Fino a qualche anno fa non mi dispiaceva l'idea di morire su una barricata, combattendo contro un golpe fascista.
Da quando ho un figlio, invece, penso spesso con ansia che se il sistema sociale italiano crollasse, se si creasse una situazione rivoluzionaria a rischio di violenta repressione poliziesco-militare e conseguente restaurazione tecnodittatoriale, la mia unica preoccupazione sarebbe Agostino, mio figlio. Come metterlo in salvo? Come preservarlo dalla violenza?
Come tollerare che un bambino sia esposto al male degli uomini adulti? Lo so, sembra che tolleriamo quotidianamente che ciò avvenga, ma io credo che in realtà non lo tolleriamo affatto, chi più chi meno siamo tutti pronti a ribellarci fino alla morte per difendere un qualsiasi bambino, un qualsiasi debole, un qualsiasi oppresso: sono immagini sostanziali di noi stessi, della nostra stessa precarietà e finitezza. Gli atti di eroismo di persone comuni si spiegano così, con l'istinto altruistico e l'amorosa cooperazione che nella nostra terribile specie convivono accanto ai peggiori istinti egoistici e distruttivi.
Ho pensato a come potevano vivere i genitori nei primi giorni di una dittatura come quella cilena. Che cosa pensavano le mamme e i papà mentre i feroci assassini fascisti cominciavano a sterminare sistematicamente i cileni democratici?
Ho improvvisamente intuito che non potevano pensare ad altro che ai loro bambini, la cui vita era cognitivamente protetta - fino al momento del disastro reale - dall'angoscia della guerra e della morte. Probabilmente prima di essere catturati e annientati, molti cileni giocavano coi loro bambini esattamente come prima, si sforzavano di farlo, per non turbare la meccanica e biologica calma irrequieta della quotidianità infantile.
Ha ragione Deleuze, i bambini sono la pura immanenza e il loro essere mondano è in qualche senso perfetto.
Ora so che se cominciasse la rivoluzione io dovrei guardare dentro la sfera del mondo del mio bambino per trarne luce e quiete.
Fino all'ultimo istante.