E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

mercoledì 15 novembre 2017

De corpore (Roman nouveau, 34)

Entrai nella stanzetta della terapia intensiva e vidi mio padre. Era giallo d’ittero.
Sembrava contento di vedermi, però faticava a parlare come se avesse la bocca impastata. Tossiva. Le sue labbra erano ricoperte da uno strato di pellicine sanguinolente e lui non smetteva, tossendo, di mettersi le dita in bocca per estrarne grumi di materia a me ignota. Io pensavo: ecco i miceti, che lo ammazzeranno entro due o tre giorni, ma ovviamente mi sbagliavo. I miceti sono microscopici funghi e anche se avrei voluto vederli, i nemici mortali, gli assassini di mio padre, essi erano invisibili.
Stando accanto al capezzale di mio padre cercavo di consolarlo, di rassicurarlo: devi essere paziente, gli dicevo, devi stare tranquillo e superare la crisi che hai ora.
“E credi che non lo sappia?”, borbottò lui, facendomi sentire come l’ombra di un rimprovero. Sì, percepii un implicito rimprovero che avrebbe potuto essere espresso così: “sono debole ma non rincoglionito, so che sto morendo perché non sono riuscito a mantenermi in vita, non devi provare a consolarmi. Non mentire, non fare l’ipocrita come tuo solito”.
Mio padre era un lamentoso risentito, e mi aveva sempre rimproverato e rinfacciato tutto quanto potesse, a me che ero il suo unico figlio.
Scosse il capo guardandomi e mi disse:

CHE VITA DEL CAVOLO.

Mi sentii annichilire. Pensavo ormai anch’io che fosse proprio del cavolo la sua vita, con la morte che arrivava nel momento più sbagliato, esattamente all’inizio della pensione, quando io, suo unico figlio egoista e prepotente ma premuroso e affettuoso, avevo deciso di organizzargli la prossima vita in vista della serenità, con viaggi per noi due, insieme per il mondo.
A Mosca, tanto per iniziare, e poi in Europa e negli Stati Uniti, per fargli realizzare il suo sogno americanista di giovane torinese degli anni ‘50.
Ma che cazzo di vita pensava fosse la sua? Immaginava forse che gli fossero mai state possibili vite trionfali, ricolme di gioie che lui neanche aveva potuto sfiorare? È vero, aveva ragione, queste vite esistono, ma era stato lui a non voler fuoriuscire dalla sua vita-del-cavolo. Mio padre doveva essersi voluto così com’era, il che in qualche modo lo assolve dalla colpa della sua stupida morte.
Questo almeno me lo sono detto a posteriori.
Mio padre desiderava sicuramente che bere non rappresentasse per davvero il modo a lui proprio di ammazzarsi, pur continuando a bere quanto più possibile. Forse desiderava morire e non dover morire. Forse la sua mente si era innalzata al di sopra del principio di non contraddizione. Una volta andata via mia madre, per lui non erano pensabili altre vite più felici. Di sicuro non credeva di poter più cambiare vita alla sua età. In effetti nessuno immaginava che potesse farlo, nonostante avesse soltanto cinquantacinque anni.
Quella frase della vita del cavolo mi ha fatto molto male, mi è rimasta incuneata nella memoria. Mi ha causato molta inutile pietà e mi sono detto che avrei dovuto obiettargli così: “papà, la tua vita non è del cavolo. Per niente. Io sono qui, lo vedi, sono effetto della tua vita normale, io ti voglio bene e questo mi pare sufficiente a dimostrare che hai torto e sei uno stupido che non ha mai capito niente. Perché non capisci niente e dici così?”
“Ti voglio bene”, invece, lo sussurrai all’orecchio del suo cadavere, quand’era chiaramente tardi ma avevo almeno l’impressione di fare ciò che dovevo, di sistemarmi la coscienza, come fossi alla televisione o mi guardassero dal panopticon. Come se mi guardasse insomma il grande Altro, che poi non esiste.
Davanti a mio padre invece non volevo piangergli in faccia, non so perché: che male ci sarebbe stato se tanto poi doveva morire? Avrebbe forse potuto dargli un po’ di empatico sollievo, magari si sarebbe messo a piangere pure lui, forse avrebbe desiderato farlo. E avrebbe ben potuto farlo, sarebbe stato suo estremo diritto, piangere un po’. Invece neanche quello.
Non pianse, e tutto quel che aggiunse al giudizio sulla sua vita del cavolo fu la constatazione stupefatta che non si era mai sentito così male. Lui che si era sempre vantato di avere avuto una salute di ferro, anche se già da bambino sospettavo spesso che il suo corpo sovrabbondante non fosse più tanto sano. Qualche anno prima della sua morte, papà difendeva ancora la sua forma fisica con promesse e progetti chimerici: “riprenderò a sciare” o, simmetricamente, “riprenderò a fumare dopo i sessant’anni, se ci arrivo”.
Ma il suo organismo si era sciupato rapidamente (cosa sulla quale mia madre ed io non mancavamo di fare frequenti commenti, più denigratori che preoccupati).
Papà era diventato oltremodo grasso e flaccido, aveva perso progressivamente la capacità di fare sforzi, era diventato malsicuro sulle gambe. Si compativa persino da sé, più o meno esplicitamente. Poiché lui stava sempre peggio, aveva infine smesso di insultare me per la mia forma fisica, come faceva non sporadicamente, specie quand’ero adolescente, dicendomi che non ero certo robusto come lui.

Io non ero robusto, ok, ma lui è morto e io sono ancora vivo.