E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

giovedì 25 agosto 2011

Ritratto di Sergio Liberovici, di Giulio Castagnoli (Magister meus). Note di sala per il concerto dell'11 settembre, a Torino (Settembremusica)


C'è un aggettivo con cui Sergio Liberovici amava definirsi: irregolare. Tali furono, infatti, i suoi studi musicali nei tragici anni a cavallo della seconda guerra mondiale in cui ben poche erano le certezze. Nato nel 1930 a Torino, dove il padre era giunto dalla Moldavia, prende giovanissimo lezioni di violino e pianoforte alla scuola ebraica: suoi insegnanti sono a partire dal ’38 alcuni dei migliori strumentisti italiani espulsi da Conservatori ed orchestre a causa delle leggi razziali. A soli quattordici anni impugna il fucile nella lotta partigiana tra le colline e le risaie attorno a Casale Monferrato, dove si rifugia per scappare alla deportazione e alla cui comunità israelitica è legata la madre Cecilia Treves. Nel dopoguerra torna a Torino come pianista della scuola di danza di Susanna Egri, mentre Iginio Fuga gli impartisce lezioni d'armonia, e Sandro Fuga di pianoforte. Gli studi durano poco per vari motivi, non ultimo il frenetico ritmo di lavoro di Sergio, che preferisce ai libri la frequentazione diretta della musica: per la Egri compone nel 1954 il balletto Chagalliana, portato in tournée in tutt’Europa. Due anni dopo, con Italo Calvino che gli scrive il suo primo libretto d’opera ispirato ad un episodio di Marcovaldo, compone l’atto unico La panchina per il Teatro delle Novità di Bergamo di Bindo Missiroli. Nello stesso 1956, e sempre con Calvino, scrive il balletto Lo spaventapasseri, mentre Massimo Mila gli chiede di fargli da vice sulle pagine dell’Unità. Come capita a tutti i giovani del mestiere, gli vengono affidati i concerti minori, con pubblico rado e mediocri esecuzioni, per cui gli sorge spontanea la domanda per chi e per che cosa comporre.

Liberovici vi trova risposta ancora una volta nel fare, e muta leggermente rotta. Seguendo il suo istinto, che da sempre lo porta verso il palcoscenico (Sergio non capiva come la gente potesse amare il cinema, che per lui significava stare fermi davanti ad un muro bianco!), con altri intellettuali e uomini di teatro posa la prima pietra del Teatro Stabile di Torino. Inizia subito a comporre per la scena: sono oltre cento le sue pièces scritte per i principali registi in più di trent’anni. Nel 1957 fonda con lo stesso gruppo di amici (fra gli altri, oltre a Calvino, Franco Antonicelli, Emilio Jona, Michele Straniero) il Cantacronache per promuovere la canzone d’autore, in contrasto col dilagare della musica leggera: tra le 105 canzoni che Liberovici compose nel decennio successivo, forse le più celebri restano quelle su testo di Calvino: Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio?, Canzone triste e Il padrone del mondo.

Negli stessi anni Liberovici documenta con registrazioni il canto popolare, di protesta, contadino e operaio, in spedizioni sull’altopiano di Asiago, in Polesine, Monferrato, Val di Cogne, Spagna, nell’Algeria in guerra. Il frutto delle ricerche è pubblicato su dischi e libri, uno dei quali è tolto dal commercio a causa della censura. Spesso i materiali raccolti sono riutilizzati creativamente, a volte come semplici spunti per musiche di scena, altre volte come tessere di ampi mosaici che giungono a costituire veri e propri lavori di teatro musicale. È questo il caso, ad esempio, dell’Ingiustizia assoluta, cantata drammatica per attori, gruppo folk e banda musicale scritto nel ’73 per il Teatro Regionale Toscano, oppure, nel 1982, di Bandiere che si presenta oggi a conclusione della giornata dedicatagli a vent’anni dalla scomparsa.

In questi grandi affreschi si trova la cifra più significativa della lezione artistica di Sergio Liberovici: la musica è un fatto collettivo. Si fa, cioè, sempre musica insieme: tale è il nome scelto per la cooperativa fondata da Liberovici nel 1983 con molti giovani (allora) musicisti torinesi, ma tale è anche il titolo del suo libro di Educazione Musicale per la scuola media pubblicato per la Nuova Italia nel ’77, ricchissimo di spunti ma ben poco preso in considerazione da una scuola refrattaria alla ricerca in campo didattico.

Tutti, quando sono insieme, fanno - anche inconsapevolmente - musica. Outis Topos - un lavoro per la radio fatto con Andrea Camilleri e premiato al XXV Prix Italia del 1973 (Liberovici scrisse la musica di molte produzioni RAI, fra cui la celebre serie televisiva del Marcovaldo) – è la dimostrazione che questo modo di vedere le cose può portare a vere e proprie creazioni artistiche. Per la realizzazione di questa radio-opera sono utilizzate, infatti, solo registrazioni di episodi di vita cittadina, slogan di cortei e manifestazioni, canti popolari di protesta e di svago. Il risultato è un lavoro di musica concreta (a mo’ di collage) sul quale il compositore è intervenuto riorganizzando il materiale documentario, integrandolo e rielaborandolo in vario modo.

L’altro punto di partenza del comporre di Liberovici è che la musica è da sempre dentro tutti noi, sin da quando siamo bambini, addirittura in fasce. La ricerca di una musicalità primigenia è la molla che spinge Liberovici a occuparsi di infanzia, non senza una punta di ironia nei confronti di chi, in seguito al suo primo grave malore sul finire degli anni ’70 (che lo costringe ad un lungo periodo di degenza ospedaliera), lo allontana dall’incarico di direttore del Teatro Ragazzi dello Stabile torinese da lui fondato nel 1975. In poco più di un decennio di intensa attività a diretto contatto con i bambini della scuola materna ed elementare egli sviluppa così un proprio metodo di lavoro “per bambini dagli 0 ai 13 anni” che trova fondamento proprio nel teatro musicale, inteso come un’estensione del gioco. Negli stessi anni il mondo scolastico nazionale si trova d’accordo nell’esigenza di rinnovamento dei programmi scolastici (pubblicati poi nel 1985), e non può rimanere indifferente al lavoro di Liberovici. Sostenuto dalla Città di Torino, egli fonda così nei primi anni ’80 un Laboratorio di Didattica Musicale per l’Infanzia, tuttora in attività. Subito dopo, a metà degli anni '80, si fa promotore dell’Opera dei bambini, insieme a un gruppo di giovani compositori che dal suo fare traggono idee e suggestioni. Nascono così molti spettacoli ed operine da camera e da scuola (fra tutte: Il grande chiasso del 1982-83) anche in collaborazione con importanti pittori (Francesco Casorati, Mauro Chessa, Ugo Nespolo) che ne curano materiali scenici e costumi, e si apre una scuola di musica, che diventa subito un laboratorio di nuove metodologie didattiche. Il gruppo casalese L’Opera dei Ragazzi vuole esserne un’ideale prosecuzione: le operine scolastiche che il gruppo esegue oggi (insieme ad alcune canzoni del Cantacronache) sono tratte dai numerosi fascicoli della “Verità da due soldi” pubblicati dal maestro nei primi anni Ottanta per la nostra città.

Se la musica è già presente nel bambino, se chiunque può far musica, allora studio e dedizione sono inutili? La risposta è del tutto negativa: non ci fu attimo della sua esistenza in cui Sergio non pensò alla vita che in termini musicali. Anche se la sua Weltanschaung fu tutt’altro che di tipo tradizionalmente religioso, si può dire senza forzatura che egli fece propria la visione del mondo illustrata dai Salmi davidici: tutta la vita è un canto, dal sorgere del sole sino al tramonto. Per dirla in modo forse a lui più consono, l’uomo ha il dono di un’intelligenza musicale che gli dà gioia e nello stesso tempo gli consente di sviluppare al meglio l’innata attitudine di animale politico. La musica, cioè, costituisce il più formidabile modo di espressione della natura umana e il vero legante naturale del vivere sociale.

Sorge spontanea, a questo punto, la domanda su quanto nella società italiana d’oggi si stia facendo per fare della musica un elemento portante in campo educativo e sociale. Si lascia qui al lettore la risposta.

Bandiere fu scritto espressamente per le celebrazioni del centenario della fondazione del Partito Operaio Italiano, tra il 27 e il 30 maggio 1982. I temi di dibattito possono essere facilmente immaginati a partire dal titolo stesso del convegno: “La cultura operaia nella società industrializzata”. A tavole rotonde su “Classe operaia: utilità e limiti di un concetto”, oppure “La cultura del lavoro”, si succedono relazioni di ricercatori e professori universitari. Il lavoro di Liberovici chiude la giornata del 29 maggio, eseguito dall’allora Coro della RAI di Torino nell’aula del parlamento di Palazzo Carignano alle ore 18. Per questo l’autore vi aggiunge il sottotitolo “relazione da concerto su frammenti di canti, documenti, testimonianze popolari”.

Nel corso del brano si presenta la storia di una bandiera attraverso documenti registrati. Essa è confezionata ed arricchita di simboli a “punto erba”, e viene poi inaugurata con una cerimonia; in seguito la si porta in battaglia e nella successiva riscossa. Se ne piange infine la distruzione, prima di levare un canto per una nuova bandiera, ancora da tessere.

Attraverso questo semplice filo narrativo si dipanano canti e testimonianze in vari dialetti riprodotti nel corso dell’esecuzione su nastro magnetico. Su questo primo livello di tipo documentaristico si libera l’invenzione del compositore, che riverbera il canto popolare nelle voci della solista e del coro, oltre che nell’insieme strumentale (tromba, timpani e pianoforte). Inoltre i due attori leggono tradotti in lingua i testi registrati, spesso scandendoli con ritmo musicale. Il gioco compositivo fra questi strati genera - con raffinata sapienza nell’uso di mezzi tanto semplici - echi e risonanze che elevano musica e testo in una zona aurorale dell’espressività e regalano all’intero lavoro un’aura epica. La bandiera così da puro elemento simbolico - come siamo abituati a considerarla - si muta in personaggio mitico: così, grazie alla musica, la sua storia perde quei connotati contingenti che potrebbero far storcere il naso a qualche ascoltatore contemporaneo, e si trasferisce in una dimensione atemporale che appartiene a tutti.

Gli anni ’80 impegnano Liberovici anche nella realizzazione del suo ultimo lavoro, l’opera Maelzel, o delle macchinazioni. Il compositore va alla ricerca di fonti sull’inventore del metronomo in musei e biblioteche europee, e fornisce all'amico librettista Emilio Jona molto materiale. Nasce così un’opera in tre atti per soli, coro, orchestra e strumenti elettronici, pubblicata da Casa Ricordi, la cui orchestrazione è stata completata da Luciano Berio in collaborazione con chi scrive queste note e Giuseppe Gavazza. L’opera, commissionata dal Teatro Regio di Torino, a causa di strane alchimie di cui è ricca la storia della musica non è stata poi messa in scena. L’ultimo lavoro che l’autore ebbe il piacere di veder rappresentato è De origine musices sul famoso passo lucreziano, in una nuova versione italiana curata per l'occasione da Edoardo Sanguineti. La cantata fu eseguita dal Coro e dall’Orchestra della Scuola di Musica di Fiesole nel Settembre Musica torinese del 1990.

Riferimento costante della vita artistica di Sergio Liberovici sono stati compositori come Hans Eisler, Kurt Weil, e Paul Dessau, che amavano il teatro e non disdegnavano di lavorare con i ragazzi, Béla Bártok, i classici teatrali (Shakespeare e Brecht), il canto popolare (“dietro il quale si intravede sempre l'uomo”). Forse Chagall, il cui mondo d’ebreo russo Sergio portava nell'anima e negli occhi chiari.

Diario online, 1

25 agosto

Questa mattina, appena sveglio ma ancora nel letto, ho immaginato di parlare col mio vecchio psicoanalista. La prima volta che l'ho fatto in vita mia andavo ancora da lui, ed era il giorno della scelta della cattedra di ruolo: erano le otto del mattino e all'ultimo momento si erano liberati alcuni licei del centro città che fino al giorno prima risultavano indisponibili. Ma io avevo già fatto le mie indagini e le mie riflessioni e avevo scelto un liceo internazionale che sembrava molto bello, mentre scegliere all'ultimo momento un'altra scuola solo per la sua renommée non mi pareva una bella idea. Nessuno rispondeva al telefono, né mia madre, né il mio fidato collega Enrico, né la mia fidanzata, perciò mi immaginai che cosa avrebbe detto il Borgogno: “se ha preso informazioni su quella scuola e le sembra buona, perché adesso all'ultimo vuole cambiare idea?”. Così feci una scelta di cui non mi pentii mai.
Anche questa mattina mi ha fatto bene immaginare di parlare col mio ex-psicoanalista. Mi sono fatto fare le domande che io stesso non mi facevo più da molto tempo: che cosa c'è che non va, di che cosa hai paura, che cosa speri e via dicendo.
È strano che uno non si fermi mai a farsi queste domande se non in momenti particolari della sua esistenza: se l'esistenza è piena di cose da fare (“cose da fare” per Heidegger vuol dire avere un'esistenza inautentica...) uno pensa sempre di sapere esattamente che cosa vuole e che cosa non vuole, e quando glielo si chiede risponde senza esitare. È il meccanismo psicologico che agli occhi di buona parte degli esseri umani rende inutile la filosofia o la psicologia, quella self-assurance che ci manda avanti anche se in maniera stupida e talvolta autodistruttiva.

Questo ringrazio dell'avere fatto una psicoterapia psicoanalitica per alcuni anni: ho interiorizzato la saggezza (o il semplice buon senso) del mio analista (che sostituiva semplicemente quella di un bravo genitore), e all'occorrenza posso immaginarmi come andrebbe un dialogo con lui e che cosa mi direbbe o mi indurrebbe a dover ammettere, facendomi rinunciare alle mie resistenze narcisistiche.