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martedì 27 giugno 2017

L’unico neo (Roman nouveau, 19)


L’unico neo

Seguivo i corsi di Badiou e Rancière, per il mio DEA, e andavo spesso a sentire Derrida all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS). Quell'anno teneva un corso sul Perdono, che poi è diventato un suo libro. Anche se con Derrida mi sembrava di avere chiuso, ci tenevo  a vedere finalmente il filosofo che per qualche anno avevo reputato il più grande del mondo. E poi, da Derrida ci andavo insieme a Lilia, l’amica russa, e con lei sarei andato a sentire chiunque, forse persino Bernard Henry Lévy.
Con le ragazze torinesi andava tutto bene, eravamo diventati amici e ci frequentavamo abbastanza spesso: facevamo aperitivi, cene, feste, andavamo al cinema e alle mostre. Erano tutte fidanzate, il che rendeva la loro frequentazione allo stesso tempo aproblematica e disperante. Tutti quelli che frequentavo erano fidanzati, tranne me e il mio coinquilino Yves.
In effetti l’unico neo della mia vita parigina era proprio Yves. Era simpatico ma pesantissimo. Un chiummo, direbbero a Palermo. Non sapeva cucinare e quando cucinavo per me non diceva mai no alla mia offerta di cucinare anche per lui. In realtà mi ero presto rotto il cazzo di cucinare sempre anche per lui: cucinavo prevalentemente pasta (“Je fais des pâtes...”, “Très bien, merci!”) sperando di dargli la nausea di pasta. Contavo sul fatto che un francese non possa mangiare sempre pastasciutta come un italiano, ma mi sbagliavo.
Cucinare per lui, però, era il meno. Anche il fatto che le pulizie a lui assegnate lasciassero alquanto a desiderare era tutto sommato sopportabile, nel frame di bohème che volevo usare per concepire la nostra vita studentesca.
La cosa peggiore era questa. Quando alla sera leggevo al mio tavolo bevendo la birra, spesso mi interrompevo per chiacchierare di filosofia con Yves nell'altra stanza. Una sottile porta condannata separava la mia stanza dalla sua, permettendoci di comunicare. I nostri dialoghi filosofici avevano qualcosa di psicoanalitico e di confessionale, sentivamo vicinissima la voce dell'altro senza poterlo vedere. L'altro, ridotto a pura phoné. A differenza che nel setting psicoanalitico, l'altro stava davanti anziché dietro, ma era comunque perfettamente invisibile. Questa modalità comunicativa favoriva il nostro pensiero: non ci lasciavamo influenzare dagli atteggiamenti corporei, dalle micro-espressioni facciali, non ci facevamo sviare da segnali di fastidio che non fossero inclusi unicamente nella voce altrui. Questi segnali di fastidio in realtà arrivavano spesso, perché sia Yves che io ci identificavamo completamente con Lo Studente Di Filosofia, il chierico del lógos e dell'epistéme, preso in un inarrestabile ascetico divenire-sapiente. Il dissenso era per noi necessario ma doloroso: non pensavamo che si potessero avere idee differenti sulle questioni metafisiche fondamentali, uno doveva avere ragione e l'altro torto, non per una questione di verità (noi studenti postmoderni decostruivamo il concetto di verità) ma chiaramente per volontà di potenza. È vero che cercavamo di sfumare le nostre divergenze formulando molte delle nostre affermazioni in modo ipotetico o eteroriferito (“Deleuze direbbe che...” “Per me è come se...” “Forse di potrebbe ipotizzare che...”), ma sullo sfondo era chiaro che entrambi pugnavamo per la potenza della verità, o la verità come potenza.
Io però ero un deleuziano che studiava con Badiou, e lui un derridiano che studiava con Rancière (anche lui come Bruno). E tra deleuziani e derridiani è noto che non corra buon sangue, perché l'attitudine deleuziana esclude a priori l'infinita estenuazione dell'ermeneutica decostruzionista. Dove Derrida vede un'opposizione metafisica da decostruire e riconnettere all'Assoluto a-venire, Deleuze vede un'opposizione micropolitica nella quale entrare a gamba tesa per posizionarsi a fianco dell'istanza minoritaria.
In ogni caso Yves beveva più di me, anche se non durante la settimana. Lui stesso si definiva un alcolista periodico: iniziava a bere il venerdì sera, e il sabato sera raggiungeva l'acme, spesso in compagnia di ragazze fighe che si scopava ma finendo poi coinvolto in risse delle quali non ricordava nulla, tranne che si era ritrovato senza portafogli e sporco di sangue.
Era simpatico e intelligente, ma era un ossessivo, e non c'era verso di interrompere una conversazione filosofica una volta avviata, motivo per cui col tempo cercavo di contenerlo. Quando la conversazione intra-porta aveva inizio, mi dicevo sempre che dovevo cercare di non lasciarla deragliare troppo, ma poi andavamo avanti anche per un'ora, sempre così, da una parte e dall'altra del diaframma ligneo che separava i nostri corpi maniacali parlanti.

Un aneddotto brutto. Dopo una serata alla Flèche d'or, Yves e io in compagnia dei miei amici italiani andiamo a casa di Caterina, ci divertiamo, stappiamo una bottiglia dietro l'altra. Yves beve in eccesso, come sempre, e si ubriaca fino a estraniarsi dalla situazione collettiva. All'ora di rientrare - oramai era mattina - invito Yves ad alzarsi dal canapé : lui biascica di no, e alle mie insistenze amichevoli mi insulta dicendomi di ficcarmi fuori dai coglioni e che non sono altro che un poliziotto (un poliziotto!) anche se studio con Badiou.
Decido così di lasciarlo da Caterina, se lei non è contraria. Ce ne andiamo tutti via, e anziché crollare dal sonno come aveva lasciato intendere, Yves si getta a baciare Caterina, all'improvviso e senza nessun preambolo. Caterina lo respinge, sorpresa ma gentile, com'è nella sua natura, poi gli dedica l'intera notte per spiegargli che è soltanto ubriaco e che ci prova con lei come avrebbe potuto provarci con Giulia o Giada, o con chiunque altra. 
È vero, dice Yves, ma il fatto che io ci provi con te non è indifferente. Questa è la conclusione di Yves: il fatto che io ci provi con te non è indifferente.