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venerdì 25 febbraio 2011

Radiohead minori? (Vogue21)



Per molte persone i Radiohead sono una malattia. Lo sono anche per me che ho impiegato anni ad organizzare faticosamente un libro di racconti e fumetti sulle canzoni dei geni di Oxford (http://shop.bcdeditore.it/product.php?productid=16300).
Perciò si capirà il mio tuffo al cuore nello scoprire all’improvviso (non sono un rockologo) che è appena uscito un nuovo disco, King of Limbs, come il precedente scaricabile online (http://www.thekingoflimbs.com/DIEUR.htm) in diverse forme, dal semplice mp3 al ricco album con libro di 625 “disegni artistici”.
Lasciamo da parte le discussioni sulle dichiarazioni di Yorke e soci sulla morte del disco a favore del download in Rete: si sa che quando qualcuno annuncia la fine di cose come l’arte, la religione o il rock, è spesso semplicemente il segno di una relativa impossibilità di pensare le forme future dell’arte della religione o del rock.
Cercherò invece di esprimere un giudizio su questo disco, cosa non semplice perché la musica dei Radiohead non è mai omogenea alla media della musica pop, rock ed elettronica odierne: ha invece un buon impianto composizionale dovuto all’incontro tra la diversa genialità di Thom Yorke, ispirato cantante e sperimentatore di sonorità elettroniche, ma analfabeta musicale (non sa leggere le note e per comporre usa software sofisticati) e Johnny Greenwod, chitarrista e tastierista colto e raffinato, con una predilezione per la musica contemporanea, in particolare Olivier Messiaen e Witoslaw Penderecki. Un incontro musicale, questo tra Yorke e Greenwood, che rendeva finora la musica dei Radiohead capace di elevarsi subito al rango di “classico”. Nelle atmosfere elettro-soft di King of Limbs mi sembra però di sentire una scarsa fusione delle due cifre stilistiche, Yorke & Greenwood, la prima rintracciabile in un certo tipo di contrappunto elettronico alla famosa voce falsettistica, la seconda in una ripetitività ritmica disgregata e ossessiva.
La premessa di quanto dirò dovrebbe essere che quella di King of Limbs è forse una musica cangiante: man mano che la sua complessità viene percepita e memorizzata in maniera infinitesimale, ascolto dopo ascolto, cambia anche il suo significato complessivo.
Tuttavia, stando ai primi ascolti e confrontando le reazioni degli ascoltatori, King of Limbs non sembrerebbe all’altezza del precedente capolavoro (In Rainbows), ma in modo talmente esplicito che bisognerebbe forse cogliere l’intenzione di offrire una sorta di B-side del precedente, un album minore che potrebbe quasi segnare il passaggio da una poetica centrata sull’Opera (ogni disco dei Radiohead sembrava ambire a quello statuto, e forse a quello di Capolavoro) a una estetica - forse più adeguata ai tempi - della “musica da tappezzeria”, come la chiamava Erik Satie.
Se ogni sei mesi uscisse un album simile dei Radiohead non potremmo lamentarci, ma sarebbe inevitabile un po’ di rimpianto per i precedenti dischi con i quali i cinque di Oxford parevano ogni volta voler sintetizzare e superare il proprio passato.
È vero che già con l’album precedente (In Rainbows), atteso dai fan per diversi anni, molti pensavano che la band fosse giunta al suo canto del cigno: perciò un nuovo disco non può che rallegrare chi ha individuato nei Radiohead il proprio paradigma di arte rock. Ma è anche vero che Thom Yorke e anche Phil Selway (il batterista) avevano recentemente fatto dischi solisti con non pochi brani superiori (almeno per intenzione autoriale) a questo nuovo disco collettivo.
C’è però un grosso ma. Si dice in Rete che potrebbe esserci in serbo un secondo CD a complemento di King of Limbs, e che il disco segreto dovrebbe essere “quello vero”.
Leggenda metropolitana o ipotesi complottista che sia, io spero come molti che sia vero.
In caso contrario, se d’ora in poi la musica degli oxoniensi fosse in tono minore come quella di King of Limbs, ammetto che inizierei a temere con dispiacere e anche un soffio d’angoscia che al declino non possa sfuggire davvero nessuno.
Nemmeno i Radiohead, maledizione.

Noam

I miei amici musicisti rock, Enrico Manera, Luca Morena e Tommaso Cerasuolo, alias i Noam, hanno pubblicato un nuovo disco molto bello.
Si può ascoltare e scaricare qui

Susanna Schimperna: ANARCHICI E DISOBBEDIENTI. NOSTRA LEGGE E’ LA LIBERTA’

ANARCHICI E DISOBBEDIENTI

NOSTRA LEGGE E’ LA LIBERTA’

Da Pietro Gori a Michael Bakunin, fino a don Milani: una cultura che guarda al mondo e alla pace

Finché a parlare criticamente del concetto di patria erano gli artisti o i filosofi, nessuno scandalo e nessun veto. Per Voltaire la patria è dove si vive felici (la patria è dov’è il bene, avevano già detto Pacuvio e Cicerone prima di lui), per Flaubert l’idea di patria è «quasi morta, grazie a Dio», e per Samuel Johnson il patriottismo è nient’altro che l’ultimo rifugio di un briccone. Rousseau, tipo spiccio, propose addirittura di cancellare le parole “patria” e “cittadino” dal vocabolario, ritenendoli vocaboli indegni delle lingue moderne. Oggi non avrebbero vita facile, con questo vento di orgoglio nazional-patriottico che spira sempre più gagliardo, proprio come gagliardi sono i fiati degli sportivi che cantano a pieni polmoni l’inno di Mameli nelle gare internazionali, chissà se per convinzione, divertimento o prudenza: qualche anno fa qualcuno si provò a stare più zitto che urlante, e fu letteralmente processato dai media e dai politici.
C’è però qualcuno cui non è mai stato consentito giudicare l’idea di patria. Né ieri né oggi. Gli anarchici, ovviamente. Chi altri? Spietati sbeffeggiatori degli onori tributati alla triade Dio, Patria, Famiglia, considerata fondamento di un pensiero e di un sistema sociale edificati sull’autoritarismo e la paura. Convinti assertori dell’universalismo, dell’umanità che nell’altro non vede l’alieno o il nemico ma più opportunamente cerca i motivi di unione anziché di separazione. Avversari dei confini, degli steccati, delle divise, delle guerre, dell’esaltazione, della retorica del sacrificio. Censori dell’utilizzo perverso del concetto di “onore” che nei secoli è stato adoperato per rendere possibile, addirittura desiderabile, la difesa cieca di un intero ordine costituito, non importa quanto ingiusto, esecrabile, violento: quando torna comodo, il sistema di prevaricazione si trasforma in patria, e oplà, troverà in ogni bravo cittadino un leale difensore, disposto a combattere, uccidere, essere ucciso.
Gli oppressi non hanno razze che li dividano, perché tutti appartengono all’unica razza esistente, quella umana. La loro patria è il mondo intero. Questo il significato vero del più famoso tra gli Stornelli d’esilio, scritto da Pietro Gori sulle note di un motivo popolare toscano: «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta… dovunque uno sfruttato si ribelli, noi troveremo schiere di fratelli… passiam di plebi varie tra i dolori, de la nazione umana precursori».
Le canzone, composta nel 1895, è autobiografica. Gori, insieme ad altri compagni, era stato espulso dalla Svizzera, dove si era rifugiato. In attesa del treno che li avrebbe portati verso la nuova destinazione, gli esuli la cantarono per la prima volta sotto le pensiline della stazione di Lugano. Il ritornello «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà» figurerà più tardi nelle bandiere degli anarchici italiani combattenti nella guerra di Spagna.
Aveva già scritto Mazzini: «Finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete aver patria? La patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo». I libri di storia sembrano ricordarsi soltanto della lotta di Mazzini contro il dominio straniero. Il suo pensiero implica molto di più, perché se non c’è patria per chi deve chinare la testa, allora la Patria con la maiuscola, quella per cui viene chiesto persino di sacrificare la propria o l’altrui vita, è in realtà un imbroglio, è la casa dei potenti che si maschera da casa di tutti soltanto quando i tiranni corrono il pericolo dell’esproprio.
“Finzione”, scrive a chiare lettere Michail Bakunin in una lettera indirizzata agli anarchici italiani, dove è netta la distinzione tra stato e patria. «Lo stato non è la patria: è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della patria… Il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo di una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La patria, la nazionalità, come l’individualità sono un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso… Io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse. La patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo, e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico».
Secondo Bakunin, ogni popolo, fino alla più piccola unità etnica o tradizionale, possiede le proprie caratteristiche. Esattamente come ogni singolo individuo. Ma questo non vuol dire armarsi contro gli altri in difesa non si capisce di che. Al contrario. La specificità può e deve aiutare ad acquisire valori universali, elevandosi al di sopra degli egoismi, smettendo di considerare sia sé stessi che la propria nazione (o meglio, comunità) al centro del mondo. Gloria, grandezza, interessi meschini: tutte istanze che Bakunin definisce “vane” e che si esprimono nel patriottismo politico anziché in quello “naturale”.
Ci vuole molta malafede oppure una grande rigidità mentale per non capire la differenza tra la patria del cuore, dei luoghi, delle tradizioni, e quella delle uniformi, del trionfalismo vuoto, degli inni che preparano alla riscossa (non sarebbe meglio essere sempre svegli invece che aver bisogno di riscuoterci?). Oggi siamo alla sottolineatura continua e mai contestata di concetti nazionalistici quali appartenenza e identità culturale. Esiste, e non è affatto un male che esista, un sentimento di appartenenza al proprio popolo o gens, che nasce, come diceva Bakunin, da un lungo processo storico, e più o meno si caratterizza per la condivisione di una lingua, di elementi culturali, di una terra. C’è poi la corruzione di questo sentimento, ed è questa corruzione che viene strumentalizzata. Patria e nazione, patriottismo e nazionalismo sono idee fasulle, in nome delle quali si muore, si uccide, si vive male coltivando l’irrazionalismo e la chiusura mentale, invece che aprendosi agli altri. Le linee di demarcazione vere, infatti, non sono i confini di una nazione, ma quelle che dividono vittime e carnefici, oppressi e oppressori. Tirare fuori l’appartenenza è come parlare di radici e valori: per quello che significano oggi, sono una pregiudiziale illibertaria e fortemente disturbante per la psiche. Il proposito, dichiarato, è di farci credere che senza queste tre cose rischiamo di perdere la nostra identità, quando cercare la propria identità – intesa come conoscenza e senso di sé – dovrebbe essere un processo integrato: teoria e pratica, interrogarsi e muoversi, scavare dentro sé stessi e ingegnarsi a incidere sulla realtà circostante (“plasmare la realtà”, che non è esattamente uguale a plasmare il mondo, idea che ha portato agli sfracelli che vediamo dell’utilitarismo più bieco, arrogante e incosciente). Troppo facile e allo stesso tempo superficiale agganciare il “chi siamo” al senso di appartenenza a uno stato, a una razza, a un’ideologia, a una religione, a qualunque cosa ci dia l’illusione di non essere soli, di essere in qualche modo protetti e per molti versi superiori degli altri. Naturalmente possiamo immaginare un aldilà, innamorarci di un’idea politica, pensare che la nostra lingua e il nostro paese siano i più belli del mondo. Ma un conto è farlo da persone libere, un altro è farlo nell’illusione di costruirci così un’identità.
«Non discuterò qui l’idea di patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’atro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri».
Non è il proclama di un anarchico insurrezionalista, ma la lettera (1965) di un sacerdote ai cappellani militari toscani. Si chiamava Lorenzo, è ricordato come don Milani.

(articolo di Susanna Schimperna pubblicato su Gli Altri, 25 febbraio)

martedì 22 febbraio 2011

Complessità, complicatezza e semplicità in musica

1. Una tipologia musicologica di Fred Lerdahl alla luce della Relevance Theory

La Teoria Generativa della Musica Tonale (GTTM) è una delle più influenti teorie della cognizione musicale (Jackendoff e Lerdahl, 1983). In GTTM Lerdahl e Jackendoff non esprimono un punto di vista estetico, tuttavia, in una serie di articoli successivi[1], Lerdahl ha derivato da GTTM alcuni principi della composizione musicale. Anche se questi principi non sono un insieme di regole estetiche, essi sono presentati come “vincoli cognitivi” per una prassi compositiva rispettosa della natura della mente umana.
La buona musica, afferma Lerdahl, deve essere fondata sull’umana “facoltà musicale” (capacity for music, Jackendoff and Lerdahl 2006), ossia sulla natura della mente e della cognizione musicale[2]. Secondo Lerdahl, gran parte della musica del XX secolo ha adottato grammatiche composizionali lontane dalle “grammatiche d’ascolto” implicite nella mente umana. Ne sono risultate opere musicali artisticamente manchevoli: per esempio, le strutture della musica dodecafonica non hanno alcuna realtà percettiva, come numerosi test psicologici sembrano mostrare[3].
In un primo momento Lerdahl afferma: “nous ne portons aucun jugement esthétique [...]. La relation entre perceptibilité et valeur est oscure; personne n’a vraiment de théorie sur de telles questions” (1985, p.112). Tuttavia questa osservazione è successivamente attenuata: « Cependant, ces remarques comportent une sorte plus subtile de sous-entendu esthétique”. Questo sottinteso è la tipologia musicale proposta da Lerdahl e che discuteremo in questo articolo. Il punto di vista di Lerdahl potrebbe dirsi “meta-estetico”, nel semplice senso che i vincoli cognitivi dedotti da GTTM rappresentano il fondamento su cui i giudizi estetici possono essere formulati.
Lerdahl afferma: “Following them [the cognitive constraints] will not guarantee quality. I maintain only that following them will lead to cognitively transparent musical surfaces, and that this is in itself a positive value; and, conversely, that not following them will lead in varying degrees to cognitively opaque surfaces, and that this is in itself a negative value” (1988, p.118). In altre parole, ci sono molti possibili generi musicali con “cognitively transparent musical surfaces”, e questa trasparenza superficiale è soltanto il primo livello di un’opera musicale “ben formata”[4].
La tipologia musicale suggerita in Lerdahl (1985) e ripetuta successivamente (1988; 1997) è fondata sull’esistenza di una doppia struttura in ogni brano musicale. Come nel “modello standard” della linguistica chomskyana, Lerdhal distingue una “superficie musicale”, ossia tutti gli eventi sonori che la mente può percepire, e una “struttura profonda”, ossia le relazioni gerarchiche che la mente può reperire sotto la superficie musicale[5]. Se tale superficie “has numerous non-redundant events per unit time”[6] la musica può dirsi complicata. Se le strutture gerarchiche che la mente dell’ascoltatore deriva inconsciamente dalla superficie musicale sono complesse, la musica può dirsi complessa.[7] Il terzo e ultimo tipo musicale è citato solo en passant da Lerdahl (1988; 1997): si tratta della musica semplice, ossia la musica che ha una superficie semplice e una struttura profonda povera. La definizione è negativa: semplicità è l’assenza sia di complicatezza che di complessità (Lerdahl 1997, p. 425). Complicato/complesso/semplice sono trattati da Lerdahl come concetti di tipo “classificatorio” (“x è complicato/complesso/semplice oppure no”) [8]: sembrano escludere la possibilità di una quantificazione e ammettere solo implicitamente una comparazione.
Uno degli elementi maggiormente problematici in questa tipologia è la sua assiologia implicita: secondo Lerdahl la complessità è migliore della semplicità. Lerdahl attribuisce un valore esteticamente neutro alla complicatezza o meglio, alla musica con una superficie complicata, e un valore positivo alla complessità, ossia alla musica con una ricca struttura profonda. Ma la terza qualificazione, la semplicità, è giudicata implicitamente come negativa: “Balinese gamelan falls short with respect to its primitive pitch space. Rock music fails on grounds of insufficient complexity” (Lerdahl 1988, p. 119).


1.1 Estetica e cognizione.

Lerdahl sembra esitare tra la possibilità di fondare l’estetica su basi cognitive e l’ammissione che tale fondazione è priva di senso. In effetti, sebbene rifiuti la fondazione cognitiva dell’estetica, Lerdahl pensa che GTTM abbia conseguenze estetiche. Lerdahl (1988), per esempio, deriva da GTTM alcuni “vincoli cognitivi” per la composizione musicale. Se questi vincoli non sono direttamente estetici[9] essi tuttavia hanno almeno un contenuto meta-estetico, nel senso definito più su, poiché determinano precise restrizioni delle possibilità compositive, restrizioni derivate dalle regole individuate in GTTM e successivi ampliamenti. Secondo Lerdahl un buon musicista deve rispettare questi vincoli cognitive per comporre musica “naturale”, ossia una musica compatibile con la nostra “capacity of music” (Jackendoff e Lerdahl, 2006), in armonia con la mente musicale[10].


1.2 Semplicità difettosa?

Lerdahl dichiara idiosincratica e personale la propria preferenza estetica per la complessità e la sua neutralità nei confronti della complicatezza, tuttavia la condanna della semplicità sembra pretendere a uno statuto superiore a quello del mero giudizio di gusto: “Rock music fails on grounds of insufficient complexity”. La semplicità è “the absence of both complicatedness and complexity” e la complessità ha per Lerdahl un valore estetico positivo, ma le ragioni per condannare la semplicità non sono chiare: non potrebbe trattarsi di un valore neutro, come la complicatezza? In mancanza di buoni argomenti, sembra immotivato dichiarare fallimentare un idioma musicale a grande diffusione popolare come la musica rock o un idioma tradizionale come il gamelan balinese. Una teoria cognitiva della musica dovrebbe tentare di spiegare anche i generi musicali demotici ed esotici realmente esistenti, e non soltanto lo stile classico; dovrebbe inoltre spiegare come possano esistere generi musicali ritenuti cognitivamente fallimentari, e perché mai essi piacciano.


1.3 Mozart complesso, Glass semplice.

Non pare molto plausibile attribuire tout court – come fa Lerdahl[11] – la “complessità pura” (senza complicatezza) alla musica di Mozart o di Schubert, se questa attribuzione è diretta a un autore in toto anziché a specifiche composizioni: più di un minuetto di Mozart potrebbe essere considerato come un esempio della categoria lerdahliana di “musica semplice”. Il punto debole di questa classificazione consiste nel fatto che Lerdahl usa la tricotomia “complesso/complicato/semplice” come se si trattasse di concetti classificatori (Carnap, 1950): qualcosa è complesso/complicato/semplice, oppure no. Ma l’applicazione dei tre concetti sembrerebbe più plausibile, almeno in funzione estetica, se ammettessero dei gradi o meglio ancora una comparazione: qualcosa è più o meno complesso/complicato/semplice di qualcos’altro (nel lessico di Carnap: concetti comparativi).
Reinterpretata in tal modo la tricotomia diventa ancor più plausibile, tanto cognitivamente quanto esteticamente, se analizzata nel contesto della  Relevance Theory (Sperber e Wilson, 1986/1995). In accordo con la teoria, la rilevanza di un input è funzione dello “sforzo di trattamento” e dell’“effetto cognitivo”: ceteris paribus, quanto più grande è lo sforzo di trattamento, tanto meno rilevante è l’input, e quanto più grande è l’effetto cognitivo, tanto più rilevante è l’input (per qualcuno, in un certo contesto cognitivo).
Proponiamo dunque di adottare il concetto di Rilevanza così come definito dalla teoria di Sperber e Wilson per rendere plausibile l’applicazione della tricotomia lerdahliana, ricollocandola nel dominio cognitivo prima che in quello estetico. Anziché come variabili categoriali, complessità/complicatezza/semplicità possono essere considerate funzione della rilevanza (locale/globale) di un brano musicale. Per risultare cognitivamente (più) rilevante (di un altro), un brano musicale richiedente un certo sforzo di processamento deve offrire in cambio un proporzionato effetto cognitivo/emotivo[12] (maggiore di quello offerto da un altro brano richiedente analogo sforzo di processamento).
Assumendo che la superficie di un brano musicale corrisponda al livello maggiore dello sforzo di trattamento e la struttura profonda corrisponda all’effetto musicale sulla mente dell’ascoltatore, in accordo con l’analisi di Lerdahl diremo che la complicatezza senza complessità produrrà una rilevanza debole. Contrariamente al punto di vista di Lerdahl, però sosterremo anche che una musica semplice, che richieda un piccolo sforzo di trattamento, può essere rilevante se offre un buon effetto cognitivo/emotivo, per lo meno non inferiore allo sforzo di processamento. Questa impostazione apre la via alla riabilitazione della musica demotica, ossia la musica strutturalmente semplice ma piacevole, come alcuni esempi di musica rock, e come il gamelan balinese alle orecchie balinesi.
Da un punto di vista computazionale, rimane aperto il compito della formulazione di un algoritmo di calcolo della Rilevanza Musicale, fondato sulla formalizzazione del concetto di Rilevanza.



Bibliografia

1.      Carnap, R. (1950). Logical foundations of probability. Routledge and Kegan Paul, London.
2.      Davies, S. (2008). Musical Understandings, in Musikalischer Sinn: Beiträger zu einer Philosophie der Musik, A. Becker & M. Vogel (eds.), Matthias Vogel (trans.), Francoforte, Suhrkamp Verlag.
3.      Jackendoff, R., Lerdahl, F. (2006). The Capacity for Music: What’s Special about it?, Cognition 100, 33-72.
4.      Lerdahl, F. (1985). Théorie genérative de la musique et composition musicale. In T. Machover, ed., Le Concept de Recherche Musicale. Parigi, Christian Bourgois.
5.      Lerdahl, F. (1988). Cognitive Constraints on Compositional Systems. In J. Sloboda, ed., Generative Processes in Music. Oxford, Oxford University Press.
6.      Lerdahl, F. (1997). Composing and Listening: A Reply to Nattiez. In I. Deliége & J. Sloboda, eds., Perception and Cognition of Music. Hove, Psychology Press
7.      Lerdahl, F., Jackendoff, R. (1983). A generative theory of tonal music. Cambridge, MIT Press.
8.      Raffmann D. (2003). Is  Twelve-Tone Music Artistically Defective?, Midwest Studies in Philosophy 27 (1): 69–87.
9.      Sperber D., Wilson, D. (1995). Relevance: communication and cognition. Blackwell, Oxford


[1] Lerdahl (1985), Lerdahl (1988), Lerdahl (1997).
[2] Lerdahl (1988, p.119): “My second aesthetic claim in effect rejects this attitude in favour of the older view that music-making should be based on “nature”. For the ancients, nature may have resided in the music of the spheres, but for us it lies in the musical mind”.
[3] Diana Raffmann (2003).
[4]  “All sorts of music satisfy these criteria - for example, Indian raga, Japanese koto, jazz, and most Western art music” Lerdahl (1988, p.119).
[5] A questo proposito, si è molto discusso se la comprensione musicale necessiti davvero della comprensione “strutturale” o se invece questa non sia appannaggio di forme d’ascolto “esperto”. Per un riassunto del dibattito si veda Davies 2008.
[6] Lerdahl (1988, p.118).
[7] Ibidem.
[8] Carnap (1950).
[9] “Il faut souligner que nous ne portons aucun jugement esthétique dans ces cas” Lerdahl (1985:112).
[10] Lerdahl (1988, p. 119-20) esplicita bene questo punto: “The avant-gardists from Wagner to Boulez thought of music in terms of a “progressivist” philosophy of history: a new work achieved value by its supposed role en route to a better (or at least more sophisticated) future. My second aesthetic claim in effect rejects this attitude in favour of the older view that music-making should be based on “nature”. For the ancients, nature may have resided in the music of the spheres, but for us it lies in the musical mind”.
[11] Lerdahl (1997, p.425): “Mozart and Schubert are complex but not complicated. Bach, Brahms, and much of Wagner are both complex and complicated. Donizetti is simple. In the 20th century, Debussy, Stravinsky, and early Webern are complex but not complicated. Schoenberg is both complex and complicated. Carter, Babbit, Xenakis, early Stockhausen, and the Boulez of Le Marteau sans Maître are complicated but not complex; the same holds for the composers of the “new complexity” such as Ferneyhough. Glass and Pärt are simple”.
[12] Sperber e Wilson considerano omogenee la sfera cognitiva e quella emotiva.

lunedì 21 febbraio 2011

2.4 Style expressif de la pensée wittgensteinienne (Lacerti di una tesi di dottorato in filosofia, 2007)

Si on ne considère pas l'espace vide dans les Dictées à Waismann laissé sous la voix « style de pensée », il y a au moins une apparition textuelle explicite et très significative de cette expression :
En un sens, je fais de la propagande en faveur d’un style de pensée en tant qu’il est opposé à un autre. […] Changer le style de pensée, c’est ce qui compte dans ce que nous faisons. Changer le style de pensée, c’est ce qui compte dans ce que je fais, et persuader les gens de changer leur style de pensée, c’est ce qui compte dans ce que je fais [Wittgenstein (1938), trad. fr. p. 64-65].

Il est évident que Wittgenstein considère la question du changement de style de pensée comme une véritable question éthique, la question d’une conversion. Bien sûr, la conversion requise – et l’auto-conversion, étant donnée la véritable lutte que la pensée wittgensteinienne dû accomplir presque contre elle-même – c'est une façon de se libérer des inquiétudes philosophiques liées à l'obsession pour l’explication, en faveur du descriptivisme grammatical, point d’arrivée de la philosophie du deuxième Wittgenstein[1].
Depuis l’usage fait par Wittgenstein de l’expression « style de la pensée » on peut en déduire qu'il ne s’agit pas d’une simple métaphore, mais d’une désignation pertinente de l’activité de penser. Certes, Wittgenstein ne dit pas en quoi consisterait le style de pensée et à notre connaissance il n’imagine aucun jeux de langage pour éclairer les usages possibles de cette expression, pourtant mystérieuse en l’absence d’une théorie de la pensée ou d’un usage paradigmatique.
Même si on a parlé à tort du prétendu « béhaviourisme philosophique » de Wittgenstein[2], sa position sur la nature de l'esprit et de la pensée est lointaine de tout projet de naturalisation. Wittgenstein soutient en effet que des états mentaux on peut parler sur un autre plan que celui des processus et des événements, qu'ils soient psychologiques, privés ou objectifs, ou physiques ou physiologiques, puisque tous ces processus ou événements sont compris sur le modèle causal qui fait des états mentaux les effets d’événements internes ou externes à un organisme[3].
La confusion entre la logique des causes et celle des raisons est selon Wittgenstein fatale pour la psychologie et projetant à l’intérieur de l’esprit un « mécanisme hypothétique »[4] – tel que les models des facultés mentales des sciences cognitives – on ne fait que reproduire cette confusion[5].
Wittgenstein ne nie pas l’existence des attitudes propositionnelles (cf. infra § 4.1) : il nie la possibilité de les traiter comme des états objectifs, des représentations mentales, des objets abstraits nécessaires pour expliquer le fonctionnement de l'esprit et de la pensée. Si la position wittgensteinienne est anti-représentationnaliste (et anti-computationnaliste avant la lettre), elle n’est pas anti-réaliste en matière d’attitudes propositionnelles, pourvu qu’on ne les réduise pas à des états mentaux privés.
Or, Wittgenstein aurait-il pu attribuer à la pensée une véritable propriété stylistique tout en considérant ineffable la pensée lorsque encore inexprimée ? L'hypothèse substantialiste est incohérente avec l’ensemble de la seconde philosophie wittgensteinienne :
D’une manière générale, Wittgenstein insiste sur le fait que les concepts mentaux n’appartiennent pas à la catégorie de substance, mais à celle des propriétés des substances : ce ne sont pas des choses, des épisodes, des événements, mais des propriétés que nous attribuons à des individus ou à des personnes. D’où le leitmotiv suivant : des expressions comme « l’esprit pense », « le cerveau pense », ou « Untel a des pensées », sont des non-sens grammaticaux, parce qu’on suppose que l’esprit et le cerveau sont « des choses qui pensent », ou qu’ils ont des pensées. Mais la pensée n’est pas une chose, et une pensée n’est pas une chose qu’on pourrait avoir, comme on a du bon tabac dans sa tabatière. Une pensée est plutôt un attribut de quelqu’un [Engel (1996), p. 171].

L’image wittgensteinienne de la pensée[6] exclue la possibilité d’une ontologie de l’attribution stylistique : le phénoménalisme grammatical wittgensteinien rend insensé parler de style de pensée comme propriété d'une substance de pensée. Dans cette perspective, pourrait-on imaginer un jeu linguistique à l’intérieur duquel l’expression « changer le style de la pensée » aurait un sens ? Ce serait un jeu méta-philosophique, le jeu linguistique de l’« idéologie » wittgensteinienne avec sa dénonciation des maux de la civilisation contemporaine[7].
Certains fragments publiés dans Zettel et remontant aux années de 1929 à 1948, constituent un témoignage clair de l'image wittgensteinienne de la pensée :
110. « Penser », c’est un concept qui a de lointaines ramifications. Un concept qui rassemble en lui bien des manifestations de la vie. Les phénomènes de pensée couvrent un bien large camp.
111. Nous ne sommes pas du tout préparés à la tâche de décrire (par exemple) l’emploi du mot « penser » (et pourquoi le serions-nous? Quelle utilité aurait-elle une telle description?).
Quand à la représentation naïve que nous nous en faisons, elle ne correspond en rien à la réalité. Nous nous attendons à lui trouver un contour uni et régulier, et tout ce que nous arrivons à voir, c’est un contour fait de mille éclats. Ce serait bien là le cas de dire que nous nous sommes fait une image fausse [Wittgenstein (1967), trad. fr. p. 37-38][8].

Faisant remarquer qu’apparemment nous ne sommes pas préparés à décrire l’emploi du mot « penser », Wittgenstein semble restituer quelque chose du sens de la merveille philosophique contre les automatismes de la pensée scientifique. En tout cas Wittgenstein a une conception richissime de la pensée : toute sa dernière philosophie de la psychologie est une critique à tout réductionnisme en philosophie de l’esprit, soit-il un réductionnisme cartésien, matérialiste ou behaviouriste[9].
Les innombrables observations wittgensteiniennes sur la psychologie ont le résultat positif de souligner la variété phénoménologique du mental. Une typologie possible de la phénoménologie wittgensteinienne du mental est celle de Baker et Hacker (1982) reprise par Casati (1997) et soulignant les éléments suivants dans la philosophie wittgensteinienne de la psychologie :
1) la distinction entre la première et la troisième personne ;
2) les distinctions en termes de localisation temporelle et d’aspects temporels auxquels sont sensibles les verbes et les concepts psychologiques (les phénomènes psychologiques se divisant en instantanés, indifférenciés – comme la connaissance – ou doués d’un rythme temporel particulier) ;
3) la possibilité de localisation physique qui distingue certains événements et propriétés psychologiques (les sensations) ;
4) la possibilité d’avoir des degrés, qui distingue les sensations des pensées ;
5) la possibilité d’avoir une manifestation expressive (ici la position wittgensteinienne est déterminable comme expressionniste (Casati), puisque les ainsi dites qualités tertiaires ou expressives sont perçues directement, sans inférences[10] ;
6) la dispositionnalité de certains concepts psychologiques ;
7) la perméabilité à la volonté de certains phénomènes mentaux ;
8) la relation informationnelle avec le monde externe de certains phénomènes, qui en dépendent pour leur contenu informatif ;
9) la relation de certains concepts psychologiques avec la causalité.

En sus de cette typologie implicite à laquelle Wittgenstein se consacrait de façon non systématique, le regard philosophique wittgensteinien présuppose la critique radicale de l’explication, en psychologie comme en philosophie. Comme le dit bien le slogan philosophique des Recherches, « Denke nicht, schau ! »[11], Wittgenstein veut substituer à l’explication philosophique (qui pour lui n’en est pas une) une vision synoptique (übersichtliche Darstellung)[12]. Etant donné que « le grammatical n’est atteint que lorsque l’explication tombe »[13] on se trouve devant un choix radical entre une perspective grammaticale, dans le sens idiosyncrasique de Wittgenstein, et d’autres possibilités méthodologiques mises à disposition par la philosophie. Mais l’injonction à ne pas essayer d’expliquer peut aussi bien être vu comme un défaut de manque d’explication[14] :
Si l’énoncé 'Il y a 37 pommes sur l’arbre' n’est pas rendu vrai par quelque fait concernant l’arbre, mais par le fait que tous ceux qui comptent les pommes sur l’arbre arrivent à 37, il n’est alors pas possible d’expliquer comment tous ceux qui comptent les pommes sur l’arbre arrivent à 37 (normalement l’on expliquerait en disant qu’il y a 37 pommes sur l’arbre ; dans le contexte présent [celui de la philosophie wittgensteinienne] nous devrions dire que tous arrivent à 37 puisque tous arrivent à 37) [Casati (1997), p. 209, nous traduisons].

Cette conception ne peut pas satisfaire si l’on ne partage pas la dénonciation wittgensteinienne de l’inquiétude philosophique consistant à chercher des explications, surtout dans le cadre des sciences naturelles (comme le fait la « Nouvelle Synthèse » : cf. § 4.8). La complexe attitude de Wittgenstein envers la philosophie et la science bloque d’emblée la possibilité des spéculations métaphysiques, y inclus celles de la philosophie cognitive, mais ce blocage n’est effectif que pour ceux qui sont concerné par la tonalité émotive de la philosophie wittgensteinienne[15].
Cette critique radicale de l'explication causale équivaut d'ailleurs à la négation avant la lettre du programme de recherche cognitiviste, fondé comme il est sur l’explication causale et sur la recherche et la formulation de régularités nomologiques (avec la clause ceteris paribus). Mais il faut rappeler que la situation de la psychologie et la relation entre philosophie et psychologie et aujourd’hui bien différente qu’à l’époque de Wittgenstein[16]. Remarquons pourtant que même dans la perspective modulariste – notamment dans l’hypothèse de la Modularité Massive (cf. § 4.8) – l’on admet une multiplicité de faculté de l’esprit : les modules de l'esprit ou organes mentaux (Chomsky) ne sont pas facilement dénombrables s'il est vrai qu'ils peuvent aussi avoir les dimension d’un concept[17]. Mais dans l’image modulariste de la pensée il y a l’idée fondamentale que d’un point de vue naturalisant l’on peut faire ce que Wittgenstein considère fourvoyant, c’est-à-dire expliquer. La philosophie cognitive procède en faisant des hypothèses de mieux en mieux explicatives sur la structure et le fonctionnement du cervau-esprit[18].

A notre avis il est donc probablement impossible d’extraire une véritable théorie wittgensteinienne du style de la pensée. Que Wittgenstein parle de style de pensée nous semble donc représenter une tension interne à sa pensée : si l’on ne pouvait parler que de la pensée exprimée, comme le veut Wittgenstein, le style de pensée ne devrait-il pas se réduire au style de l'expression ou de la communication de la pensée ? Si parler de la pensée n’était possible qu'une fois la pensée exprimée, a fortiori parler d’un attribut quelconque de la pensée, tel son prétendu style, devrait être compris comme parler d'un attribut de l'expression de la pensée.


[1] Sur ce point voir Soulez (1997).
[2] Wittgenstein (1953), § 308 (cité in Casati (1997), p. 216), par exemple prend nettement position contre le béhaviourisme.
[3] Engel (1996), p. 165.
[4] Wittgenstein (1958).
[5] Engel (1996), p. 168.
[6] L’on pourrait pourtant considérer la première image de la pensée wittgensteinienne, quelque peu différente de la deuxième ; à l’époque du Tractatus en effet Wittgenstein concevait la pensée comme « une espèce de langage » [Wittgenstein (1979), cité in Glock (1996), p. 421]. Wittgenstein (1921) définie la pensée comme « la proposition douée de sens » (proposition 4), comme « l’image logique des faits » (proposition 3) ou encore comme le « signe propositionnel appliqué, pensé » (proposition 3.5). Glock [Ibidem] commente ainsi : « Une pensée est elle-même une proposition dans le langage de la pensée, intimement liée au signe propositionnel. […] Par suite c’est un trait essentiel des pensées que de pouvoir être exprimées complètement dans le langage. Cela rompt avec la conception vénérable, partagée par Frege et Russell, selon laquelle la relation entre la pensée et le langage est externe ». Une telle conception "effabiliste" de la pensée n’est pas encore la résorption de la pensée dans le langage, et permettrait peut-être de faire l’économie d’une notion du style de pensée chez le premier Wittgenstein.
[7] Voir Casati (1997), p. 196.
[8] « 110. 'Denken', ein weit verzweigter Begriff. Ein Begriff, der viele Lebensäusserungen in sich verbindet. Die Denk-phänomene liegen weit auseinander.
111. Wir sind auf die Aufgabe gar nicht gefasst, den Gebrauch des Wortes "denken" z. B. Zu beschreiben. (Und warum sollten wir's sein? Wozu ist so eine Beschreibung nütze?)
Und die naive Vorstellung, die man sich von ihm macht, entspricht gar nicht der Wirklichkeit. Wir erwarten uns eine glatte, regelmäßige Kontur und kriegen eine zerfetzte zu sehen. Hier könnte man wirklich sagen, wir hätten uns ein falsches Bild gemacht ».
[9] Voir Engel (1996) p. 178.
[10] Casati (1997), p. 218 : Le fait que nous voyons directement la tristesse sur un visage « signifie que le concept de tristesse fait déjà partie du contenu perceptif » et qu’« en tout cas nous ne saurions pas décrire la configuration du visage sans employer le concept de tristesse » : il y a donc une relation interne entre concept et manifestation perceptive »).
[11] Wittgenstein (1953), § 66.
[12] Voir Soulez (2005), p. 120-121 : « […] la grammaire wittgensteinienne vise un objectif positif qui est d’abord cette vision synoptique, laquelle ne peut être éventuellement atteinte que si l’on fait la chasse aux mots « métalogiques » [ » Y compris les mots « philosophie », « langage  »,  etc. Cf. Dictée « Philosophie », vol. 1, p. 61 », note d’A. Soulez]. La méthode doit cependant rester descriptive et opposer toujours une résistance au besoin de donner des explications profondes. L’attention portée aux règles l’emporte sur l’explication de ces règles et même nous en dispense car seule la vision des connexions intermédiaires suffit ».
[13] Soulez (2005), p. 121.
[14] Casati (1997), p. 209.
[15] Comme le résume Casati (1997), p. 210 : « Toutefois il est difficile de trouver chez Wittgenstein un argument vainquant contre le désir d’expliquer ou de rationaliser certains phénomènes, en particulier ceux du comportement humain ».
[16] Voir Casati (1997), p. 197 : « [l]a complexité des interactions entre philosophie et psychologie (dans les deux directions) est aujourd’hui telle qu’elle constitue un véritable objet théorique, et cela ne valait pas à l’époque où Wittgenstein écrivait, si ce n’est qu’en mesure marginale ».
[17] Voir Sperber (2002) : « J’argumentais [in Sperber (1994)], que les capacités spécifiques à un domaine [domain-specific abilities] étaient subordonnées à des véritables modules, que les modules existent dans tout format et dimension, y inclus les micro-modules de la taille d’un concept, et que l’esprit était complètement modulaire ».
[18] Sur l’architecture de l’esprit selon la perspective modulaire, voir Carruthers (2006).

domenica 20 febbraio 2011

Il male della banalità (Vogue19)



È nelle sale italiane la trasposizione cinematografica del best-seller di Mordecai Richler La versione di Barney. Un film da vedere anche - o soprattutto? - per chi non ha letto il libro…

Un film tratto da un libro innesca sempre la discussione se la trasposizione sia fedele o addirittura migliore dell’opera di partenza (secondo me è il caso della Solitudine dei numeri primi). In fondo è bizzarro questo accanimento nel confrontare due diversi generi di rappresentazioni narrative, come se l’ossessione per la fedeltà a un Originale contasse qualcosa per giudicare il valore estetico dell’opera di finzione. Ma tant’è, questo è l’andazzo della critica.
Della fedeltà al libro s’è parlato dunque molto anche nel caso di La versione di Barney tratto dal best-seller di Mordecai Richler, scrittore canadese, e diretto da Richard J. Lewis (già autore di numerosi episodi di CSI).
Un ulteriore elemento di valutazione estetica dovrebbe essere forse questo: il film ha fatto venire voglia di leggere il libro a chi non lo aveva ancora letto? È questo il mio caso. Il film mi ha emozionato molto: eccellenti gli attori (Paul Giamatti è Barney, Dustin Hoffman suo padre, nei panni un buffo e volgare ex-poliziotto ebreo, Rosamunde Pike è un’incantevole Miriam, la terza amatissima moglie di Barney; Scott Speedman è un irresistibile strafottentissimo Boogie), ma soprattutto – credo – per i temi trattati: amore, tradimenti, morte, carriera, figli, la vita umana insomma, nella cornice antropologica dell’ebraismo nordamericano che i film di Woody Allen hanno ormai reso famigliare agli europei.
Per gli ignari del plot la storia è avvincente perché si viene subito a sapere (come nel libro, narrato in prima persona) che Barney è da molti anni sospettato dell’omicidio del suo migliore amico, lo scrittore Boogie, anche se è stato assolto al processo per assenza di prove. I teorici come Noël Carroll che pongono l’essenza del cinema nella formulazione di una domanda trovano qui piena soddisfazione: per quasi tutto il film lo spettatore si domanderà se Barney sia colpevole o innocente.
Ma il film non emoziona per questa domanda e per la risposta che si troverà alla fine, il sospetto di omicidio è anzi quasi secondario rispetto al fluire degli eventi narrativi. I temi che compaiono sullo schermo sono i classici Grandi Temi: amicizia, amore, tradimento, malattia, la morte, il senso della vita, la memoria e il rimpianto. Detto così sembra banale, e infatti il film raffigura un essere umano banale, Barney Panofsky, a cui sono capitati alcuni eventi drammatici (ma a chi non ne capitano?). Certo, colpisce il suo amore inconsolabile per Miriam, che nasce da un colpo di fulmine avvenuto il giorno stesso del suo matrimonio con la precedente moglie: ma non è un devastante amore romantico e anche il dolore per la misteriosa scomparsa dell’amico Boogie durante un litigio non lascia a Barney sensi di colpa paralizzanti. Infine, la tragica malattia che lo priva della memoria, prima, e di tutte le facoltà cognitive poi, non può riscattare in nessun modo la sua esistenza.
Questo colpisce del Barney cinematografico: è banale il male che finisce per permeare la sua vita ed è per questo che possiamo identificarci con lui e dolerci che i nostri amori e la nostra vita possano concludersi in maniera così assoluta e definitiva.

sabato 19 febbraio 2011

Dieci sonetti politici di Alfonso Maria Petrosino

I

Nessuno ancora dei lacché collabora
e il Cavaliere resta senza macchia
(à la Lewinsky, organica). Di gabola
in trucco ed espediente si vivacchia.

Un giorno da leone o cento a pecora?
Silvio elencò, sfogliando una rivista
e mostrando un bidè come una specola,
una discinta (già bloccata?) lista:

"Ce l'ho, ce l'ho… ma questa qui mi manca…"
Si era al Grazioli, nel 2009.
Latore dell'aneddoto? Chirac.

Dalla patata, insomma, al patatrac:
all'epoca già c'erano le prove
riflesse da una porcellana bianca.


II

Lombardi ascolta i Rolling Stones e Ruby
è: "She would never say where she came from…"
ragion per cui lui la rilascia subito.
Eppure, a ben pensarci, pure i rom

non ti direbbero da dove vengono
ma non per questo puoi mandarli via.
Sono raminghi? Vadano a ramengo!
si dice. Attenti all'etimologia!

Perché "gitano" viene da "egiziano",
l'Egitto che oggi è messo a ferro e fuoco.
Se quindi si riflette e si compara,

se tanto mi dà tanto, o almeno un poco,
gli zingari che vivono a Milano
magari sono figli di Mubarak!


III

Come Napoleone dopo Lipsia
o come Giulio Cesare in Senato
a Silvio annunciano l'Apocalypse:
è messo molto male, è circondato

e inizia a stringersi quel cerchio. Oppure,
se i suoi palazzi fossero dei bunker,
allora sì che sembrerebbe il Fuhrer:
avide donne con le dita adunche

al posto dei cannoni dell'Armata
Rossa; l'ineluttabile disfatta
ha l'unica incertezza della data.

Non tanto il Volga quanto l'Olgettina
l'hanno fregato. Chiuso in casa, patta
aperta, ormai la fine si avvicina.


IV

E se anche fosse? Intendo, e se anche fosse
stata parente di Mubarak? Bè?
Perché trattarla meglio, o peggio? Resta
questo problema che nessuno osa

discutere: si tratta di una cosa
che al nostro popolo non entra in testa
(e includo con il popolo anche me).
La Rubyconda avrà le gote rosse

ma non mi sembra che provi vergogna.
Ma lasciamo che i giudici lavorino.
Elvio Zornitta fu messo alla gogna

ingiustamente. Fu arrestato Riina.
Ci sono medici che fanno errori
ma non abolirei la medicina.


V

Non sono un dealer e non sono un broker,
non so a che cosa serva l'IMF,
ma se il mercato somigliasse al poker
allora quello di Marchionne è un bluff.

Che a Mirafiori non investirà
lui lo ha deciso già, ma non lo esplicita;
divide gli operai sul voto ma
intanto commissiona una pubblicità.

Sono gli spot a garantire introiti:
al Superbowl quello costoso e lauto
in cui dice Eminem: "That's what we do."

Per tenere bellissima Detroit ho
il sospetto terribile che di auto
a Torino non ne faranno più.


VI

Sul muro di Bologna l'Aretino
ha fatto proprio un bel ragionamento.
In questo caso servirà? Persino
io che non ho memoria mi rammento

la storia della povera Virginia,
nobildonna ridotta a mezzobusto,
storia che più di un giornalista minia
con dei dettagli di cattivo gusto.

Be', questa storia cosa ci rivela?
Valuta i personaggi di contorno.
E' un action movie o una telenovela?

Interpreta o produce Berlusconi?
E chi censurerà le scene porno?
Qualcuno annuncerà buone visioni?


VII

Chiamarlo Codice Penale è giusto:
lui stesso, credo, in tempi non sospetti,
aveva detto di essere, in effetti,
l'imperatore Giustiniano e un busto

si era per questo fatto fare ad hoc
(eh no, quest'ultima è una balla mia).
Il Tribunale di Milano avvia
contro di lui qualche processo choc

per l'opinione pubblica del mondo,
per scoprire se sia stato lubrico
con delle minorenni, e se è concusso.

Ai giudici l'ardua sentenza. In fondo
è meglio un giudice che il bolscevico
che giustiziò l'imperatore russo.


VIII

Il surgelato non sarebbe male
se quando viene surgelato è fresco.
Ma in questo caso (cibo e commensale)
io non vorrei averli nel mio desco.

Non so perché si votino persone
che hanno il bisogno urgente di un'analisi.
Seduti sopra a comode poltrone
fermi determinano la paralisi.

Tra gli alisei impetuosi va la nave
del capitano Findus e alza spruzzi
di onde schiumose e non è mai in bonaccia.

E pesca i nostri governanti, brave
persone con lo sguardo di merluzzi
che tutto perdono, ma non la faccia.


IX

E' vero, approvo e sottoscrivo in pieno:
anch'io avrei senz'altro preferito
che la sinistra, tetra o arcobaleno,
vincesse grazie al voto e non col rito

abbreviato; che fosse la politica,
non la prostituzione minorile,
ad incastrarlo. La sinistra litiga,
si suddivide in centomila file

come formiche ubriache e intanto il giudice
grazie a precise indagini compone
il retroscena delle feste sudicie.

Pensando al mio paese mi intristisco.
Ma non fa niente; in fondo anche Al Capone
lo presero perché evadeva il fisco.


X

La sua reputazione è lesa... fa
continue gaffes... offende i cittadini
e i leader europei... la volontà
di strumentalizzare ai propri fini,

personalissimi, le istituzioni...
la sua politica internazionale
è velleitaria.... Insomma, Berlusconi
ha fatto tanto per l'Italia, male.

Così l'America ci lega a sé
e fa favori che riscuoterà.
La lista di quei cablogrammi è lunga

e da quei cables se ne deduce che
non è più Silvio a farlo a Ruby ma
l'America all'Italia il bunga bunga.

mercoledì 16 febbraio 2011

Una mia mail nel dibattito su una lista civica per i beni comuni, a Torino

 ...
La direzione indicata da Ugo Mattei mi sembra la migliore e la più forte, sia dal punto di vista teorico che pratico: chi vorrà impegnarvisi non ha la garanzia della vittoria, ma non stiamo giocando né facendo una guerricciola politica
Vogliamo riconfigurare una nuova sinistra veramente e fortemente riformista (il che significa più rivoluzionaria di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria libresca e puramente mentalistica) a partire dalle nuove idee proprie dello spirito del tempo, di cui la nozione di “beni comuni” appare essere una possibile chiave di volta.

Non si dica che è tardi per un simile esperimento, perché molti di noi auspicavano scelte di questo genere DA MESI, quindi semmai, sono gli attendisti che ora devono accelerare il ritmo per unirsi alla corsa comune di una sinistra che immobile non era proprio, almeno nel guazzabuglio interiore delle passioni.

L’unica obiezione virtualmente preoccupante cui mi pare si debba rispondere è la seguente: e se non riusciamo? Ebbene, perché non rivoltare la domanda così: se scegliessimo la via più facile, cioè tentare di eleggere almeno un rappresentante scelto in seno alla sinistra istituzionale, QUESTO CHE COSA CAMBIEREBBE? Dobbiamo accontentarci di sperare di venire talvolta ascoltati per finta oppure dobbiamo cercare di imporre sulla scena pubblica nuove parole d’ordine che – come ieri diceva benissimo Ugo – non siamo noi a comandare ma si stanno imponendo alle masse per la loro forza oggettiva?
Dobbiamo impegnarci per tentare di avere una voce critica nel deserto politico o vogliamo provare a ribaltare il tavolo irrompendo sulla scena politica con una forza nuova, una rappresentanza rinnovata, idee chiare distinte oneste e forti, elaborazioni nuove e profonde, parole fresche e autentiche e non cariche di una storia pur nobile ma ormai logorata dal tempo e dalla sorte?

Io non ho dubbi: se le domande che pongo sono giuste, bisogna rispondere con coraggio e passione che CERTAMENTE NOI NON CI ACCONTENTIAMO PIU’ DI UNA SINISTRA CHE SI ACCONTENTA.
Tentiamo la nostra sorte, mobilitiamo la cittadinanza tutta (perché su questi temi ho la certezza che sia persino possibile raccogliere simpatie da chi è estraneo alla sinistra), diamoci da fare e facciamoci vedere: se riusciamo sarà un trionfo politico e morale, se falliamo sarà comunque un coraggioso e onorevole tentativo, meglio che deperire stando alla finestra.
L’unico almeno per il quale io mi senta di battermi fino in fondo senza riserve.

Cari saluti

Edoardo Acotto

Un mio progetto fallito del 2006: Pacemecum, piccolo vademecum della nonviolenza (suggeritomi da Einaudi)


Regole pratiche per la direzione dell’ingegno nonviolento


  1. Introduzione. La banalità della nonviolenza

Distinguiamo tra nonviolenza e "pacifismo". L’ovvietà della violenza è tale solo all'interno di una cultura che considera ovvia la violenza. Ogni cultura giustifica certi tipi di violenza ma la nonviolenza può superare la relatività delle culture. Razionalità della nonviolenza: reagire violentemente non garantisce il minor danno complessivo. Differenza tra violenza e aggressività. La nonviolenza non è una filosofia astratta ma uno stile di pensiero e di comportamento valido in tutte le circostanze.

1.   non reagire con violenza/reagisci con nonviolenza

È possibile dominare e trasformare i propri istinti aggressivi, posto che li si sappia riconoscere e identificare: l'autocontrollo è alla portata di tutti. Tecniche di base del comportamento nonviolento. Esemplificazione di casi concreti: di fronte a situazioni quotidiane si danno possibilità di comportamento che normalmente non vengono prese in considerazione per mancanza di educazione alla nonviolenza.

  1. non agire con violenza/agisci con nonviolenza

Cause ed effetti: comprendere il circolo dei comportamenti violenti. Manifestare il proprio dissenso contro la violenza e accettarne le conseguenze: l’esempio della protesta antibellicista di Thoreau. Le tecniche della nonviolenza. Tra i due litiganti il terzo media: tecniche di analisi e comunicazione dei propri "fondamenti" emotivi (Pat Patfoort).

  1. non parlare con violenza/parla con nonviolenza

La violenza verbale è violenza tout court: imparare a soppesare le parole in ogni situazione può aiutare a prevenire o smorzare la violenza. La nonviolenza mantiene sempre aperta la via del dialogo: la lettera di Gandhi a Hitler come esempio di radicale ideologia nonviolenta. La responsabilità dei media. Caratteristiche dello stile comunicativo nonviolento. Ironia vs sarcasmo.

  1. non pensare con violenza/pensa con nonviolenza

Come orientare i propri pensieri? Il pensiero è per sua natura involontario e sfugge alla presa di una coscienza non allenata a controllarsi. Non indugiare nella rappresentazione mentale violenta. Lasciar scorrere i pensieri violenti come il vento tra i rami. Analizzare i pensieri violenti per capirne le cause. «Ci mancavano gli idioti dell'orrore».

  1. non sentire con violenza/senti con nonviolenza

Orientare il proprio sentire: il pan-mentalismo buddhista come esempio di tecniche di trasformazione di sé. La cultura della violenza è contagiosa: contrastare l’interiorizzazione della violenza per spezzare il circolo della "pedagogia nera". La violenza verso gli animali e verso l’ambiente è consustanziale alla violenza verso gli esseri umani. Coetzee e Singer: l'empatia (e i neuroni-specchio).

martedì 15 febbraio 2011

San Valentino e la crisi dell’amore (Vogue20)


[Pubblicato su Vogue.it]

In un libro recentemente tradotto in italiano, Elogio dell’amore (Neri Pozza), il filosofo francese Alain Badiou sostiene che l’amore è il mondo del Due, ossia una forma di esistenza non più isolata e immersa nel narcisismo dell’ego. Ma sembrano essere sempre meno coloro che hanno ancora voglia di sdoppiare il loro mondo, per non dire moltiplicarlo e aprirlo alla relazione con gli altri.
Che senso ha la festa degli innamorati, oggi? L’invenzione della festa di San Valentino viene fatta risalire alla cerchia del poeta inglese Geoffrey Chaucer (1343-1400) e si sovrappone ai precedenti lupercalia romani, celebranti la fertilità. La produzione industriale delle cartoline amorose (“valentine”) risale al XIX secolo, ovviamente negli USA, ma la tradizione proviene dal Regno Unito e risale più indietro nel passato.
In Italia la festa di San Valentino, come Halloween, è forse diventata popolare anche grazie alle strisce dei Peanuts: più di un bambino timido della mia generazione si sarà identificato con il povero Charlie Brown, in ansia per una valentina che non giunge mai.
Il senso dell’amore sta più nel desiderio che nel possesso, come molti filosofi hanno ben visto (di solito condannando il desiderio amoroso).
Ma in una società in cui giovani ragazze possono prostituirsi a vecchi uomini di potere, adducendo una “relazione affettiva” come giustificazione buona solo per gli spiriti dormienti, la festa degli innamorati rischia di apparire come una festa fuori tempo e surreale.
Il problema è generale: la festa nella società contemporanea ha perso sia l’aura sacra che il senso laico. Le nostre festività sono posticce e intrise di irredimibile consumismo (mentre scrivo mi accorgo che il WWF mi ha inviato via mail una campagna a proprio sostegno per San Valentino, con immagini di animali apparentemente intenti in effusioni amorose: senza capire bene perché, provo una leggera vergogna…).
Se il fulcro di ogni festa contemporanea viene eroso e svuotato di senso, in una società che venera il sesso - eventualmente prezzolato - l’amore non è un valore capace di arginare la mercificazione nichilista. Sembra che Nietzsche avesse ragione: nel suo tramontare, la società occidentale non conserva intatto alcun valore e non sa (per ora?) crearne di nuovi e autentici. 

martedì 8 febbraio 2011

Pensieri influenzati

Quando sei stanco sei stanco, non c'è niente da fare. Quando ti stai ammalando devi ammalarti, non puoi resistere. Se i pensieri non funzionano devi andare a dormire, non puoi ostinarti. Al massimo potresti guardare un film sul computer, ma è troppo complicato.
Quando devi fermarti, fermati. Quando devi andare avanti avanza.
Se avanzi non recedere, e quando inciampi non spaventarti. Se è difficile dacci dentro, se è facile non illuderti.
Quando hai nausea tappati il naso. Se ti viene il vomito non pensarci.
Se vuoi piangere avanti piangi. Se vuoi urlare urla e insulta. Se vuoi fermarti stop.
Perché stai lì, che cosa vuoi fare ancora, che cosa aspetti? Perché aspetti, rassegnati, non insistere, non credere a nulla. Se sprofondi sprofonda e chissenefrega.
Quando lavori sii serio, non mentire, non svicolare, non aggirare gli ostacoli, non risparmiarti, non hai nulla da conservare.
Se qualcuno muore è finita, non tornerà più.
Quando nasce un bambino non importa nient'altro, soffrirà ma ha più futuro di te e tutti i tuoi amici messi insieme.
Il tuo futuro è finito, pazienza, hai avuto un bel passato. Be', in ogni caso un passato l'hai avuto.
Non lamentarti, non ne hai diritto, pensa a chi ne ha diritto, non puoi lamentarti tu.
Stai zitto.
E vivi.