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martedì 14 dicembre 2010

Musica e suono come apertura al mondo


Che valore può avere la musica contemporanea per la formazione di uno spirito libero? Spesso i compositori novecenteschi hanno radicalmente ignorato il pubblico, abbondantemente ricambiati. Ma gli atteggiamenti filosofici ed estetici sono forse sopravanzati dall’oggettivo interesse della cosa stessa: i suoni musicali nel mondo, non cose del mondo.
Tra i musicisti contemporanei, la palma dell’intellettualismo va probabilmente al dodecafonista americano Milton Babbitt, che pubblicò nel 1958 un famoso articolo dal titolo “Che importa chi ascolta?”. In questo testo l’autoapologia svolta dalla Neue Musik a partire da Schoenberg raggiunge il suo vertice: non soltanto non importa che il pubblico non apprezzi la nuova tecnica di composizione con i dodici suoni, e neppure bisogna sperare che la cultura musicale del futuro abitui l’ascolto del pubblico alla nuova arte. Semplicemente, l’ascoltatore non importa nulla. Con queste premesse, non c’è da stupirsi se la musica contemporanea della tradizione post-dodecafonica non ha conquistato i cuori del pubblico. In fin dei conti la boutade di Babbitt si potrebbe rovesciare: poiché il mondo non è certo sprovvisto di musica, che importa chi compone senza preoccuparsi di chi ascolta?
Relativamente all’ascolto e al gusto musicale il padre della dodecafonia, Arnold Schoenberg, aveva una posizione che oggi definiremmo culturalista: la mente dipenderebbe in maniera preponderante dalla cultura. All’epoca (anni ’20-’40 del Novecento) questa posizione aveva un implicito correlato scientifico (meglio sarebbe dire: ideologico) nella contemporanea psicologia comportamentista, secondo cui il comportamento umano può e deve spiegarsi integralmente con la relazione stimolo-risposta. Fornendo al pubblico i giusti stimoli - pensavano musicisti come Schoenberg - e abituandolo alla musica dodecafonica, il pubblico del futuro apprezzerà naturalmente la nuova musica. E se Schoenberg confidava nella natura culturale dell’ascolto musicale, il suo allievo e filosofo Anton Webern considerava la musica dodecafonica più naturale della vecchia musica tonale (da un punto di vista psicoacustico).
Webern sbagliava e gli psicologi cognitivi hanno poi mostrato con appositi esperimenti che le relazioni tra strutture sonore dodecafoniche non sono percepibili nemmeno dai musicisti esperti (D. Raffman: Is twelve-Tone music artistically defective?): da un punto di vista cognitivo, sono relazioni semplicemente inesistenti.

[incipit di un pezzo per la rivista Gli Asini]

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