Noam Avram Chomsky iniziò a impegnarsi contro la guerra in Vietnam negli anni ’60, quando era già professore di linguistica al Massachussetts Institute of Technology.
La sua presa di posizione in favore della contestazione pacifica, per motivi allo stesso tempo strategici ed etici, è ben illustrata in un articolo del 1967, Sulla resistenza: «L’argomento che la resistenza alla guerra dovrebbe rimanere rigorosamente non violenta a me pare inoppugnabile. Come tattica, la violenza è assurda. Nessuno può competere con il governo in questo campo, e il ricorso alla violenza, che di sicuro fallirà, non farà che spaventare e allontanare qualcuno che invece potrebbe essere convinto, e incoraggerà ulteriormente gli ideologi e gli amministratori della repressione violenta. Per di più, si spera che i partecipanti alla resistenza non violenta diventeranno essi stessi esseri umani di un genere migliore»[1].
Si tratta insomma di quel che Gandhi chiamava non-violenza come scelta tattica (non-violence as a policy), senza escludere una netta propensione morale per la non-violenza come convinzione (non-violence as a creed)[2].
L’orientamento politico di Chomsky, raro esempio fra gli intellettuali contemporanei, è l’anarchismo (e non il marxismo). È ferma convinzione di Chomsky che il comportamento umano sia fondamentalmente (“naturalmente”, se non dovessimo dichiarare la nostra ignoranza rispetto alla natura umana) cooperativo. Non per astratte teorie, ma perché l’analisi dei fatti storici lo dimostra in maniera lampante. Così almeno ritiene Chomsky, per cui l’insuperato paradigma di democrazia è la Barcellona rivoluzionaria del 1936.
Ora, la violenza contraddice evidentemente qualsiasi pulsione alla cooperazione, rappresentando il massimo di irrazionalità possibile.
La forza di Chomsky - che a molti detrattori appare piuttosto una debolezza - consiste nel non fornire teorie politiche preconfezionate e pronte per l’uso. La politica rappresenta per Chomsky un campo del comportamento umano che ha bisogno di azione coordinata e lotte intelligenti per la difesa degli elementari diritti umani, e non di metafisiche o -ismi alla moda nelle università occidentali.
Non essendovi regole prefissate, anche la politica, come gli altri domini dell’esistenza e del pensiero umani, è per Chomsky il territorio della libertà, della responsabilità e dell’impegno individuale e collettivo.
Ma per Chomsky la non-violenza non è una questione di etica pura. L’opzione nonviolenta è analizzabile nelle sue soluzioni alternative, che in ultima istanza dipendono dalle scelte individuali, sempre irriducibili alle teorie.
In filosofia si parla spesso della diversità delle intuizioni su questioni fondamentali di metafisica ed etica. Proprio questo è l’approccio di Chomsky alla non-violenza: «Nessuno sa molto sulle tattiche da adottare [per l’affermazione della giustizia sociale]... quantomeno io ne so poco. Ma credo che bisognerebbe analizzare a fondo la questione della non violenza. Chiunque infatti cerca di raggiungere un obiettivo senza far ricorso alla violenza: che senso ha la violenza? Ma quando si comincia a invadere il campo del potere, può diventare necessario difendere i propri diritti, e per farlo a volte bisogna ricorrere alla violenza. Farvi ricorso o meno dipende dai valori morali di ciascuno. (...) Quindi se siete pacifisti dovreste chiedervi: ci si può difendere con la forza quando si è attaccati con la forza? Non tutti hanno lo stesso metro di giudizio su questa questione, che però non deve essere sottovalutata»[3].
Sulla natura della violenza Chomsky ha una posizione che può parere manichea: «Anche se alcuni ritengono che la violenza sia propria dei movimenti rivoluzionari, di solito la violenza proviene dal potere, ed è normale reagire con violenza quando si viene attaccati»[4].
Posizione diametralmente opposta a quella di Hannah Arendt, con cui Chomsky si trovò a discutere nel 1967 in occasione delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam: in Sulla violenza la Arendt affermava infatti che il potere è il contrario della violenza.
Chomsky analizza la non-violenza secondo una prospettiva politica, anche se non teorica.
In maniera un po’ volontaristica, non considera mai una situazione come determinata una volta per tutte: «Parlare di non violenza è facile, ma personalmente non credo che si tratti di un principio assoluto. (...) [Bisognerebbe riuscire ad] allargare la solidarietà in modo da impedire che vengano mandati i militari a picchiare la gente. Ma non è tanto facile, non succede automaticamente. In società stratificate e divise come quelle attuali, le élite non devono fare molta fatica per trovare qualcuno che abbia voglia di reprimere.
Ma anche questo può cambiare, anzi deve cambiare, perché c’è un limite alla violenza cui i movimenti popolari possono far ricorso se vogliono mantenere il loro carattere democratico. Se la difesa finisce per richiedere l’uso di armi o mezzi bellici, credo che qualsiasi sviluppo rivoluzionario venga bloccato e ogni possibilità di cambiamento venga distrutta»[5].
Quella che può sembrare un’attitudine eccessivamente ottimista di Chomsky in fatto di politica, non è un articolo di fede e nemmeno un dato psicologico.
E la posizione del grande linguista è cambiata nel tempo: «[...] quando partecipavo al movimento contro la guerra del Vietnam mi sembrava impossibile che potesse avere qualche effetto concreto. Coloro che aderirono al movimento nei primi anni sessanta pensavano al più che quanto stavano facendo avrebbe avuto come conseguenza anni di galera e vite distrutte. E, per inciso, io ci sono andato vicino. [...] Allora era impossibile immaginare che ci sarebbe stato qualche risultato. Ma sbagliavamo: i risultati sono stati innumerevoli, non grazie a quello che facevo io, ma grazie a quello che facevano migliaia e migliaia di persone in tutto il paese»[6].
L’impegno, la forza d’animo e l’ottimismo di Chomsky sono ormai leggendari. Tra i suoi ammiratori il grido della scrittrice indiana Arundhati Roy merita di essere riportato: «Non passa giorno che, per un motivo o per un altro, io non pensi tra me e me: “Chomsky zindabad”, “Viva Chomsky”»[7].
(Pubblicato in Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)
[1] N.Chomsky, Sulla resistenza, in I nuovi mandarini. Gli intellettuali e il potere in America, Einaudi, p.377
[2] G.Pontara, Introduzione a M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi 1996
[3] N.Chomsky, Capire il potere, p.254
[4] Ivi, p.255
[5] Ibidem
[6] N.Chomsky, Capire il potere, p.240-241
[7] La solitudine di Chomsky, in Guida all’Impero per gente comune, Guanda
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