Il Dilemma del prigioniero è un buon terreno di prova per l’applicazione della prospettiva nonviolenta. Il Dilemma è costruito in modo da non lasciare scelte: ci sono solo due attori e le conseguenze delle azioni sono calcolate astrattamente in modo da rendere di gran lunga preferibile un’opzione piuttosto che un’altra : una situazione al limite dell’irrealtà. Inoltre - e questo è il punto che riguarda più da vicino la nonviolenza – nel Dilemma la comunicazione è totalmente impossibile. Eppure la nonviolenza, come la realtà stessa, si basa proprio sulla comunicazione, anzi, la nonviolenza è (un certo tipo di) comunicazione. Il Dilemma è insomma costruito escludendo in partenza la dimensione nonviolenta, che ha nella comunicazione la sua dimensione e il suo veicolo privilegiato (e quasi unico).
Il Dilemma del prigioniero è un modello astratto, costruito selezionando certi tratti di realtà; da questo modello è escluso per essenza il modello di comportamento che potremmo chiamare di nonviolenza tecnica, ossia tutte quelle strategie di mediazione che le discipline sociali e i peace researchers hanno saputo inventare. Nel Dilemma, per esempio, si è scelto a priori che nessun Terzo Mediatore intervenga e far comunicare i due prigionieri. Perché questa scelta?
La comunicazione, in realtà, è (quasi) sempre possibile.
Una situazione storica simile al Dilemma è forse quella del confronto tra USA e URSS nell’epoca della guerra fredda relativamente all’escalation nucleare. Persino in quel caso le reali possibilità di comunicazione erano numerose e di fatto il conflitto nucleare che riempiva la fantasia degli sceneggiatori cinematografici e televisivi negli anni Settanta non è mai scoppiato (non è di poco conto il fatto che sia Gorbaciov che Shevardnadze attuassero con successo una politica di «disarmo asimmetrico» (cfr. Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, p.42).
Insomma se il Dilemma del prigioniero rispecchiasse davvero la realtà esprimendo la dinamica autentica delle situazioni umane e politiche, sarebbe forse difficile spiegare come si sia evitata la guerra nucleare, dato che le due superpotenze tendevano certamente a comportarsi come i prigionieri del Dilemma .
Il prigioniero buddhista
Volendo comunque prendere per buoni i termini del Dilemma, il comportamento del singolo prigioniero non è affatto scontato. Un prigioniero buddhista, per esempio, potrebbe svolgere un ragionamento come questo: « io e l’altro prigioniero siamo una cosa sola, perché né io né lui abbiamo una realtà individuale separata dal Tutto, la cui reale natura è il vuoto. L’interessere è la sostanza della realtà, e se io cercassi di salvare me stesso mettendo l’altro nei guai, in realtà danneggerei anche me stesso, perché lui e io siamo la stessa cosa. D’altra parte per lui rimanere in carcere potrebbe essere una grave sofferenza, mentre per me non è così terribile: dentro il carcere o fuori dal carcere, non fa differenza, l’importante è vivere in perfetta presenza mentale: dove, non importa. Se lui mi denuncia, ebbene, praticherò la presenza mentale qui dentro per i prossimi vent’anni.»
Con questo atteggiamento, forse possibile anche senza essere buddhisti (è sufficiente che "la voce della coscienza" impedisca di accusare ingiustamente altre persone), il prigioniero che pensa all’altro si espone al rischio di avere la condanna peggiore, ma ciò gli appare preferibile rispetto alla prospettiva di fare del male ad un’altra creatura.
Il prigioniero gandhiano
Un aspetto interessante del Dilemma è il fatto che non si dica se i due prigionieri sono colpevoli o meno. Uno dei pilastri della nonviolenza gandhiana è la nonmenzogna - per Gandhi, anzi, le due cose fanno tutt’uno. Un prigioniero gandhiano, se colpevole, dovrebbe ammettere la propria colpa per amore di verità : se anche l’altro prigioniero – colpevole – fosse un gandhiano, o semplicemente uno incline a dire la verità, i due avrebbero il massimo della pena, ma la nonmenzogna sarebbe salva. Si potrebbe d’altronde sostenere che, in caso di colpevolezza, entrambi accetterebbero la punizione che le leggi dello stato destinano loro.
Se poi i due gandhiani fossero innocenti, o l’uno innocente e l’altro colpevole, la strategia non cambierebbe: entrambi direbbero la verità, a prescindere dalla loro convenienza. Nemmeno questa assoluta dedizione alla verità è destinata a determinare il risultato più negativo: se i due sono innocenti, non accuseranno né se stessi né l’altro, e avranno il minimo della pena.
Anche in questo caso dunque – bizzarro ma non impossibile logicamente – il risultato non sarebbe quello "razionale" previsto dal Dilemma: non vi sarebbe anzi affatto Dilemma.
La prospettiva nonviolenta non è dunque conciliabile con la strategia "Tit for Tat" , di cui il Dilemma è un’illustrazione, e che si può sintetizzare così: cooperare se l’altro coopera, competere se l’altro compete (o anche: se c’è conflitto, confliggi, se no coopera).
Ma questo sembra essere il meccanismo spontaneo di ogni interazione umana, senza che vi sia il bisogno di formulare particolari strategie razionali.
Mettiamo alla prova il principio con un esempio fantastorico: quando si sarebbe dovuto aggredire Hitler? Al ripudio del Trattato di Versailles (marzo 1935)? All’occupazione militare della Renania (marzo 1936)? All’annessione dell’Austria (12 marzo 1938)? All’invasione dell’intera Cecoslovacchia in violazione dell’appena stipulato trattato di Monaco (marzo 1939)?
Se il principio "Tit for Tat" non si applica per una o più "mosse", che cosa bisogna fare all’ennesima mossa mancata? Il principio infatti non dice che sia bene reagire aggressivamente alle aggressioni dopo che si sono tollerate precedenti aggressioni. Potrebbe essere peggio…
Qualcuno potrebbe sostenere: «Se si fosse risposto in modo aggressivo al primo comportamento non-cooperativo di Hitler, applicando la regola "Tit for Tat", la Seconda Guerra Mondiale non sarebbe mai scoppiata». Forse. In ogni caso, in prospettiva nonviolenta ci interessa vedere se esistano alternative al "pan per focaccia".
Qui entra in gioco il pensiero della nonviolenza: se anziché attaccare militarmente Hitler quando vi fu l’invasione della Polonia si fossero presi provvedimenti, molto prima, affinché non si determinassero le cause che portarono Hitler al potere? Anziché proiettare il principio "Tit for Tat" sul momento della prima aggressione internazionale hitleriana si potrebbe pensare che si sarebbe potuto evitare il risentimento letale dell’intera Germania dopo la Prima Guerra mondiale .
In altre parole: dove inizia e dove finisce una catena causale relativamente all’innesco della violenza? Un vantaggio epistemologico della nonviolenza è quello di non isolare arbitrariamente un inizio e una fine alla catena, ma di ragionare in modo olistico anche relativamente al tempo storico (potremmo coniare il neologismo "cronolistico"...).
L’esempio del nazismo offre un’altro spunto di riflessione riguardo al principio "Tit for Tat": se il nostro comportamento deve essere simmetrico a quello altrui, e di fronte a una minaccia armata noi ci armiamo, questo genera il ben noto fenomeno dell’escalation militare.
Ma il fenomeno dell’escalation della violenza è la norma etologica per eccellenza: la Nonviolenza si propone esattamente di spezzare quel circolo normativo in modo efficace, se necessario anche unilateralmente.
REGOLA PRATICA (WITTGENSTEINIANA): Non pensare mai che la comunicazione sia impossibile, ma guarda che cosa puoi fare per comunicare migliorando la situazione di conflitto.
REGOLA ETICA (S. WEIL): «Sforzarsi di diventare ogni giorno più non-violenti in modo efficace».
4 commenti:
Vabè... ma se campi le ipotesi allora puoi dire tutto. Puoi pure dire che il teorema di Pitagora non vale se il triangolo non e' rettangolo....
QberTone
Sì ma nel Dilemma del prigioniero quale sarebbe l'ipotesi non cambiabile? Che qualsiasi prigioniero si comporterà egoisticamente? Forse che questa assunzione sulla natura umana non è fortissima? Alla propsettiva nonviolenta importa esattamente questo, come ben dici tu: cambiare le ipotesi di partenza, perché e su quelle che si edifica il dogma della natura violenta dell'uomo. Gli studi recenti (Tomasello, Gazzaniga ecc.) cercano di mostrare che nel corredo genetico umano c'è sia l'egosimo che l'altruismo.
Questo pezzo comunque l'avevo scritto come risposta a un input preciso di un editor che poi ha lasciato cadere il libro, probabilmente a ragione.
No. Io volevo dire semplicemente che il dilemma del prigioniero è un esempio accademico, cioè semplice e molto chiaro, per esemplificare un certo risultato della teoria dei giochi. Non ha senso criticare questo esempio perché non riflette la natura umana.
È un po' come cercare di confutare il teorema di Pitagora sulla base del fatto che nel mondo reale un triangolo supposto rettangolo magari potrebbe non essere proprio rettangolo.
QberTone
Ma anch'io sono convinto che il Dilemma non rifletta la natura umana e le situazioni probabili.
Tuttavia a me premeva provare a trovare una scappatoia etica al dilemma, immaginandomi la risposta buddhista equella gandhiana.
Anche perché l'editor che mi aveva criticato la nonviolenza assoluta mi aveva proposto il "tit for tat" come strategia razionale.
Posta un commento