E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

giovedì 3 marzo 2011

Frammento da "Diario buddhista": Il giorno che mio padre è morto

Il giorno che mio padre è morto ho subito pensato che la sua anima era custodita nel mio corpo, che l’avevo in qualche modo ereditata. Avevo già pensato la stessa cosa quand’era morto Gilles Deleuze, ma allora mi ero detto che doveva trattarsi soltanto di un frammento e non dell’anima intera. All’epoca non mi ero reso conto che queste fantasie significavano la naturalezza dell’idea buddhista della reincarnazione. Il succo dell’insegnamento pratico di Buddha, però, non è la reincarnazione bensì la presenza mentale. Per noi occidentali si tratta di una cosa difficile perché pensiamo l’attenzione come funzionale allo svolgimento di compiti. Per il buddhismo invece la presenza mentale libera dal dolore e consente al bodisatthva, il santo, di raggiungere il nirvana. Del resto per la dottrina zen il nirvana è sempre lì e si tratta solo di vederlo.

Ho voluto che mio padre fosse cremato, mi sembrava più naturale e credo che lui volesse così. Quando il vaso pieno di ceneri di mio padre ci è stato presentato, la zia si è avvicinata molto triste, ha guardato le ceneri e poi le ha toccate con due dita. Io non avrei potuto farlo, mi sarebbe sembrato un residuo di attaccamento a un corpo ormai annullato.

In un film buddhista alla fine il maestro muore e il suo discepolo deve cremarlo, come gli è stato ordinato dal maestro prima di morire. L’allievo prepara la pira poi arde il corpo del maestro, alla fine non restano che ceneri ma lui cerca con le mani e in mezzo a esse trova pezzi di ossa del cranio : prima le tiene tra le dita quasi incredulo, poi le tritura tutte con una pietra affinché le ceneri risultino omogenee. Quando ha ottenuto una polvere uguale se ne va in giro per il bosco e sparge le ceneri qua e là (ora si capisce che ha capito il senso vuoto del koan: «dove va il maestro del mio essere?» Non va da nessuna parte, perché pensare che il maestro incenerito ora sia nel bosco significherebbe non avere capito l’essenza di vuoto dei fenomeni.)

Avrei voluto sparpagliare le ceneri di mio padre in un bosco. Così facendo forse le avrei anche toccate, almeno un po’. Ma toccarle nell’urna come la zia, mi sembrava una cosa da non farsi.

È stata la morte di mio padre che mi ha aperto gli occhi sull’impermanenza: d’improvviso ho capito che chiunque può scomparire da un istante all’altro e senza la benché minima avvisaglia. E quando dico "chiunque" e "da un istante all’altro" intendo proprio chiunque e da un istante all’altro senza eccezione alcuna. Non spaventatevi però, non è una tragedia, anche se siamo attaccati alla nostra vita. È questo l’errore: essere attaccati a ciò che è impermanente. Mi rendo conto che può sembrare il discorso di un prete, ma è molto diverso, perché i cristiani credono nel regno di Dio dove tutti i buoni vivono in eterno. E in fin dei conti anche i malvagi vivono in eterno: perché l’idea di Don Giovanni all’inferno non ci terrorizza più di tanto? Non crediamo più all’inferno cristiano e forse percepiamo indistintamente che da cristiani seppur dannati si vive ancora dopo la morte. E se si vive dopo la morte anche in mezzo ai tormenti, dato che la paura di noi occidentali è proprio quella di scomparire nel nulla, chi se ne frega dei tormenti se almeno si continua a esistere? Le pene dell'inferno sono meglio del nulla eterno: un ragionamento inconscio di questo genere deve svolgersi nelle nostre menti occidentali impaurite e violente.

L’idea dell’annullamento del sé fisico e mentale è intuitiva, la paura della morte è fatta di paura che tutto di noi diventi nulla. Ora, proviamo a rovesciare il punto di vista: il buddhismo non nega questo annullamento, in un certo senso dichiara che esso è già sempre avvenuto: sub specie aeternitatis noi siamo già morti, perché di sicuro moriremo tra breve (è un tempo infinitamente breve quello che ci è dato). Avremo vissuto un istante, brevissimo se paragonato con la vita eterna del tutto. Ma questo non deve impaurire, perché in realtà non siamo separati dal tutto. Non lo siamo mai stati, si tratta solo di un’illusione dovuta all’ignoranza. Pensiamo di esser vivi perché ci sentiamo separati dagli altri ma la vera vita non ha nulla a che vedere con questo sogno di separatezza (principium individuationis).

D’altra parte il buddhismo insiste sulla sofferenza della vita e del morire. Come superarla? Vivendo in presenza mentale il tempo che ci è dato di vivere (credo che il riuscirci o meno dipenda dal nostro karma).

Come dice Wittgenstein: «Se, per eternità, si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine come il nostro campo visivo è senza limiti» (Tractatus, 6.4311).

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