Un giorno d'inverno portai una minuscola statuetta di Buddha sulla tomba di mio padre. Era il mio periodo buddhista, avevo l'ispirazione per fare un gesto privo di significato e tuttavia facilmente leggibile all'interno di una tradizione umana di culto dei morti.
La prima statuina che volevo portare a mio padre l'avevo regalata al bellissimo figlioletto del mio amico Max: eravamo in montagna per una riunione tra ex compagni di università, Viviana era incinta di Agostino. Tito aveva quattro anni e quando vide la statuina dorata che mi portavo sempre appresso, dopo che l'avevo posata sul tavolino al quale sorseggiavamo il nostro aperitivo tra vecchi amici in vacanza, la guardò con occhi incuriositi e avidissimi: “questo è Buddha”, gli dissi con benevolo tono di ammaestramento.
“Buddo!”, urlò Tito gioiosamente afferrando la statuina e impadronendosene in modo ostentato. Ebbi una piccola crisi interiore: era una statuina che adoravo, una specie di portafortuna su cui si concentravano tutte le mie quasi-credenze pseudo-buddhiste dell'epoca. Inoltre avevo già deciso di portarla sulla tomba di mio padre... E adesso quel moccioso la voleva per sé! Cercai di dominare l'angoscia furente che si stava formando da qualche parte nella mia psiche contorta: mi dissi che se Tito era attratto dal buddhino risplendente era giusto che diventasse suo, anche se privarmene mi generava un notevole disagio. Mi dissi che in fondo il buddhismo insegna proprio il distacco e mi tornò in mente il proverbio cinese che esprime il culmine dell'irrazionalità buddhista chan, poi zen: “se incontri Buddha sulla tua strada, uccidilo”.
Provai così a uccidere Buddha in quella statuina, ma forse non vi riuscii proprio benissimo, se ora sto scrivendo di questo fatto, a dieci anni di distanza. Successivamente trovai un'altra statuina simile a quella che avevo visto scomparire nella manina di Tito: ma non era altrettanto bella e insomma portarla da mio padre mi sembrava già un po' meno significativo.
Comunque mi recai al cimitero monumentale di Torino, dove ritrovai non senza fatica (devo sempre richiedere le coordinate alla mia vecchia zia) il lotto in cui stazionavano le spoglie mortali incenerite del mio genitore, appoggiai la statuina sul loculo di papà, mi sedetti nella posizione del loto, dopo essermi ficcato dei giornali sotto il sedere per evitare il freddo del pavimento cimiteriale, e provai a fare un po' di meditazione.
Niente, non sentivo niente, non mi veniva in mente nulla che io potessi fieramente lasciar scorrere nella mia mente, non i pensieri “che saltano di ramo in ramo come le scimmie”.
Non pensando niente non potevo staccarmi da niente. Nulla aveva senso, era tutto ridicolo e inutile: stavo davanti a un pezzo di marmo contenente un po’ di polvere, e negli avelli contigui c’erano pure dei cadaveri in putrefazione.
Quando tornai dopo un anno a visitare la tomba, la statuina era scomparsa.
Siamo usciti dal nulla, siamo fatti di nulla, stiamo tornando nel nulla.
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