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mercoledì 26 gennaio 2011

Filosofia al cubo (Vogue17)

Tatiana Carelli, è laureata in filosofia teoretica, scrittrice, sceneggiatrice, in bilico tra parola e immagine. Durante gli studi ha lavorato come cubista nelle discoteche italiane ed estere: a questo mondo è ispirato il suo primo romanzo, Discocaine (Oscar, Mondadori 2004), seguito da Contratto di schiavitù (Strade Blu Mondadori, 2008) e racconti vari.


Come sei diventata cubista?

Ho iniziato questo mestiere per pagarmi gli studi, arrivando da 17 anni di danza classica: ero un'aliena, sopratutto perché non avevo le tette rifatte, elemento determinante nell'ambiente.


Ti sembra che quell’osservatorio particolare ti abbia fatto capire meglio certe caratteristiche degli esseri umani, magari quelli di sesso maschile?

Più che altro mi ha incuriosito l’Altro nel suo presentarsi; ciò che mi si è dischiuso è stato un mondo di relazioni basiche, animali, carnali, terrene, celestiali, tristi, cattive, ironiche, volgari, golose posso dire delle macchine desideranti, inutile da definire, un continuo flusso. Ogni momento è eterno, per quanto non ci sia già più. Come distinguere il maschile dal femminile? Non so, io non ho mai distinto...

In Discocaine ti soffermi spesso sull'abbigliamento e sulle scarpe, spesso di lusso: è una tua passione personale o è un elemento "ideologico" proprio di quell'ambiente?

Questa domanda mi fa sussultare per un attimo il sangue. Ahimè, “la scarpa” è una dipendenza. Tocca sinapsi di vanità. La sostituzione della zeppa, quella classica, truce, inestetica, con la scarpa-gioiello-feticcio è nata a Milano negli anni ‘90. La creazione della mise era fondamentale, ricercata nel concept e nell’interpretazione, oltre che un immenso piacere shopaholico. Zanotti, Sergio Rossi, Casadei, Westwood, Gucci, Dolce e Gabbana, Miu Miu... quanti soldi versati in quegli orgasmi inorganici.


Una domanda di scottante attualità: avresti mai pensato che il personaggio della Cubista avrebbe assunto una rilevanza sempre maggiore nell'immaginario italiano, insieme a una visibilità quasi inspiegabile in una società diversa dalla nostra?

Senza esser maghi era inevitabile immaginare che la cubista, apparenza pura, venisse stigmatizzata come vestale del divertimento. Ne aveva tutte le caratteristiche, e anche un velo etico della danza, per quanto dionisiaco, dietro cui ripararsi. Qual è la differenza? Il passo dalla cubista alla escort è abbastanza sdrucciolevole. Sempre di donne su un cubo, o ripiano, si parla (l’importante è che sia elevato, sovrastante, un piedistallo), la differenza è l’abbordabilità, via via più sottile finché c’è stato un capovolgimento per una tale immersione nell’oggetto desiderato, identificazione, per cui la cliente è diventata peggio della cubista: più denudata, disponibile. La velinizzazione ha cancellato l’idea di cubista, quel periodo oscuro che a volte precede la stigmatizzazione. L’ha inglobata. Così è diventata, più che icona, topos.
Tutto ciò è la conseguenza di un degrado dell’idea di donna messo in atto dalla nascita della tv privata e dall’abuso pubblicitario, un piano di mercificazione del corpo e mortificazione dell’anima, neanche tanto sottile. Un progetto politico di controllo che sta schiacciando il diritto alla femminilità e che rende difficile alla donna essere se stessa senza diventare o la costola mancante dell’uomo o moneta di carne.

L'opposizione di una giornalista tunisina: Sihem Bensedrine


Mi torna alla memoria il calvario della famiglia Mahdaui, in Tunisia : il padre imprigionato per appartenenza a un partito islamico e tutta la famiglia punita per i “crimini” commessi da uno dei suoi. Ma nel mio paese la sanzione non ha limiti nel tempo: la famiglia sarà perseguitata per tutta la sua esistenza.
Ali era meccanico in una fabbrica di gesso nel sud del paese. È sulla trentina quando viene arrestato per la prima volta nel dicembre 1991. All’uscita dalla prigione è costretto ad una quotidiana «sorveglianza amministrativa»: così la polizia lo obbliga a firmare un registro due volte al giorno, in orario diverso ogni volta in modo da impedirgli di organizzare la sua vita professionale e famigliare. Per nutrire la sua famiglia è costretto all’esodo, trova lavoro a Khetmin, nel nord del paese, in una fabbrica di mattoni. Ma non sfugge alla persecuzione della polizia, che di volta in volta si adopera per farlo licenziare. Diventano frequenti le sue convocazioni al distretto di sicurezza nazionale, dove spesso è guardato a vista, con o senza ragione. La sua casa è regolarmente invasa ad ore tarde della notte dalla polizia, che semina il terrore tra i suoi figli.
Braccato in tutti i lavori che trova, si decide a diventare venditore ambulante nei mercati delle pulci. La persecuzione si fa più dura, le sue mercanzie vengono calpestate o confiscate e lui subisce lunghe interrogazioni sull’origine del denaro investito per comprare la merce. Viene nuovamente arrestato e condannato a otto anni di reclusione per “terrorismo” : attualmente li sta scontando nella prigione di Harbub.
Non per questo termina il calvario della sua famiglia. Sua moglie Tunes viene regolarmente convocata al distretto di Biserta, dove la insultano e la picchiano affinché confessi la fonte delle sue risorse economiche. Si esercitano pressioni sul proprietario del suo tugurio affinché venga scacciata, e i suoi ritardi nel pagamento sono una buona scusa! Continuano le «inopinate visite notturne» della polizia: la sua cucina, i suoi piatti e la sua spazzatura vengono minuziosamente ispezionati per identificare il pasto mangiato alla sera dai suoi figli. E se per sbaglio qualche anima buona le ha offerto un’ala di pollo, ecco che si guadagna un pestaggio per farle denunciare il “benefattore”.
Siccome le è stato ritirato il libretto sanitario, Tunes non può più curare gratuitamente Munir, che ha la tubercolosi, Ahlem, che soffre di allergia, e nemmeno Wafa che non ha potuto essere scolarizzata perché soffre di una cataratta che le impedisce di vedere. È una famiglia di appestati, esclusa dalla categoria dei cittadini tunisini. La loro disperazione servirà da esempio.
Montassar, il figlio maggiore, è disgustato da questa vita da cani e attribuisce a suo padre la responsabilità di non averli saputi proteggere a causa delle sue scelte politiche. D’altronde i poliziotti che fanno irruzione nella loro casa non perdono mai l’occasione di ripeterglielo in mezzo a un mare di insulti. Notando il suo silenzio di approvazione, lo convocano a più riprese al commissariato e gli fanno intravedere la fine del calvario e la possibilità di una remunerazione che metterà fine all’indigenza della loro quotidianità. A questo giovane di sedici anni non occorre molto di più per venire reclutato e diventare colui che farà i rapporti circostanziati sugli amici di famiglia che tentano di venire in loro aiuto, nonché denunciare dopo due anni la propria madre, che finirà in prigione per aver ricevuto una lettera da parte di suo marito in carcere.
Sì, questa razza di uomini senza fede né legge li conosco troppo bene. Chiamano patriottismo la delazione e l’abilità nel cavarsela, il ricorso a metodi indegni per procurarsi denaro. Hanno il potere di corrompere i più fragili e di metterli in situazioni nelle quali non avranno altra possibilità se non sprofondare nell’infamia e bere il calice fino alla feccia. Grazie a questa capacità di «invischiare» quelli che non si sospetterebbe capaci di tali bassezze il regime giunge a mantenere un intero popolo sotto la sua dominazione, e a disinnescare ogni tentativo di ribellione di massa.
I ribelli, coloro che non si possono «sporcare» faranno la figura dei pazzi, teste calde ai quali verrà comminata una sanzione esemplare.

[...]


Facendo appello ai servizi degli specialisti in relazioni pubbliche delle agenzie occidentali, il regime invita a più non posso, per soggiorni da favola e giri turistici, giornalisti, occidentali che ricoprono cariche elettive o sono dotati di poteri decisionali. Questi soggiorni comportano visite a centri o istituzioni che valorizzano i traguardi raggiunti dal potere e in cui tutti i successi e i punti forti dei tunisini sono strumentalizzati e presentati come opera del regime. Questa procedura reca i suoi frutti. Più d’uno viene sedotto e diventa sordo alle grida di disperazione delle vittime di questa dittatura.
Come ho potuto cadere nel tranello di questa propaganda, come ho potuto essere cieca a tal punto di fronte alla strumentalizzazione che il regime iracheno faceva delle sofferenze del suo popolo, come ho potuto non vedere oltre la evidentissima corazza di approvazione e unanimismo ostentata dagli artisti e dagli intellettuali che avevo incontrato?


[...]


Rientrando a Tunisi scopro che i giornali allineati sono scatenati contro di me perché ho fatto questo viaggio. Il giornale Ashuruq, per la penna di «SBH», il rappresentante della Tunisia all’Unione dei giornalisti arabi, sale «coraggiosamente» sugli spalti. Nessun appellativo mi è risparmiato: traditrice, rinnegata, serva dell’imperialismo americano e del sionismo... Agli occhi dell’opinione pubblica tunisina la questione palestinese e quella dell’Iraq costituiscono due questioni estremamente delicate nel momento in cui i due popoli vivono entrambi l’occupazione delle loro terre e la negazione dei loro diritti. Il giornalista dunque mi attacca su un terreno costituito da argomenti calunniosi legati a queste due cause.
Siccome provengono dal potere, quelle calunnie sono onorevoli. Le mie attività dissidenti mi valgono una forte ostilità che mi lusinga. Oggi si conoscono bene i piani per sottomettere i dissidenti che il regime di Ben Ali ha applicato minuziosamente dal 1987. Ha saputo maneggiare con destrezza il bastone e la carota, lusingando le ambizioni personali di coloro che sapevano dare accenti di verità alle loro subitanee conversioni e sprofondando nella miseria coloro che gli resistevano.
Ho conosciuto personalmente i misfatti dei servizi speciali del ministero degli Interni, che usano mezzi poco gloriosi come la violazione del domicilio, lo svaligiamento, i furti di beni, la confisca del passaporto, la privazione di risorse economiche, il tentativo d’assassinio o il fotomontaggio di album pornografici... E una costante sorveglianza poliziesca che dà il sentimento di vivere in una gabbia trasparente, senza possibilità di preservare una qualsiasi vita privata. Ovviamente, quando ci si rivolge all’autorità non c’è mai un’inchiesta, mai un procedimento penale!
Soffrivo per il mio paese, per le sue istituzioni deviate, prese in ostaggio da «delinquenti» che le usano come beni privati. «Non c’è legge, non c’è sicurezza per i cittadini di questo paese, non c’è altra regola se non quella della sottomissione»: è il messaggio che inviano a coloro che si avventurano a protestare.
Mi ricordo per esempio di quella domenica dell’agosto 2001. La città di Biserta era in stato d’allerta a causa di un ricevimento organizzato in mio onore da amici bisertini a casa di Am Ali Ben Salem, un oppositore di lunga data che non ha mai abbassato le armi di fronte a tutte le tirannie. Era per festeggiare la mia uscita di prigione. Tutti gli accessi che portavano a casa sua erano sbarrati da poliziotti in borghese, in numero sproporzionato. Mi ero abituata a vedermi alleggerita dei miei diritti di cittadina nello spazio pubblico. Poi era lo spazio privato ad aver subito l’assalto di quel verminaio che si arrampica su tutto quanto è vivo. Ma conservavo in fondo a me la folle speranza che la legge potesse essere di un qualche soccorso. Ciò che allora mi aveva afflitto era innanzitutto il silenzio della cittadinanza, che assisteva allo spettacolo come se fosse fuori dall’evento, mentre erano i primi ad essere impediti nella loro libertà di movimento; ma mi aveva afflitto soprattutto la replica del capo della polizia di Biserta che rispondeva alle mie domande sulla legalità dei suoi atti: «Io sono la legge e quello che decido è legale!»
Si ha un bell’esserci abituati, ma udirlo formulare così dalla bocca di colui che è considerato rappresentare la legge, ti raggela. Non c’è più stato di diritto, semplicemente non c’è più diritto. E ti invade la tristezza di vedere le istituzioni del tuo paese fatte a pezzi.
Pochi si ricordano oggi del clima ripugnante che ha minato gli ambienti democratici durante la prima fase del regime di Ben Ali, preludio a un’impresa di sottomissione della società civile. Quel periodo ha preceduto lo scatenamento della fase repressiva e l’instaurazione del terrore come metodo di governo. Il regime non ha inventato nulla; non ha fatto altro che recuperare una vecchia regola hitleriana: «Corromperò tutto». Il potere poliziesco iniziò così a sommergere la scena mediatica con nuove testate giornalistiche «private», interamente dirette e finanziate dai suoi servizi, emarginando i giornali indipendenti fino a farli scomparire; allo stesso modo ha lanciato nel circo mediatico battaglioni di nuove «penne» passate per una formazione speciale, la scuola della disinformazione, e incaricate di denigrare sistematicamente gli oppositori con l’obiettivo di favorire il disgregarsi delle organizzazioni indipendenti, di darne un’immagine negativa e decadente, spingendo i cittadini a disertare in massa lo spazio pubblico.
Dunque sono abituata agli sgorghi di fango dei giornali di fogna. Da anni la normalità sono gli attacchi alla reputazione dei dissidenti con campagne di stampa diffamatorie, senza diritto di replica o di rettificazione su altri media, visto che alla stampa libera è stata messa la museruola.
D’altronde i tunisini hanno appreso a decodificare questi messaggi. Comprendono che se un militante della libertà è bersaglio del potere significa che sta sferrando seri colpi all’immagine di quel potere corrotto. Una donna mi avvicina in un luogo pubblico e mi dice: «Se davvero si tratta di connivenza con gli americani dovrebbero incensarvi, piuttosto, visto che sono alleati degli americani e hanno appena firmato un accordo per una base americana in Tunisia». Questo buon senso popolare mi rassicura, tanto quanto mi inquietano i pregiudizi dell’ambiente politico.


[da Lettera a un'amica scomparsa in Iraq, Nottetempo, 2006]