E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

giovedì 20 luglio 2017

Zio Leone (Roman nouveau, 31)



Arrivato a Porta Susa c’era ad aspettarmi lo zio Leone, il fratello di mio padre. Avevo cinque zii paterni, ma i più famigliari erano quelli che mi accolsero al mio arrivo a Torino: la zia Pierina e lo zio Leone.
Credo di ricordare le prime volte che sentii il nome dello zio, da piccolo: zio-leone era un nome impressionante, ti aspettavi qualcosa di leonino, ma invece trovi un signore logorroico con la barba bianca alla Balbo. Non sta la rosa nel suo nome.
Dall'età della ragione in poi avevo sempre considerato lo zio Leone un deficiente. Frequentare per più di un’ora lo zio mi metteva agitazione, perché parlava senza sosta delle proprie opinioni, senza curarsi degli ascoltatori. Non era certo cattivo, anzi gli volevo bene. Era un insopportabile scapolo egocentrico, forse inconsapevolmente omosessuale, un personaggio di un film di Verdone.
Al mio arrivo a Torino, questo zio mi saluta e mi fa salire sulla sua macchina per condurmi dagli altri zii, poiché era ancora presto per le visite in ospedale. Ero tranquillo, quasi sprezzante del fastidio di dover essere venuto a Torino da Parigi. Lo zio Leone era indecifrabile come sempre, con la sua barba fascista.
Pensavo che fosse tutto un equivoco: dopo la guarigione di papà mi sarei sfogato con lui raccontandogli come avessero esagerato questi zii tanto affettuosi e premurosi ma senilmente rimbambiti.

Partenza (Roman nouveau, 30)


Di quel sabato mattina ricordo la visita al Beaubourg, la passeggiata nel Marais e un pranzo in un ristorantino libanese, durante il quale bevevo birra, per calmarmi. In effetti in quel ristorantino libanese bevevo birra perché a Parigi io ero solito bere parecchia birra.
Ricordo la tensione crescente fra me e mia madre: lei non voleva lasciarmi partire, consigliava di aspettare, di vedere se fosse davvero il caso. Se fosse davvero il caso! Voleva forse che arrivassi troppo tardi al capezzale di mio padre? Se fossi arrivato troppo tardi per vedere mio padre non l’avrei mai mai perdonata.
Il giorno prima della morte di mio padre viaggiai in TGV da Parigi a Torino, in prima classe trovata d’urgenza, perché la zia aveva detto al telefono che papà si aggravava. Riattaccato il ricevitore piansi abbondantemente, seduto sulla sponda del mio letto parigino poggiato su mattoni (l’avevo trovato così al mio arrivo).
Poiché ignoravo la causa della malattia di mio padre mi lasciai tranquillizzare da un amico medico. La zia Pierina aveva detto che papà aveva una polmonite da miceti. Appresi allora che i miceti sono dei microfunghi. Non avevo mai sentito parlare di miceti che provocano polmoniti, ma mi abituai presto all’idea che esistono. Però l'amico medico mi aveva detto di stare tranquillo, perché le polmoniti curate per tempo non sono praticamente mai mortali, miceti o non miceti.
Durante il viaggio in treno ho letto The last tycoon, l’ultimo libro di Fitzgerald, comprato d'occasione nel mio viaggio in UK. Poco prima di partire per la mia vacanza avevo visto in un cinema di Parigi il film di Kazan.
La protagonista femminile di The last tycoon di Elia Kazan è una figura poco definita, oggetto d'amore del protagonista maschile: appare e scompare, entra ed esce dalla psiche di Monroe Stahr – un Robert de Niro giovane e bello, nella parte del produttore cinematografico d’assalto (tycoon). Tale fort/da frantuma il cuore dell'eroe. Kathleen Moore vuole infatti una vita tranquilla, ma Stahr non saprebbe tranquillizzare la vita di nessuno, soprattutto non la propria: fattosi da sé, venuto dal nulla, come gli ricorda un amico attore (Tony Curtis), non può sottrarsi alla spinta univoca e ormai distruttiva che prima lo rendeva squalo tra gli squali. Era un uomo d’affari forse disgustoso, i suoi affari erano il cinema: passione che rende innocenti spremendo denaro dai sogni delle persone.
Sthar amava un tempo una donna poi deceduta: Kathleen ne è un'apparente reincarnazione. Per un istante lei pare decidere di restare con lui, se solo Sthar confessasse il suo amore, la sua singolarità affettiva: «sì?», domanda lei che ha percepito un'intenzione comunicativa di lui nell’incontro che sarà l’ultimo.
«Niente», risponde lui deludendo tutti. Subito dopo, Stahr fa il balzo decisivo e trova le parole après coup: scrive una lettera in cui immette il suo fortissimo ti-amo: lei acconsente telefonicamente, per un istante, al suo tardivo desiderio. Lui: «Dimmi sì, subito!», lei: «Sì». Ma l’esitazione di Stahr ha ormai prodotto una sincope non più appiattibile sul punto di unione dei disgiuntissimi amori. Sempre più veloce, con ritmo ulteriormente differenziante, lei gli dice addio per telegramma: si sposa con un altro uomo a noi ignoto, proprio come deciso fin dall’inizio. Adesso, Stahr si ubriaca nel mezzo di un incontro importante, picchia il sindacalista delegato alle trattative (Jack Nicholson), rovina l’affare e se stesso, viene allontanato dalla casa di produzione di cui era poco prima il potentissimo genio ispiratore. Crede ancora di essere essenziale ma forse si è sempre ingannato e la sua volontà non era che la pura maschera di un ritmo sotterraneo da lui non comandato.
Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne, come onde del mare, agitate da venti contrari, fluttuiamo, ignari della nostra riuscita e del nostro fato.
È Stahr a essere ora decentrato, psichicamente solo, anche se la figlia del padrone della casa cinematografica lo ama fin dall’inizio. Ma non gli è mai stata così distante come nel momento in cui si avvicina all’uomo, annichilito, per confortarlo. Ora Stahr, divenuto tragicamente veggente può fantasticare su un’ispirazione improvvisa del passato: il nichelino è per il cinema, era la formula magica da lui creata per stregare un autore non in sintonia coi gusti del pubblico, un’improvvisazione che sembra una profezia del suo disastro. Il Terzo Uomo, lo Sposo di Kathleen, si vede di spalle, mentre nella prima occorrenza non si era ancora materializzato nella sua vittoriosa terzità, non rappresentava ancora la minaccia invisibile.
Alla fine Monroe scompare nel buio di un capannone cinematografico, dicendo – all’Amata, a noi pubblico – Non voglio perderti.
Cinema e amore svaniscono nello stesso sito.

Il libro di Fitzgerald non l'ho mai finito, anche perché faticavo a leggerlo in inglese.