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lunedì 17 luglio 2017

Maman à Paris (Roman nouveau, 28)


Il 20 febbraio 1998, mia madre arrivò a Parigi. Andai a prenderla alla Gare de Lyon e prima ancora che salissimo sul métro che ci avrebbe portati al 54 di rue de Lancry, dove abitavo con Yves, mi aveva già detto che papà era in ospedale da tre settimane. Per "una crisi di fegato”. Quando ci incamminammo ero quasi contento di sentire che papà era in ospedale: credevo che lo avrebbero salvato, e che finalmente avrebbe iniziato a curarsi.
Non è il caso di infierire contro mia madre, sull’assurdità del suo finto essere tranquilla, anche se aveva visto mio padre giallo d'ittero ricoverato per tre settimane. Neppure voglio colpevolizzarla perché non mi aveva detto nulla, lasciandomi partire tranquillo per l’Inghilterra per passare le mie stupide vacanze di fine semestre. Tuttavia… Ne riparlerò.
Salimmo sul métro che doveva condurci alla fermata Jacques Bonsergent, dove abitavo accanto a Place de la République, in una viuzza che portava dritto dritto al famoso Hotel du Nord degli amanti del film. Il mio souvenir riguarda una frase della mamma: «Però, ieri, è insorta una complicazione». Quale complicazione? Era partita prima di avere notizie, nel pomeriggio avrei dunque dovuto telefonare alla sorella di mio padre per saperne di più. Ma perché era venuta a Parigi nonostante il ricovero di papà? La sua spiegazione fu la seguente: avrebbe perso i soldi del biglietto da lungo tempo prenotato.
Io tendo a sostituire questa giustificazione assurda con il suo desiderio inconscio di informarmi di persona del ricovero di papà.
Arrivammo a casa, dove ci aspettava Yves: le presentazioni tra lui e la mamma furono coerentemente poco festose. Mi precipitai al telefono per chiamare a Torino la vecchia zia. Parlava con un tono mogioe anestetizzato: disse che papà era grave. Lo disse come se fosse la cosa più ovvia e risaputa del mondo, ma a me sembrava del tutto irreale. Avevo l'impressione paranoica che mi avessero volutamente tenuto all'oscuro delle condizioni di mio padre.
La zia disse che i medici avevano parlato di due o tre giorni. Che tipo di giorni, mi domandai? Il mio io si stava rapidamente sdoppiando in un personaggio e uno spettatore di un film con me stesso per protagonista.
Capii d’un colpo, ma con leggero ritardo, che si parlava per la prima volta – e nella mia unica esistenza – si parlava per l’eternità futura dei probabili ultimi due o tre giorni che avrebbero separato mio padre dalla sua morte.