In seguito alla lettura dell'articolo di Annalisa Camilli (Internazionale online, 4/4/2025) mi sono trovato a litigare sull'affermazione che per sconfiggere i femminicidi bisogna innanzitutto "cambiare linguaggio".
Fermo restando che la trattazione mediatica dei femminicidi è superficiale e informata da enormi pregiudizi, l'idea di cambiare la società cambiando il linguaggio è una pia speranza.
Si tratta di un mito della sinistra contemporanea ed è fondato sulla sopravvalutazione del linguaggio inteso come luogo privilegiato dell'azione sociale. Nessun dato empirico, scientifico o storico giustifica l'ipotesi di poter cambiare la società attraverso il linguaggio (i cambiamenti linguistici sono avvenuti dopo le rivoluzioni, non prima).
Se anche fosse giusta l'ipotesi "Sapir-Whorf" ("chi parla male pensa male", nel compendio di Nanni Moretti), da tempo screditata nonostante qualche tentativo di recupero accademico, resterebbe comunque da dimostrare: 1) che si possa volontaristicamente cambiare il linguaggio di una parte rilevante della società (l'élite intellettuale); 2) che una volta cambiato il linguaggio di una parte della società cambierebbe anche il modo di pensare della (maggior parte della) società; 3) che questo avrebbe l'effetto concreto di ridurre la violenza femminicida.
Sarebbe certo auspicabile ma temo che si tratti di pura utopia.
Cordiali saluti
EA
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