Pubblicato su Vogue.it
Con la sua frase paradossale, Arthur Rimbaud non pensava certo a quello speciale alter-ego che, dopo Plauto, chiamiamo sosia. Eppure, nella società delle immagini, i sosia manifestano la non-coincidenza dell’io con se stesso.
Il sosia è un io vuoto, privo dell’essenza che costituisce l’individuo di cui il sosia è icona parassitaria. Ma in un mondo come il nostro in cui l’essenza non conta nulla e l’apparenza fenomenica è tutto, la falsità dell’imitatore rispetto alla verità dell’imitato assume forse un significato inedito.
Manifestando l’indefinita riproducibilità dell’immagine corporea e rendendola autonoma dal suo legittimo proprietario, il sosia ci ricorda che nessun individuo è realmente unico.
L’odierna società totalitaria dello Spettacolo ha creato le condizioni per l’esistenza di grottesche moltitudini di sosia. La schiera gerarchica aspira a imitare il gerarca: le truppe militari somigliano al Capo come i fan tendono a somigliare alla propria celebrity, rockstar o uomo politico. La moda dei sosia delle celebrità rende manifesta la virtuale scambiabilità delle persone mercificate nella loro immagine. L’individuo non ha più sostanza. Ego = Alter.
Perciò il sosia più inquietante è quello della persona amata (si vedano Solaris di Tarkovsky e The last Tycoon di Kazan). Il sosia della persona amata, mettendone in scena l’impossibile ritorno, mostra che l’amore è sempre stato impossibile.
Percepisco facilmente l’infinito strazio dei fan di Michael Jackson al vederne i poveri sosia.
E’ tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)
domenica 5 settembre 2010
Il normale ritorno all'anormalità (Vogue6)
PUbblicato su Vogue.it
L’inquietudine insita nel rientro dalle vacanze è un indice emotivo dell’alienazione della nostra esistenza lavorativa?
Secondo il situazionista Guy Debord, il tempo in cui noi occidentali capitalisti viviamo è irrimediabilmente mercificato: in esso la dimensione qualitativa della vita è stata soppressa dall’alienazione del lavoro. Questo tempo è pseudo-ciclico perché “il vissuto quotidiano … ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che rego¬lava la sopravvivenza delle società pre-industriali.” Per Debord “il tempo pseudo-ciclico poggia sulle tracce naturali del tempo ci¬clico, e contemporaneamente ne compone nuove combina¬zioni omologhe: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanale, il ritorno dei periodi di vacanze.” (La società dello spettacolo)
Se il nostro lavoro è alienato, tuttavia le vacanze interrompono l’anormale (alienata) vita lavorativa in un modo oggi percepito come normale, al punto da sembrare del tutto irrinunciabile. Senza un’interruzione anche piccola, ma tale da costituire un segmento temporale definito e memorabile, che senso avrebbe sopportare l’opprimente linearità del lavoro annuale? La continuità del lavoro sovrapposta alla ciclicità stagionale sembrerebbe una condanna simile all’eterno ritorno di Nietzsche.
Le vacanze non sono certo una caratteristica naturale dell’essere umano (si pensi a un crudo resoconto dell’ininterrotto lavoro contadino come La Malora, di Fenoglio) ma un’invenzione capitalista (altra cosa l’otium dell’antichità o la villeggiatura della nobiltà ancien régime).
Così, se tornare al nostro lavoro non ci entusiasma, possiamo almeno pensare che al di fuori del capitalismo la natura non fa vacanze.
L’inquietudine insita nel rientro dalle vacanze è un indice emotivo dell’alienazione della nostra esistenza lavorativa?
Secondo il situazionista Guy Debord, il tempo in cui noi occidentali capitalisti viviamo è irrimediabilmente mercificato: in esso la dimensione qualitativa della vita è stata soppressa dall’alienazione del lavoro. Questo tempo è pseudo-ciclico perché “il vissuto quotidiano … ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che rego¬lava la sopravvivenza delle società pre-industriali.” Per Debord “il tempo pseudo-ciclico poggia sulle tracce naturali del tempo ci¬clico, e contemporaneamente ne compone nuove combina¬zioni omologhe: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanale, il ritorno dei periodi di vacanze.” (La società dello spettacolo)
Se il nostro lavoro è alienato, tuttavia le vacanze interrompono l’anormale (alienata) vita lavorativa in un modo oggi percepito come normale, al punto da sembrare del tutto irrinunciabile. Senza un’interruzione anche piccola, ma tale da costituire un segmento temporale definito e memorabile, che senso avrebbe sopportare l’opprimente linearità del lavoro annuale? La continuità del lavoro sovrapposta alla ciclicità stagionale sembrerebbe una condanna simile all’eterno ritorno di Nietzsche.
Le vacanze non sono certo una caratteristica naturale dell’essere umano (si pensi a un crudo resoconto dell’ininterrotto lavoro contadino come La Malora, di Fenoglio) ma un’invenzione capitalista (altra cosa l’otium dell’antichità o la villeggiatura della nobiltà ancien régime).
Così, se tornare al nostro lavoro non ci entusiasma, possiamo almeno pensare che al di fuori del capitalismo la natura non fa vacanze.
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