiva, evoluzionisticamente e individualmente vantaggiosa.

lunedì 27 gennaio 2014

Mia famigerata intervista inedita a Houellebecq, mai integralmente trascritta...


Michel Thomas, alias Michel Houellebecq, è stato per anni considerato uno scrittore scandaloso, politicamente scorretto, addirittura un portavoce del fascismo europeo (come disse un Baricco straordinariamente abbagliato). La carta e il Territorio è il suo ultimo romanzo e per molti versi appare come un commiato dall’intensità della precedente scrittura, spesso quasi insopportabile per temi e passioni tristi. Houellebecq sembra ora avere raggiunto una specie di atarassia artistica, se non esistenziale (anche se vedendolo da vicino emana un gran senso di quiete).
Houellebecq è diventato celebre per gli effetti speciali a base di molto sesso, trattato in maniera quasi pornografica, ma i suoi libri sono intrisi di cultura filosofica: e per essere un intellettuale francese dell'epoca d'oro della postmodernità lo scrittore ha un punto di vista decisamente poco simpatetico verso la produzione filosofica dei suoi connazionali.
D: L'ho sempre considerata come uno dei più filosofici tra i grandi scrittori contemporanei, ma so che lei ha detto cose molto aggressive contro la filosofia occidentale... non ha proprio nessuna stima per la filosofia contemporanea, in particolare quella francese dei Deleuze, Foucault, Derrida ecc.?
R: No. Diciamo che c'è un décalage, o meglio una divergenza che si è prodotta tra la filosofia e la scienza e che invalida il discorso filosofico. O meglio: non lo invalida ma lo posiziona nel campo della letteratura. Deleuze è piuttosto un buon poeta, a tratti, Derrida è un poeta di merda. È vero che ho una certa simpatia per Deleuze, ma piuttosto per una specie di dimensione di sogno che apporta, una dimensione onirica. Ma non posso prenderlo sul serio. Ci sono ancora dei filosofi francesi seri, ma il problema è che mi sento un po' superato sul piano intellettuale. Non solo francesi, d'altronde.
D: Intende i filosofi analitici?
R: Sì i filosofi analitici, ma oltre un certo punto non arrivo, è troppo complicato. Per esempio, il teorema di Goedel l'ho capito una volta, ma penso che non saprei più fare la dimostrazione. Per me però è lì che si situa l'aspetto serio della filosofia, una specie di corrente di pensiero derivata dal positivismo logico[1]. Carnap salvava Heidegger come poeta lirico, e direi a giusto titolo: leggendo Heidegger si prova un'emozione realmente poetica.
D: Heidegger le piace?
R: Sì mi piace, ma è la pretesa di essere filosofo che mi infastidisce un po'. "Romanzo" non si potrebbe dire propriamente, ma come poema Essere e tempo andrebbe bene!
D: Si è parlato molto del suo rapporto con l’Islam e i raheliani, ma si è parlato un po' meno del suo rapporto con il buddhismo: lei ha scritto che considerava il buddhismo come una possibilità, mentre adesso il buddhismo le sembra inoperante, perché anche la mancanza di desiderio è triste.
R: Beh, intanto il buddismo intellettualmente non è minacciato, grazie alla celebre risposta di Buddha sui problemi metafisici, più o meno: non si era interessato ai problemi metafisici perché non erano interessanti. È una risposta assai insolente ma che salva... Dunque exit la questione metafisica. Devo riconoscere che non ho voglia che il desiderio si spenga in me, il che… non è molto buddhista...
D: Ho l’impressione che nel suo ultimo romanzo, e forse anche in La possibilità di un'isola, lei faccia meno resistenza al concetto di individuo.
R: Diciamo che è un concetto molto sopravvalutato: per dirla grossolanamente le persone sono molto più simili tra loro di quanto non si immaginino... è un concetto che va relativizzato. Gli uomini differiscono tra loro un po' più dei cani – per prendere degli animali che conosco bene – ma non molto di più, ecco. La mia è piuttosto un'incitazione a una valutazione oggettiva dell'individualità.
D: È noto che lei non ha grandi simpatie per la psicoanalisi, e data la sua formazione scientifica ci si potrebbe aspettare che lei fosse più interessato alla psicologia scientifica[2] e alle neuroscienze cognitive. Tuttavia ho l’impressione che per descrivere gli esseri umani lei faccia ricorso al suo sguardo riflessivo, come nella tradizione dei moralisti francesi. Come dice Chomsky: la letteratura insegnerà sempre più sull'animo umano di quanto non potrà fare la filosofia...
R: Be', lui si impegna un po' alla leggera, il “sempre” è discutibile, però sì, al momento attuale è quella [la posizione] che funziona meglio. Le neuroscienze fanno qualche progresso, ma che io sappia non c’è ancora un concetto chiaro di che cos’è la coscienza, il sapere è molto lacunoso. È vero d’altronde che la psicoanalisi è stata un tentativo di teorizzare a partire da niente, a partire da intuizioni vaghe, e quindi di introdurre dei concetti sfocati, l’inconscio, il super-Io, ecc., insomma: un tentativo di teorizzazione prematuro. E all’ora attuale siamo ancora PRIMA della possibilità di una teorizzazione su basi solide. Ma dire che sarà così “per sempre” è esagerato, comunque.
D: Da qualche parte lei ha detto che scrive con il desiderio di venire contraddetto...
R: Ho l'impressione di avere scritto certe cose forse con quello spirito, ma sicuramente non tutte...
D: Era a proposito della società contemporanea, per dire che quando lei la descrive così negativamente non è perché si compiaccia di quell’immagine, ma piuttosto con la speranza di venire contraddetto. Allora secondo me contraddirla vorrebbe dire scrivere ottimi romanzi che parlassero di individui e coppie felici, società equilibrate. Sul piano filosofico ci sarebbe davvero bisogno del buddhismo per cercare di contraddirla. Però mi sembra che il suo ultimo romanzo vada un po’ in questa direzione, perché Jasselin, (il personaggio di) Houellebecq e Jed non ha avuto “una vita malvagia”. Quindi – la domanda è questa: una vita e un’opera felici sono possibili?
MH: ...mmm... (ci pensa qualche istante). Be’ si può dir di sì, e in più per tre vie differenti: una, lavoro soddisfacente, pensione, coppia; l’altra, solitudine e lavoro puro; la terza un po’ di lavoro, cane, campagna... Quindi tre vie distinte che sembrano tutte e tre felici…
Per citare Schopenhauer, che è il pessimista per eccellenza, lui dice alla fine del suo diario: "in fondo non me la sono cavata così male". Non è l'estasi ma è un po' così.
EA: forse questo ha qualcosa a che fare col buddhismo, con Epicuro? Non è la
MH: sì sì... (lunga pausa) sì sì… No, Epicuro non è niente male...
EA: Forse il suo rapporto con i bambini si potrebbe comparare al suo rapporto con i figli...
MH: Conosco male la sua vita, ma il suo argomento contro la morte è il migliore?
EA: secondo me non funziona, e mi sembra rientrare bene in ciò che lei dice sulla filosofia occidentale, ossia che sarebbe un addestramento ...
MH: ma a rigore non è un argomento contro la morte, il fatto che non ci sia contatto reale...
D: quando rappresenta la morte di MH quando Jed vede lefotografie dei pezzi di cadavere, non è un po' come se lei cercasse di vedere la sua propria morte, ma come se ciò rimanesse radicalemtne impossibile? Io almeno ho avuto questa impressione...
R: [ci pensa un istante] No, non ha nulla a che vedere con la morte, ma piuttosto con il dolore. Quando si vede qualcuno fatto a pezzi la prima reazione che si ha è sentire male, non di avere paura, è un misto di scoramento e di sofferenza... Ma, passiamo all’arte, magari, che è anche una questione interessante?
EA: sì certo. Lei sembra ammirare le opere d'arte di Jed ma per nulla il mondo dell'arte contemporanea... riguardo alla questione della valutazione delle opere di Jed citando Wittg lei scrive che non ha alcun senso: c'è qui un elemento di critica al mondo mercantile dell'arte contemporanea?
MH: Non è nemmeno una critica, non ha proprio nessun senso, non dico strettamente nulla più di quello che ho scritto: non ha semplicemente senso, non bisogna cercarlo. Per esempio il prezzo di questo libro ha un senso, si può calcolare facilmente, si può fissare il prezzo di questo libro. Il prezzo di un’opera non ha nessun senso, è interamente legato al desiderio delle persone di possederla.
… Seguono domanda-risposta su musica contemporanea; sul successo di un artista...

domenica 20 ottobre 2013

La filosofia spiegata ai miei amici, 1: Epicuro

Epicuro era molto simpatico. Non sono tanti i filosofi simpatici, oppure sono simpatici in un senso strano, magari per certe battute come quella di Scheler beccato in un bordello dal suo rettore.
No, Epicuro era proprio una persona simpatica.
Della sua vita mi ha sempre colpito che pur non avendo lui figli (il sesso è un piacere eccesivo) gli piacessero molto i bambini. Da giovane era anche stato maestro (come Wittgenstein, che però sarà un maestro disastroso e nell'insegnamento elementare cercherà una via di fuga dalla filosofia: Epicuro invece da maestro diventò filosofo dopo essersi appassionato alla filosofia di Democrito).
Nella sua scuola-comunità ce n'erano tanti, di bambini figli dei suoi discepoli, e me lo immagino a intrattenerli simpaticamente come un nonno di tutti.

- Te lo ricordi quel vecchietto che ti insegnava le cose e ti dava delle noci buone?
- Sì papà, ma ero molto piccolo: chi era?
- Si chiamava Epicuro, era un gran filosofo, il nostro maestro di vita. Grazie a lui siamo felici.

Già perché la simpatia di Epicuro si basa anche sul suo messaggio filosofico, che ti riassumo nel modo più semplice: non avere paura, puoi essere felice.

(...)

lunedì 13 maggio 2013

Intervista a Houellebecq, 3


Devo riconoscere che non ho voglia che il desiderio si spenga in me, il che… non è molto buddhista... 
Michel Houellebecq

mercoledì 27 aprile 2011

Frammento da "Diario buddhista" (2005): Il karma collettivo e la paura di volare

Ieri sera è quasi precipitato un aereo canadese e lunedì devo prendere un aereo per Berlino. Non sarà male rifare il mio testamento, come sempre faccio prima di volare. Tuttavia non è questo che mi importa quanto piuttosto la questione della paura di morire. Credo o non credo nell’impermanenza? Credo o non credo di essere una parte del tutto (diversamente sarei un misero nulla)? Se ci credo davvero non avrò paura, se no vuol dire che la mia credenza è superficiale come la maggior parte delle mie credenze, e pertanto ciò che ho pensato di credere negli ultimi mesi era soltanto l’ennesima illusione.
Lunedì sera l’aereoplano si alzerà dal suolo e io sentirò la grossa vibrazione che scuote le viscere, penserò alla potenza del motore jet inventato dall’uomo e penserò al mio karma, se eventualmente contempli la possibilità della morte per esplosione aerea.

Ma mi viene in mente un problema filosofico che mi mette in difficoltà il concetto di karma. Quale karma ha un aeroplano in volo? quello del suo pilota o quello della somma dei suoi passeggeri? O quello del suo passeggero più virtuoso o di quello più malvagio? Perché se vi fosse un santo a bordo verrebbe da pensare che il suo karma proteggerebbe anche gli altri passeggeri mentre se vi fosse un efferato criminale potrebbe fottere tutti quanti per il suo merdoso alone di malvagità.
E se a bordo vi fossero sia un santo che un criminale, quale karma prevarrebbe? La difficoltà è data dall’unità temporanea del destino di più persone il cui destino è normalmente separato.
Credo che la soluzione più semplice sia ipotizzare una media tra i diversi karma individuali. Necessariamente deve trattarsi di una somma ponderata dei karma dei singoli passeggeri. Deve esserci una sorta di calcolabilità dei karma : se l’aeroplano precipita, questo accade perché complessivamente i karma dei passeggeri e dell’equipaggio lo permettono. Se per esempio il pilota impazzisce e vuole suicidarsi schiantandosi col suo apparecchio, non è indifferente che l’assistente di volo agisca o no, e questo dipende anche dal karma dell’assistente di volo. D’altra parte l’assistente di volo può trarre la sua energia per agire dalla vicinanza di qualche passeggero particolarmente santo.

Il karma è la legge morale cui sono soggette le azioni, che per i buddhisti sono anche mentali. Bisogna dunque immaginarlo come una sorta di energia potenziale (tele)psicofisica.

***

È andata. Sono sopravvissuto al volo. Mentre l’apparecchio decollava, io leggevo le strofe del Buddhacarita a mo’ di mantra :
...
Questo mi ha dato molto sollievo e ho capito che non c’era nulla da temere. Grazie, Buddha.

venerdì 15 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 2: l'allargamento del campo visivo

Ho l'impressione che praticare la presenza mentale sia come diventare l'homunculus del mio corpo, o meglio ancora sedersi nella posizione di Actarus al centro della testa di Goldrake. Se cammino il mio corpo avanza a grandi passi, ho un campo visivo grandissimo, io sono piccolo all'interno della mia testa.

***

Esco per strada, passeggio praticando la presenza mentale: il mio campo visivo si è allargato, guardo dritto di fronte a me vedo tutta la via Garibaldi in prospettiva, le persone scorrono lungo l'asse prospettico, avvicinandosi o allontanandosi. Cammino con la testa alta.

***

Al pomeriggio vado a una conferenza sull'acqua: oltre a Ugo ci sono due giuristi irritanti, antireferendari, mi eccito subito, tifo per Ugo, godo quando strappa gli applausi della platea folta di ragazzi. E mi domando come si fa a fare presenza mentale durante una conferenza che ti appassiona... Ma imparerò anche questo.

***

Infine, al parco con bimbi e amici è impossibile concentrarsi: mentre Agostino si arrampica sullo scivolo è difficile non finalizzare i movimenti esclusivamente alla sua protezione. Non ci provo nemmeno. Anche se mi sento deluso per il pomeriggio senza presenza mentale, non ho nessuna fretta. Non devo andare da nessuna parte

giovedì 14 aprile 2011

Diario della presenza mentale, 1

Ieri mi è tornata in mente la possibilità della presenza mentale. Non ci pensavo da molto tempo, e anche quando ci avevo pensato non mi era venuto in mente di ricominciare a praticarla. Ieri invece ho capito che potevo ricominciare. E ho ricominciato. Con calma. Senza pretendere. Senza sperare. Senza volere.

***

Ho solo ricominciato a guardare la cose dal fondo della mia testa, devo dire così perché l'impressione è quella. Poi spiegherò meglio, farò un resoconto quasi quotidiano, anche minimo, dei miei progressi. Un diario della presenza mentale.

***

Se dovessi quantificare, direi che attualmente sono all'1% della mia capacità di presenza mentale, ma intanto è un inizio.
Effetto immediato: rallento le mie azioni, rinuncio a talune che mi vengono in mente solo come divertissement dalla noia dell'istante attuale.

(Primo risultato: sto di meno su Facebook.)

mercoledì 13 aprile 2011

Frammenti sparsi da "Diario buddhista" (2005) sulla presenza mentale

Io tendo alla purezza dell’illuminazione per staccarmi dal mondo e da me stesso. Ma come dicevo sono ancora lontanissimo dalla purezza della concentrazione mentale. Ora per esempio scrivo, e se scrivi non ti concentri mentalmente. Agli occidentali scrivere sembra una forma di concentrazione. Senza dubbio è meglio che fantasticare, però è una concentrazione molto decentrata, non ha nulla a che fare con la presenza mentale indotta dal respirare profondamente concentrando il pensiero sui cinque aggregati di cui siamo fatti : corpo percezioni sensazioni formazioni mentali e coscienza.
Tra l’altro mentre scrivo sto anche ascoltando a tutta palla Here come the warm jets di Brian Eno. Adesso so che non ho più bisogno dell’alcol per sentire l’emozione della musica o della scrittura. Non ho più bisogno di altro che del mio proprio respiro profondo e interiore, del mio sguardo concentrato sulle cose con cui sono interrelato, in fondo io stesso sono quelle cose.
Ora so che tutto è impermanente e che la natura di ogni essere è il vuoto del nirvana. Vuoto è questo attimo, vuoto è il rock di Brian Eno, vuoto sono io. E voglio esser vuoto.

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L’avevo cercata molte volte durante l’estate, ma la presenza mentale si è fatta avanti solo oggi mentre mangiavo il gelato valsoia senza latte. Avevo appena letto qualche pagina del Dalai Lama e ho subito ritrovato quell’ambiente mentale favorevole alla calma necessaria a concentrarsi.
Uno potrebbe dire che è la concentrazione che porta la calma, ma per me funziona così, che se non sono già calmo non riesco a concentrarmi. Del resto anche per i tibetani il principio primo è la Sila, ossia il retto comportamento consistente nell’abbandonare le dieci azioni non virtuose. Raggiunta la Sila si può iniziare con la pratica buddhista vera e propria.
Qui al mare un fattore contrario alla presenza mentale è mia madre, devo pur parlarle qualche volta e poi l’interazione richiede sempre entrare in un ruolo che per me è regressivo, non riesco a stare calmo di fronte al suo nervosismo. Mia madre è una molto aggressiva, da giovane mi sembra di aver subito parecchio da lei e adesso fatico ad assorbire ancora la sua negatività. Diciamo che lei mi sconcentra e mi impedisce la presenza mentale.
Venendo qui sapevo che era un rischio, di solito litighiamo. Da quando sono diventato nonviolento è la prima vacanza che passiamo insieme: non sono riuscito a concentrarmi mentalmente, ma almeno non abbiamo nemmeno accennato a litigare. Buono!

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Oggi finalmente sono andato a fare zazen e mi è piaciuto molto. Quando ne sono uscito mi sentivo rilassatissimo, davvero mi pareva di non appartenere al mondo irrequieto delle persone che incontravo alla Feltrinelli (mi sono precipitato a comprare lo Shobogenzo).
All’inizio una monaca ha spiegato a me e a un altro novizio come avremmo dovuto praticare zazen, seduti sul cuscino zafu con le gambe incrociate, meglio se a loto ma basta il mezzo loto, guardando il muro bianco senza afferrare nessun punto e senza chiudere gli occhi, le mani che si tengono insieme con i pollici che si toccano come quelle del Buddha, la posizione della perfetta presenza mentale. Questo mi ha rincuorato : sono sempre buddhisti e alla fine si è anche recitato un sutra in giapponese, mentre la monaca bruciava dell’incenso davanti a una bella statuina dorata del Buddha.
Poi ci hanno offerto una zuppa di riso buonissima, quindi un the che bisognava in parte versare in una bacinella come offerta (a Buddha?). Questo mi ha stupito un po’.
A tavola ogni fase aveva il suo sutra di accompagnamento, che per me erano solo belle sillabe in giapponese ma mi piacevano molto, erano ben ritmati e un po’ cupi e metallici come si vede nei film dove ci sono monaci zen. Leggendo la traduzione ho visto che sono normali sutra buddhisti:

Shiguseigan
shu jo muhen seigan do   
Bonno mujin seigan do ()
Homon muryo seigan gaku ()
Butsu do mujo seigan jo ().

I quattro voti
Per numerosi che siano gli esseri, io faccio voto di salvarli tutti.
Per numerose che siano le passioni, io faccio voto di vincerle tutte.
Per numerosi che siano i dharma, io faccio voto di acquisirli tutti.
Per perfetta che sia la Via del Buddha, io faccio voto di realizzarla.

Comunque mi è subito venuta voglia di imparare il giapponese, devo dirlo alla mia amica giapponese. 
Alla fine mi sono associato al dojo e ho comprato un vecchio numero di Dharma, la rivista che me li ha fatti scoprire : avevo visto che c’era un dossier su Heidegger e il buddhismo, un argomento che ho già iniziato a studiare e che mi interessa molto. 
Prima di andare lì ho fatto però la cazzata di prendere un caffè e durante zazen quando sentivo il mio stomaco gorgogliare mi maledicevo, poi però mi ricordavo che bisogna accogliere tutto quello che avviene, e che «zazen abbraccia tutto». 
Ci tornerò ogni sabato e mi darà forza e tranquilllità. Altro che gruppo psicanalitico e sentimenti aggressivi! 

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Sto continuando a leggere Ikeda, il capo della Soka Gakkai, ma mi sembra proprio scemo. Si dilunga a spiegare che il Sutra del Loto nella sua “essenza distillata” si riduce al Nam Myoho Renge Kyo, mentre la versione “estesa” constava di 28 capitoli. Va bene lo spirito zen, ma qui si sconfina nella magia di un abracadabra. 
Ho cercato di convincere L. a venire a zazen e mollare la Soka Gakkai, ma lei ha detto che non li molla «neanche se la uccidono». Beh, meglio quello di niente, l’ho già detto, però bisogna che ci vada anch’io a suscitargli un po’ di dubbi...





giovedì 3 marzo 2011

Frammento da "Diario buddhista": Il giorno che mio padre è morto

Il giorno che mio padre è morto ho subito pensato che la sua anima era custodita nel mio corpo, che l’avevo in qualche modo ereditata. Avevo già pensato la stessa cosa quand’era morto Gilles Deleuze, ma allora mi ero detto che doveva trattarsi soltanto di un frammento e non dell’anima intera. All’epoca non mi ero reso conto che queste fantasie significavano la naturalezza dell’idea buddhista della reincarnazione. Il succo dell’insegnamento pratico di Buddha, però, non è la reincarnazione bensì la presenza mentale. Per noi occidentali si tratta di una cosa difficile perché pensiamo l’attenzione come funzionale allo svolgimento di compiti. Per il buddhismo invece la presenza mentale libera dal dolore e consente al bodisatthva, il santo, di raggiungere il nirvana. Del resto per la dottrina zen il nirvana è sempre lì e si tratta solo di vederlo.

Ho voluto che mio padre fosse cremato, mi sembrava più naturale e credo che lui volesse così. Quando il vaso pieno di ceneri di mio padre ci è stato presentato, la zia si è avvicinata molto triste, ha guardato le ceneri e poi le ha toccate con due dita. Io non avrei potuto farlo, mi sarebbe sembrato un residuo di attaccamento a un corpo ormai annullato.

In un film buddhista alla fine il maestro muore e il suo discepolo deve cremarlo, come gli è stato ordinato dal maestro prima di morire. L’allievo prepara la pira poi arde il corpo del maestro, alla fine non restano che ceneri ma lui cerca con le mani e in mezzo a esse trova pezzi di ossa del cranio : prima le tiene tra le dita quasi incredulo, poi le tritura tutte con una pietra affinché le ceneri risultino omogenee. Quando ha ottenuto una polvere uguale se ne va in giro per il bosco e sparge le ceneri qua e là (ora si capisce che ha capito il senso vuoto del koan: «dove va il maestro del mio essere?» Non va da nessuna parte, perché pensare che il maestro incenerito ora sia nel bosco significherebbe non avere capito l’essenza di vuoto dei fenomeni.)

Avrei voluto sparpagliare le ceneri di mio padre in un bosco. Così facendo forse le avrei anche toccate, almeno un po’. Ma toccarle nell’urna come la zia, mi sembrava una cosa da non farsi.

È stata la morte di mio padre che mi ha aperto gli occhi sull’impermanenza: d’improvviso ho capito che chiunque può scomparire da un istante all’altro e senza la benché minima avvisaglia. E quando dico "chiunque" e "da un istante all’altro" intendo proprio chiunque e da un istante all’altro senza eccezione alcuna. Non spaventatevi però, non è una tragedia, anche se siamo attaccati alla nostra vita. È questo l’errore: essere attaccati a ciò che è impermanente. Mi rendo conto che può sembrare il discorso di un prete, ma è molto diverso, perché i cristiani credono nel regno di Dio dove tutti i buoni vivono in eterno. E in fin dei conti anche i malvagi vivono in eterno: perché l’idea di Don Giovanni all’inferno non ci terrorizza più di tanto? Non crediamo più all’inferno cristiano e forse percepiamo indistintamente che da cristiani seppur dannati si vive ancora dopo la morte. E se si vive dopo la morte anche in mezzo ai tormenti, dato che la paura di noi occidentali è proprio quella di scomparire nel nulla, chi se ne frega dei tormenti se almeno si continua a esistere? Le pene dell'inferno sono meglio del nulla eterno: un ragionamento inconscio di questo genere deve svolgersi nelle nostre menti occidentali impaurite e violente.

L’idea dell’annullamento del sé fisico e mentale è intuitiva, la paura della morte è fatta di paura che tutto di noi diventi nulla. Ora, proviamo a rovesciare il punto di vista: il buddhismo non nega questo annullamento, in un certo senso dichiara che esso è già sempre avvenuto: sub specie aeternitatis noi siamo già morti, perché di sicuro moriremo tra breve (è un tempo infinitamente breve quello che ci è dato). Avremo vissuto un istante, brevissimo se paragonato con la vita eterna del tutto. Ma questo non deve impaurire, perché in realtà non siamo separati dal tutto. Non lo siamo mai stati, si tratta solo di un’illusione dovuta all’ignoranza. Pensiamo di esser vivi perché ci sentiamo separati dagli altri ma la vera vita non ha nulla a che vedere con questo sogno di separatezza (principium individuationis).

D’altra parte il buddhismo insiste sulla sofferenza della vita e del morire. Come superarla? Vivendo in presenza mentale il tempo che ci è dato di vivere (credo che il riuscirci o meno dipenda dal nostro karma).

Come dice Wittgenstein: «Se, per eternità, si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine come il nostro campo visivo è senza limiti» (Tractatus, 6.4311).

martedì 11 maggio 2010

Arrogante scrittore buddhista

Uno si immagina tutto solo nel suo mondo piccolo, a scrivere, per differenziarsi, da altri soli nel loro mondo piccolo.
Io no. So di inter-essere.
Io ho capito il Buddha

Il compleanno di mio figlio

Oggi è il primo compleanno di mio figlio. Non mi sono ancora abituato, ad avere un figlio, alle volte ci penso e mi sembra incredibile. Io, ho un figlio? Io che fino a qualche anno fa non pensavo di poter mai raggiungere una forma di vita all'incirca "normale"?
Che cosa è successo nel mezzo? Ho fatto la mia psicoterapia col Borgogno, poi ho incontrato Viviana, ci siamo innamorati e fidanzati, poi lei mi ha convinto ad avere Agostino.
Come ha fatto a convincermi, considerato che sono abbastanza sicuro che vivere sia un male inutile?
Di fatto, il buddhismo mi è servito nel senso contrario a quello che mi aspettavo: a un certo punto – tentando di trovare un argomento che mi autorizzasse a diventare padre – ho pensato che mio figlio avrebbe potuto un giorno migliorare il karma collettivo più di quanto non avrei potuto fare io senza di lui. Questo non è affatto improbabile.
In un certo senso ho scommesso sul mio fallimento e sul suo successo. Avrei potuto fare il contrario, puntare su me stesso e temere che un figlio mi desse dispiaceri, ma ero già convinto di non poter più diventare un santo buddhista (a differenza di qualche anno fa).
Rimane la possibilità che io abbia compiuto un doppio errore... ossia che né io né mio figlio miglioreremo di un’unghia il karma collettivo. Ma mi risulta difficile crederlo, semplicemente perché mi accade spesso di vedere negli altri una specie di gratitudine nei miei confronti (per esempio nei miei allievi). E se io posso dare qualcosa agli altri, io che ho le forze limitatissime e sono l’Accidioso, allora Agostino che invece sarà forte e robusto e non dovrà rimediare alle malefatte dei suoi genitori, Agostino potrà fare moltissimo per il mondo futuro.
Ci voglio credere.

Buon compleanno scimmiottino.