E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

domenica 20 febbraio 2011

Il male della banalità (Vogue19)



È nelle sale italiane la trasposizione cinematografica del best-seller di Mordecai Richler La versione di Barney. Un film da vedere anche - o soprattutto? - per chi non ha letto il libro…

Un film tratto da un libro innesca sempre la discussione se la trasposizione sia fedele o addirittura migliore dell’opera di partenza (secondo me è il caso della Solitudine dei numeri primi). In fondo è bizzarro questo accanimento nel confrontare due diversi generi di rappresentazioni narrative, come se l’ossessione per la fedeltà a un Originale contasse qualcosa per giudicare il valore estetico dell’opera di finzione. Ma tant’è, questo è l’andazzo della critica.
Della fedeltà al libro s’è parlato dunque molto anche nel caso di La versione di Barney tratto dal best-seller di Mordecai Richler, scrittore canadese, e diretto da Richard J. Lewis (già autore di numerosi episodi di CSI).
Un ulteriore elemento di valutazione estetica dovrebbe essere forse questo: il film ha fatto venire voglia di leggere il libro a chi non lo aveva ancora letto? È questo il mio caso. Il film mi ha emozionato molto: eccellenti gli attori (Paul Giamatti è Barney, Dustin Hoffman suo padre, nei panni un buffo e volgare ex-poliziotto ebreo, Rosamunde Pike è un’incantevole Miriam, la terza amatissima moglie di Barney; Scott Speedman è un irresistibile strafottentissimo Boogie), ma soprattutto – credo – per i temi trattati: amore, tradimenti, morte, carriera, figli, la vita umana insomma, nella cornice antropologica dell’ebraismo nordamericano che i film di Woody Allen hanno ormai reso famigliare agli europei.
Per gli ignari del plot la storia è avvincente perché si viene subito a sapere (come nel libro, narrato in prima persona) che Barney è da molti anni sospettato dell’omicidio del suo migliore amico, lo scrittore Boogie, anche se è stato assolto al processo per assenza di prove. I teorici come Noël Carroll che pongono l’essenza del cinema nella formulazione di una domanda trovano qui piena soddisfazione: per quasi tutto il film lo spettatore si domanderà se Barney sia colpevole o innocente.
Ma il film non emoziona per questa domanda e per la risposta che si troverà alla fine, il sospetto di omicidio è anzi quasi secondario rispetto al fluire degli eventi narrativi. I temi che compaiono sullo schermo sono i classici Grandi Temi: amicizia, amore, tradimento, malattia, la morte, il senso della vita, la memoria e il rimpianto. Detto così sembra banale, e infatti il film raffigura un essere umano banale, Barney Panofsky, a cui sono capitati alcuni eventi drammatici (ma a chi non ne capitano?). Certo, colpisce il suo amore inconsolabile per Miriam, che nasce da un colpo di fulmine avvenuto il giorno stesso del suo matrimonio con la precedente moglie: ma non è un devastante amore romantico e anche il dolore per la misteriosa scomparsa dell’amico Boogie durante un litigio non lascia a Barney sensi di colpa paralizzanti. Infine, la tragica malattia che lo priva della memoria, prima, e di tutte le facoltà cognitive poi, non può riscattare in nessun modo la sua esistenza.
Questo colpisce del Barney cinematografico: è banale il male che finisce per permeare la sua vita ed è per questo che possiamo identificarci con lui e dolerci che i nostri amori e la nostra vita possano concludersi in maniera così assoluta e definitiva.

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