E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

domenica 27 marzo 2011

L’impossibile teatrico. Carmelo Bene e la filosofia (appunti per una lezione alla Cattolica, 2005?)

Il teatro di Carmelo Bene è un teatro essenzialmente filosofico. Non nel senso che insceni situazioni filosoficamente pregnanti, come nel caso del teatro sartriano, o di quello, più recente, di Alain Badiou. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché è un teatro di pensiero, un teatro intrinsecamente intellettualistico e metafisico: Theatrum mundi secondo la metafora barocca, vale a dire un teatro che non accetta di essere ridotto e contenuto entro i ristretti confini del genere artistico “teatro”. Il teatro di Carmelo Bene è filosofico perché sono filosofici il suo linguaggio, i suoi presupposti, i suoi riferimenti, i suoi esiti pratici e teorici.
(Su Carmelo Bene hanno scritto Deleuze e Klossowski, e Carmelo Bene stesso negli ultimi tempi citava Deleuze e Derrida come propri riferimenti filosofici).

Teatro totale.
Il teatro di Carmelo Bene è o vuole essere un teatro totale, oltre quello tentato da Wagner <>.
Quanto scrive Derrida (p.244) a proposito di Artaud è perfettamente estensibile al teatro di Carmelo Bene:

Il teatro non poteva dunque essere un genere tra gli altri, per Artaud, uomo del (c.m.) teatro prima di essere scrittore, poeta o anche uomo di teatro : (...) perché la teatralità esige la totalità dell’esistenza e non tollera più l’istanza interpretativa o la distinzione tra l’autore e l’attore.

[Nota sulla praxis teatrale revoluzionaria: Marx ha posto nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi non devono più limitarsi a interpretare il mondo ma trasformarlo. Da Artaud a Carmelo Bene lo stesso può dirsi per il teatro <ossia: il teatro non deve più limitarsi a rappresentare il mondo ma deve trasformarlo>.]



Il testo minorato: il monologo. Phoné e “scrittura di scena”.
Un teatro filosofico e totale diventa possibile solo attraverso una ben precisa operazione che permette di ribellarsi al Reale, allo stato delle cose presente, alla struttura dominante, che è Potere.
Carmelo Bene amputa i dialoghi, perché i dialoghi veicolano gli elementi di potere, li fanno circolare : «tocca a te parlare» (per Deleuze il linguaggio non è essenzialmente comunicativo ma innanzitutto veicolo di ordine e comando: le “parole d’ordine” sono incorporate nel linguaggio). Le condizioni del dialogo sono rigidamente codificate (Deleuze osserva, criticamente, che i linguisti tentano di determinare gli “universali del dialogo”). La codificazione è data dalla struttura vigente della realtà, che è nello stesso tempo Potere concreto e astratto, politico & metafisico.

Nota : il teatro di Carmelo Bene dal punto di vista ontologico presuppone un continuum astratto concreto di tipo monistico...

Deleuze (p.105) spiega l’assenza di dialogo nel teatro di Carmelo Bene sulla base del proprio concetto di variazione continua : si tratta di un movimento ontologico attuale-virtuale, cioè concreto-astratto (né totalmente concreto né totalmente astratto), una variazione reale irrefrenabile che abolisce lo stato di cose presente, variazione più reale del sostrato variante.
Giustamente Deleuze richiama lo schönberghiano Sprechgesang, il canto-parlato del Pierrot lunaire : la voce monologante di Carmelo Bene va oltre, fa diventare il testo un semplice materiale per la variazione.

Nota : Il testo è la nozione che la filosofia francese detta poststrutturalista o postmoderna ha giocato contro la cosiddetta metafisica della presenza. Il testo, insieme di segni infinitamente interpretabili, dunque sempre differiti, mai completamente presenti, diviene metafora del mondo : il mondo  è testo. E al di fuori del testo, si dice, non vi sarebbe nulla : Il n’y a pas d’hors-texte.
Carmelo Bene ha sviluppato nel suo teatro una linea di fuga dalla metafisica presenzialista e dal testo, attraverso la phoné.

Per Carmelo Bene «il testo è l’attore, il testo è la voce» (Carmelo Bene, p.34), è «scrittura di scena, esaltante linguaggio teatrale nel suo farsi (avvicendarsi di suono-buio-luce-canto-silenzio-musica-voce-gesto-fonema-etc...)» (Carmelo Bene, p.25). Con questo bisogna intendere che l’azione scenica lascia/produce una traccia ontologica nell’essere, incarna l’evento nel corpo dell’attore che lo assume su di sé (lo controeffettua come dice Deleuze); si tratta di un divenire scenico che non ha altra consistenza temporale che quella della sua manifestazione attraverso l’attore-artefice, la macchina attoriale.
Deleuze (p.105-4) rileva l’importanza della scrittura di scena in Carmelo Bene¸ cioè di

indicazioni non testuali, e tuttavia interiori, che non sarebbero soltanto sceniche, le quali funzionerebbero come degli operatori, esprimendo ogni volta la gamma delle variabili attraverso le quali passa l’enunciato, esattamente come in una partitura musicale. Per parte sua è così che scrive Carmelo Bene, di una scrittura che non è solo letteraria né teatrale, ma realmente operatoria. (...) Tutto il teatro di Carmelo Bene deve essere visto, ma anche letto, benché il testo propriamente detto non sia l’essenziale. Non è contraddittorio. Piuttosto è come decifrare una partitura.

E qui si inserisce, secondo Deleuze, una prima critica di Carmelo Bene a Brecht, che avrebbe compiuto la più grande operazione critica ma soltanto nello scritto e non sulla scena. L’operazione critica completa consisterebbe invece nell’amputare gli elementi stabili, mettere tutto in variazione continua, trasporre tutto in modo minore attraverso gli operatori della scrittura scenica, che sono essenzialmente sottrattivi.
Per spiegare l’uso che Carmelo Bene fa della lingua secondo la variazione continua, Deleuze (p.106-7) riprende una frase di Proust da lui spesso citata per esprimere la propria idea di poetica: Les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère... L’idea dell’essere stranieri nella propria lingua risuona con quella nietzscheana scelta da Carmelo Bene come paradigma di estraniazione e inquietudine della parola: parlare a se stessi, nel proprio orecchio, ma in pieno mercato, sulla piazza pubblica... (Carmelo Bene, p.25).
Lo stesso Carmelo Bene (p.22) dice del proprio teatro monologante :

Monologare è già concorso in rissa (e, comunque, rissa d’artefice, d’autore). Monologo interiore è parlare-cantare Dio, non le sue lodi, ma la Sua-Nostra mancanza.
Dialogo è l’osteria del dover-essere. Tra religiosi non si dà dialogo. Si ascolta. [Frasi come questa supportano l’interpretazione di quanti, come Walter Pedullà, sostengono che Carmelo Bene testimoni la sopravvivenza ai nostri tempi dello spirito autenticamente religioso]
(...)
E infine : il «monologo» non è un momento come un altro a teatro. È, al contrario, l’intero spettacolo.  Monologo è teatro.

Seguono alcune indicazioni su “come nobilitare il dialogo”: Carmelo Bene (p.22).
Anche il famoso uso del play-back fatto da Carmelo Bene ha la funzione di mettere in crisi la lingua producendo distorsioni temporali e visive (una frase di Blanchot sempre ripresa da Deleuze afferma che parlare non è vedere).
E Deleuze (p.110) nota come al lavoro di afasia linguistica corrisponda in Carmelo Bene un lavoro di impedimento sulle cose e sui gesti (vestiti che fanno inciampare, accessori che rendono difficoltoso il movimento, gesti troppo rigidi o eccessivamente molli, frutti mangiati e continuamente risputati, ecc): è in uno stesso movimento che la lingua sfugge al Potere e l’azione al Controllo che la organizza.


Presenza e assenza.

L’ossessione filosofica e artistica di Carmelo Bene è la metafisica della presenza/assenza, strettamente legata al pathos concettuale della dicotomia vita/morte.

Questa inquietudine dei non-morti.
Che mi dice di muovermi sonnambulo
dalla mia semichiusa bara-letto?
(...)
Perché non-morto? Perché non ancora?
Chi mi pensa? Che mai inquieta i non-morti?

E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota [il mondo-palcoscenico].

La mancanza di cui ragiona Carmelo Bene è l’inconsistenza ontologica dell’essere, cioè degli enti anche umani, i non-ancora-morti (Heidegger li chiamava i mortali in maniera pregnante, cioè in opposizione ai divini e in relazione tetradica con la Terra e il Cielo): tutto è simulacro, cose e persone, dell’unico Reale, l’Essere. In quanto inattingibile il Reale è impossibile, puntiforme e mai disponibile : sempre trascendente.
La trascendenza del reale è religiosa.
È stato Heidegger in SuZ a mettere in luce come la metafisica occidentale, quindi il pensiero tout court, si fondi sulla dimensione temporale e ontologica della presenza. L’Occidente pensa in termini di presenza (per una coscienza). Come diceva già Sant’Agostino: il tempo è (il) presente. Per noi Occidentali il presente appare aproblematico : è “il dato” su cui si orienta il senso comune non meno della scienza (Heidegger parla di “semplice-presenza”).
L’assenza viene pensata come derivata: è mancanza, sottrazione di presenza. L’origine è presenza : tra gli attributi canonici di Dio c’è innanzitutto l’ens, cioè l’esistenza realissima garanzia di ogni altra esistenza. Anche dopo la filosofica morte di Dio, proclamata da Hegel e Nietzsche, l’Occidente continua a pensare l’essere nei termini della presenza.
Ma se si riattualizza la questione del senso dell’essere, che non è l’essere degli enti, categoria più generale di tutte, ma qualcosa di arcioriginario di cui si è obliato il senso, la presenza risulta problematica e derivata.
Per Carmelo Bene, uomo del teatro dotato di straordinaria acudeza metafisica, è originaria l’Assenza, il disessere, e l’attore è il luogo metafisico nel quale l’assenza si manifesta in alcuni dei suoi molteplici (infiniti) aspetti.
Se Antonin Artaud ha teorizzato il superamento della metafisica occidentale fondata sul predominio della presenza attraverso il Teatro della crudeltà, Carmelo Bene ha praticato tale superamento. Lo ha incarnato nel suo corpo intenso-macchina attoriale.


Il teatro e la sua critica sottrattiva.
Il teatro metafisico di Carmelo Bene è un teatro critico. La “critica” di Carmelo Bene è di tipo immanente : Carmelo Bene ha in uggia ogni critica ‘esteriore’ al suo oggetto, dato che la mancanza di cui soffre l’essere (lacanianamente manque-à-être) e quindi anche il teatro, non permette certo di fingere che il teatro sia qualcosa di oggettivabile, magari un’istituzione o un genere artistico, qualcosa insomma di solamente empirico. Per criticare il teatro occorre fare teatro, essere nel teatro, e in un certo senso per Carmelo Bene tutto è già sempre nient’altro che teatro («E il non-morto è difatti prostrato ai piedi d’una immensa cornice vuota»).
Il teatro critico, di Carmelo Bene consiste in un rigoroso metodo sottrattivo (Carmelo Bene 39). Carmelo Bene amputa la pièce originaria di uno dei suoi elementi : un Amleto di meno è il titolo dato da Laforgue al suo Amleto e Carmelo Bene segue questa strada della variazione sottrattiva. Ex : in Romeo e Giulietta Carmelo Bene neutralizza Romeo, lo mette tra parentesi, il che produce lo sviluppo del personaggio di Mercuzio, che in Shakespeare era una mera virtualità.
Attraverso questo doppio fenomeno sottrattivo/attualizzante, si costituisce sulla scena un personaggio. Il teatro critico di Carmelo Bene è un teatro costituente, la Critica è una costituzione (D 88), cioè ha una potere di creare ontologicamente (l’idea della creazione ontologica molteplice schizoide e istantanea è tipicamente deleuziana e si ritrova esasperata nella metafisica politica di Toni Negri).
L’uomo del teatro (Derrida) non è più autore né attore o regista. È un operatore (in senso affine a quello matematico : simbolo, elemento che produce trasformazione su un insieme di simboli entro un dato sistema sintattico-semantico). Questa operazione è la sottrazione doppiata dal movimento d’insorgenza di un elemento nuovo (il costituirsi dei nuovi personaggi). Doppio movimento, divenire, variazione.
Per Deleuze dunque, il teatro di Carmelo Bene mette in scena istanze extra-teatrali, ontologiche.
Lo scopo di questa “opera di levare” è sottrarre letteratura, sottrarre testo.
Deleuze (p.103) Il testo va amputato perché è la dominazione della lingua sulla parola. La lettera morta del testo testimonia l’invarianza, l’omogeneità, cioè le caratteristiche della lingua “maggiore”, dominante, istituzionalizzata. (Già Artaud si ergeva contro il testo : cfr. Derrida p.246)
Ex : nel Riccardo III sono amputati il sistema reale e principesco. Sono conservati solo Riccardo III e le donne. Secondo Deleuze ciò produce l’apparizione in scena dell’uomo di guerra, istanza alternativa e opposta a quella dell’uomo di Stato o re. (Dumézil : Tullo Ostilio, Tarquinio il Superbo sono “cattivi re”, personaggi inquietanti, venuti “da fuori”).
La sottrazione riguarda dunque sempre e innanzitutto gli elementi del Potere, gli elementi che rappresentano un sistema di Potere. A teatro tali elementi assicurano la coerenza del soggetto trattato e la coerenza della rappresentazione sulla scena.



Il personaggio, l’attore il Soggetto.
Attore è il suo malessere (Carmelo Bene, p.21)
Nel teatro del non-rappresentabile, l’Attore è infinito. (...) È l’infinito della mancanza di sé.
Mancanza non è un temporaneo venir meno dell’essere. È l’esistenza tutta un venir meno.
Il soggetto-Attore è tale in quanto attore non è (Carmelo Bene, p.16)

Per Carmelo Bene l’attore non è un essere umano, un Dasein, una persona, una coscienza, un’esistenza : non corrisponde a nessuno dei concetti metafisici che i filosofi hanno sempre proiettato sull’individuo vivente, e che corrispondono alla metafisica della semplice-presenza.
Come il personaggio è un tutt’uno con l’insieme del dispositivo scenico, così l’attore (di) Carmelo Bene è una macchina astratta (termine deleuziano), Carmelo Bene parla di macchina attoriale, cioè il dispositivo (agencement) che fa funzionare tutte le istanze in gioco, il terreno di battaglia, il campo di immanenza, la porzione di spaziotempo attraverso cui lo spettacolo-evento può accadere "nel disgustato dolore estetico dell’artefice".
L’attore tradizionale ha un’antica complicità con i prìncipi e i re (Napoleone e Talma). Il potere del teatro non è separabile da una rappresentazione del potere nel teatro, anche se è una rappresentazione critica. Per Deleuze (D 93), Carmelo Bene cambia non solo la materia teatrale ma anche la sua forma : il teatro cessa di essere rappresentazione, e l’attore cessa di essere attore («Il non-attore è artefice per eccellenza» Carmelo Bene 51).
Altri hanno fatto un teatro non-rappresentazionale, non-spettacolare: Artaud, Bob Wilson, Grotowsky, Living Theatre... La specificità di Carmelo Bene secondo Deleuze è però la sottrazione  degli elementi stabili del Potere, la quale libera una nuova potenzialità di teatro, una forza non rappresentativa sempre in disequilibrio (D 94).
Il personaggio che, secondo Deleuze, si costituisce sulla scena di Carmelo Bene è privo di Io. La critica o decostruzione teatrale di Carmelo Bene si appunta anche sull’inconsistenza/inesistenza dell’Io, cui Carmelo Bene sostituisce il Soggetto-phoné. Un soggetto nietzscheanamente oltreumano ; lacanianamente impersonale, irreale ; deleuzianamente un divenire-soggetto, una soggettivazione, una singolarità assoluta cioè radicalmente irrappresentabile (echi francesi dell’antihegelismo di Kierkegaard).



L’ineffabile ontologico e l’esprimibile teatrale-musicistico.
Carmelo Bene 86 «esprimere e cantare quanto non si può dire»: di ciò di cui non si può parlare si deve tacere... La frase di Wittgenstein è stata spesso citata e trasformata (messa in variazione) : Derrida ha scritto che di ciò di cui non si può parlare si deve scrivere. Bencivenga : solo di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere!
L’impresa di Carmelo Bene è dunque un’impresa oltreumana, epocale, qualcosa che richiede naturalmente un diverso paradigma di valutazione e giudizio. Il teatro di Carmelo Bene tocca la dimensione dell’indicibile, quella dimensione che non è necessariamente mistica, ma che, per esempio, la filosofia neo-positivista della prima metà del novecento ha indicato come la sfera delle proposizioni prive di senso, non-scientifiche, pertanto né vere ne false.
Tutta la ricerca di Carmelo Bene è il tentativo di esprimere l’inesprimibile. Possibile? Impossibile? Follia e delirio megalomane? Geniale impresa titanica?
I filosofi analitici direbbero naturalmente che è questione di come si utilizzano le parole. Senza dubbio in Carmelo Bene c’è l’idea che la macchina attoriale esprima realmente qualche genere di ineffabile (a leggere Wittgenstein si comprende che ve ne sono senza dubbio di più tipi, almeno due: un ineffabile ‘alto’, das Mystische, e uno ‘basso’ costituito dall’autoevidenza delle cosiddette relazioni interne logico-linguistiche, quelle che Wittgenstein chiama “grammaticali” : il fatto che non vi possano essere rosso e verde allo stesso tempo nello stesso luogo...).


Piccola bibliografia.
Antonin Artaud : Il teatro e il suo doppio, Einaudi
Carmelo Bene : La voce di Narciso ; Il Saggiatore
idem : Opere, Bompiani.
Gilles Deleuze : Sovrapposizioni, Quodlibet
idem : Mille piani, Castelvecchi-Cooper
idem : Critica e clinica, Raffaello Cortina
Jacques Derrida : La scrittura e la differenza, Einaudi
Maurizio Ferraris: Introduzione a Derrida, Laterza
Martin Heidegger : Essere e tempo, Longanesi
Slavoj Žižek : Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina

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