Tatiana Carelli, è laureata in filosofia teoretica, scrittrice, sceneggiatrice, in bilico tra parola e immagine. Durante gli studi ha lavorato come cubista nelle discoteche italiane ed estere: a questo mondo è ispirato il suo primo romanzo, Discocaine (Oscar, Mondadori 2004), seguito da Contratto di schiavitù (Strade Blu Mondadori, 2008) e racconti vari.
Come sei diventata cubista?
Ho iniziato questo mestiere per pagarmi gli studi, arrivando da 17 anni di danza classica: ero un'aliena, sopratutto perché non avevo le tette rifatte, elemento determinante nell'ambiente.
Ti sembra che quell’osservatorio particolare ti abbia fatto capire meglio certe caratteristiche degli esseri umani, magari quelli di sesso maschile?
Più che altro mi ha incuriosito l’Altro nel suo presentarsi; ciò che mi si è dischiuso è stato un mondo di relazioni basiche, animali, carnali, terrene, celestiali, tristi, cattive, ironiche, volgari, golose posso dire delle macchine desideranti, inutile da definire, un continuo flusso. Ogni momento è eterno, per quanto non ci sia già più. Come distinguere il maschile dal femminile? Non so, io non ho mai distinto...
In Discocaine ti soffermi spesso sull'abbigliamento e sulle scarpe, spesso di lusso: è una tua passione personale o è un elemento "ideologico" proprio di quell'ambiente?
Questa domanda mi fa sussultare per un attimo il sangue. Ahimè, “la scarpa” è una dipendenza. Tocca sinapsi di vanità. La sostituzione della zeppa, quella classica, truce, inestetica, con la scarpa-gioiello-feticcio è nata a Milano negli anni ‘90. La creazione della mise era fondamentale, ricercata nel concept e nell’interpretazione, oltre che un immenso piacere shopaholico. Zanotti, Sergio Rossi, Casadei, Westwood, Gucci, Dolce e Gabbana, Miu Miu... quanti soldi versati in quegli orgasmi inorganici.
Una domanda di scottante attualità: avresti mai pensato che il personaggio della Cubista avrebbe assunto una rilevanza sempre maggiore nell'immaginario italiano, insieme a una visibilità quasi inspiegabile in una società diversa dalla nostra?
Senza esser maghi era inevitabile immaginare che la cubista, apparenza pura, venisse stigmatizzata come vestale del divertimento. Ne aveva tutte le caratteristiche, e anche un velo etico della danza, per quanto dionisiaco, dietro cui ripararsi. Qual è la differenza? Il passo dalla cubista alla escort è abbastanza sdrucciolevole. Sempre di donne su un cubo, o ripiano, si parla (l’importante è che sia elevato, sovrastante, un piedistallo), la differenza è l’abbordabilità, via via più sottile finché c’è stato un capovolgimento per una tale immersione nell’oggetto desiderato, identificazione, per cui la cliente è diventata peggio della cubista: più denudata, disponibile. La velinizzazione ha cancellato l’idea di cubista, quel periodo oscuro che a volte precede la stigmatizzazione. L’ha inglobata. Così è diventata, più che icona, topos.
Tutto ciò è la conseguenza di un degrado dell’idea di donna messo in atto dalla nascita della tv privata e dall’abuso pubblicitario, un piano di mercificazione del corpo e mortificazione dell’anima, neanche tanto sottile. Un progetto politico di controllo che sta schiacciando il diritto alla femminilità e che rende difficile alla donna essere se stessa senza diventare o la costola mancante dell’uomo o moneta di carne.
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