So
che molti non saranno d'accordo ma penso che la canzone sanremese di
Arisa, Mi sento bene, sia quella più significativa e degna di
nota.
Tutti,
a destra e a sinistra (per motivi ovviamente opposti), concordano che
viviamo in un'epoca di passioni tristi per
dirla con Spinoza e lo psicoanalista Benasayag:
un'epoca dove trionfa l'atomizzazione della società e la
depressione, nemmeno sublimata in spleen. Una depressione spesso
travasata in pratiche esistenziali autodistruttive e
preoccupantemente individualistiche (e sessiste), come quelle cantate
dai rapper, tra i quali anche Achille Lauro di cui tanto si è
parlato per il suo inno alla Rolls Royce (automobile di lusso o droga
sintetica, o tutt'e due?).
La
canzone di Arisa, cantante alla quale nessuno nega evidenti doti
canore e musicali, ha un titolo e un testo alquanto banali, che ha
provocato il giudizio negativo di molti.
Io
voglio difenderla.
La
musica della canzone è interessante, tripartita com'è in un'intro e
una chiusa melense da musical disneyano, e in un corpo centrale
concitato dal ritmo serrato esaltante, con una linea melodica fatta
di guizzi verso l'acuto e rotonde ricadute alla partenza. Un esperto
mi ha suggerito che lo stacco tra primo e secondo tempo potrebbe
addirittura ricordare il David Bowie di Station to Station,
e in ogni caso, mi pare musicalmente figa, degno di Elio e le
storie tese o di un buon musical.
Il
testo della canzone propone una specie di visione zen adatta ai
nostri tempi, forse più femminile che maschile: rinunciare a pensare
troppo alla nostra finitudine, al passato, ai desideri
irraggiungibili, e aderire alla realtà può far sentire bene.
È
un messaggio ambiguo: se appare superficialmente banale è in realtà
ben difficile da praticarsi. D'altra parte, sul piano politico
rischia di essere quietista e reazionario, un rischio insito in
generale nelle filosofie orientali, che insegnano appunto a votarsi
all'adesione a ciò che è, più che la progettazione di ciò che
potrebbe essere e ancora non è (compito che in Occidente la
filosofia si è caricata sulle spalle da Marx e la sinistra hegeliana
in poi).
Da
una prospettiva pop-zen, Arisa indica una via individualmente
percorribile per staccarsi dalle passioni tristi: guardare una serie
alla tv, fa stare bene (per qualcuno fa persino pensare), fare l'amore fa stare bene, sentirsi belle perché
qualcuno ci desidera fa stare bene, ecc.
Questo
“stare bene” mi colpisce perché è ambiguo: da un lato sembra
indicare una rinuncia a qualcosa di più elevato o di più complesso,
dall'altro sembra un obiettivo difficile da raggiungere, nonostante
la sua apparente facilità (“quasi elementare e semplice”).
Le
premesse filosofiche non sono tra le meno serie: abbandonare il
desiderio di eternità (“basta non pensarci più e vivere”)
proprio di una buona metà della filosofia occidentale e di quasi
tutta la filosofia orientale); abbandonare la ricerca del senso
del transeunte (“chiedersi che senso ha, è inutile, se un
giorno tutto questo finirà”).
La
natura contradditoria e tragica della realtà è esplicitamente
definita “questo assurdo controsenso”: una visione
schopenhaueriana della realtà che non dispiacerebbe forse a
Houellebecq.
Il
messaggio pratico di Arisa, il suo “tetrafarmaco”, sembra essere
il non pensare al passato (“cosa ne sarà dei pomeriggi al fiume da
bambina, degli occhi di mia madre, quando questo tempo finirà? Se
non ci penso più mi sento bene”).
Tra i mali di vivere su cui fare epoché, come gli antichi stoici, Arisa annovera giustamente la vecchiaia (“non aver paura d'invecchiare”, una frase che potrebbe essere di Battiato). Nel buddhismo ci sono anche malattia e morte, ma a una canzone di Sanremo non possiamo chiedere troppo.
Tra i mali di vivere su cui fare epoché, come gli antichi stoici, Arisa annovera giustamente la vecchiaia (“non aver paura d'invecchiare”, una frase che potrebbe essere di Battiato). Nel buddhismo ci sono anche malattia e morte, ma a una canzone di Sanremo non possiamo chiedere troppo.
Se
facciamo un confronto con la canzone vincitrice di qualche anno fa,
Occidentalis karma, capiamo che per noi occidentali la filosofia
orientale ha due possibilità entrambe spettacolarizzabili: la sua
superficializzazione postmoderna e pop, da Battiato a Francesco
Gabbani, oppure la sua interiorizzazione dagli esiti imprevedibili, da
Schopenhauer a Noah Yuval Harari, e Arisa.
Se
contrapponessimo le due possibilità come Heidegger faceva per
l'autenticità e l'inautenticità, ricadremmo in un eroico dualismo
della scelta, poco probabile ai giorni nostri.
Lasciarci
trasportare dalla canzone di Arisa potrebbe suggerirci come trovare
nella nostra quotidianità per lo più alienata qualche isola di
tranquillità, se non proprio l'oceano di silenzio invocato dal
maestro Battiato.
“E
più non penso e più mi sento bene.”
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