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domenica 5 giugno 2011

Sulla decrescita (da un post di Fabrizio Illuminati in discussione con un giovane economista, 4-5 giugno 2011)

Ringrazio ancora una volta Fabrizio Illuminati, professore associato di fisica e brillante intellettuale, per avere la pazienza di ingaggiare su Facebook lunghe e serie discussioni su questioni non facilmente accessibili ai non esperti.
La generosità comunicativa di persone come Fabrizio costituisce per me la più forte confutazione dei molti neoapocalittici, scettici verso la potenza emancipativa dei social network.
 

(Per chi ha tempo e pazienza, qui c'è il link all'intera discussione). 
(Per chi fosse interessato, qui Fabrizio si è espresso anche sull'energia nucleare e le energie alternative).


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Innanzitutto non è assolutamente vero che redistribuzione e stato sociale si impongono quando l'economia cresce. I grandi programmi di welfare e di massiccio intervento statale europei ed americani si sono imposti a cavallo delle due guerre mondiali, in particolar modo a partire dal 1930, ovvero in periodo di fortissima recessione e di fortissima disoccupazione. E taccio ovviamente degli esperimenti sovietici e cinesi che nacquero entrambi in tale temperie storica. Va bene leggere Stiglitz e gli altri simpaticoni di oggi, ma la storia bisogna conoscerla. Soprattutto, poiché l'economia è lungi dall'essere una scienza ed è purtroppo "esposta" (diciamo così) alla dominance ideologica del momento, dovrebbe intervenire con moltissima umiltà su cose quali le risorse, l'energia, l'entropia, e il riscaldamento globale, che sono questioni che si possono affrontare solo possedendo conoscenze scientifiche molto avanzate. In particolare, un mito disastroso che purtroppo la dominanza ideologica attuale nella "scienza economica" a elevato a dogma indiscutibile, è la fede nella possibilità che la crescita economica possa continuare indefinitamente su un pianeta che ha risorse finite. Questo mito della "crescita infinita" che prescinde dalla conoscenza del sustrato fisico e materiale del pianeta, si è imposto come "dogma centrale" del neoliberismo ed è ormai accettato da tutti gli economisti come un'evidenza fattuale ovvia, siano essi ultraliberisti o socialdemocratici correttivisti. Peccato che la crescita indefinita sia impossibile.
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Innanzitutto, che la redistribuzione si imponga "più facilmente" quando l'economia cresce non è affatto automatico. Dipende. Durante la "golden age" 1945-1975 è stato sicuramente così, ma, guarda un po', anche in quel caso attraverso un massiccissimo intervento della politica, cioè dei cittadini e dei lavoratori, cioè di quelli, che nei sogni dell'economista "oggettivo e liberista" dovrebbero proprio scomparire e non avere mai voce in capitolo. Altrimenti non ci sarebbe stata nesssuna redistribuzione, o molto minore: il contesto politico e culturale è cruciale, l'economia ne dipende, eccome. Vediamo invece che poi, una volta raggiunto l'obiettivo (tenacemente perseguito) di disarticolare le aggregazioni politiche che miravano a tenere sotto controllo i meccanismi "spontanei" del capitale (obiettivo raggiunto al termine della recessione stagflazionista degli anni '70 e dei primi anni '80), ecco che "magicamente" crescita e redistribuzione hanno smesso di marciare insieme. Nonostante periodi di fortissima crescita, almeno due, dal 1984 al 1988 (era Reagan-Thatcher, per semplificare) e poi di nuovo dal 1993 al 1999 (era Clinton, sempre per semplificare), la concentrazione dei capitali a sfavore dei redditi da lavoro è andata costantemente aumentando dal 1979 in poi, e non è certamente un caso. E' un portato della vittoria delle forze che si oppongono all'idea redistributiva. E si oppongono sempre, sia che l'economia cresca, sia che l'economia non cresca. Infatti il "mantra" che ha sostituito qualsiasi altra possibile relazione concettuale in economia è quello della "crescita", che dovrebbe lenire tutto, sostituendosi alla redistribuzione, secondo l'assunto che dalle briciole dei 50 miliardi in più di Marchionne & friends, qualcosa arriverà, per "percolazione", anche in basso. Tutto sta ad indicare che non è assolutamente così, perfino in paesi dove gli "animal spirits" del capitale sono più sotto controllo rispetto a paesi con tradizione da jungla sociale, tipo gli USA. Veniamo poi alla questione dell'esaurimento delle risorse: è un ben curioso discorso quello di dire, sia pure arbitrariamente (nessuno può valutare esattamente quante risorse non rinnovabili abbiamo già distrutto), che siccome, puta caso, abbiamo consumato "solo" 1/3 delle risorse contenute nello strato crustale della terra, allora possiamo andare avanti tranquillamente. Che logica è?!? Con questo modo di ragionare, che trovo, scusami, paradossale (eufemismo), la transizione al collasso, se non riguarderà noi, riguarderà i nostri figli o i nostri nipoti. Sinceramente non mi sembra un atteggiamento molto costruttivo verso il futuro. L'economia non può eludere i dilemmi posti dalle scienze e dalle conoscenze vere della fisica e della biologia. Se lo fa, è per interessi tragicamente miopi, ristretti, e con orizzonti limitatissimi. Dobbiamo accettare l'idea che per sopravvivere in maniera degna e decorosa dobbiamo produrre e consumare ad un ritmo non superiore a quello con cui la natura rinnova le sue scorte, non ci sono alternative. Il mito della tecnologia che risolve ogni problema, è, per l'appunto, un mito, che ha sostituito, nell'uomo moderno privo di profonde conoscenze scientifiche, i vecchi miti religiosi del Paradiso e del paese di Cuccagna. Guarda caso, gli scienziati sono refrattari a questo mito. Ogni danno che provochiamo può essere sì mitigato dall'iniezione di nuova tecnologia, ma questa di norma si accompagna a una serie di nuovi problemi che diventano man mano sempre più difficili da trattare. Prevenire, in altri termini, è sempre meglio che curare, e il motivo di fondo è che non c'è scampo al secondo principio della termodinamica. Faccio presente che l'ecological footprint è solo uno, e certo non il più scientifico, degli indicatori proposti per capire se e a quale ritmo ci stiamo dirigendo verso una transizione all'overshoot e poi al collasso. Ci sono approcci scientifici, che uniscono il meglio della climatologia, della chimica fisica, della fisica dei sistemi complessi, che hanno portato nel tempo allo sviluppo di una cornice sistemica (e non di processo) per avere un quadro globale della situazione, costruire modelli, e fornire delle previsioni (verificabili) a medio e lungo termine. Naturalmente, trattandosi di modelli dell'impatto antropico sul pianeta in presenza di meccanismi complessi di retroazione, le previsioni sono di natura essenzialmente qualitativa, e solo molto a spanne quantitativa. Pure, le conclusioni sono chiare e non ambigue, e si possono confrontare con quello che poi è realmente accaduto nelle serie temporali. Prendiamo allora lo studio più famoso nell'ambito dell'approccio sistemico, quello del 1972 del club di Roma, il famoso (o infame, a seconda dei punti di vista) "The limits to growth". Allora furono spernacchiati e derisi perché si volle per forza sostenere (in non perfetta buona fede, per così dire) che le previsioni di Meadows e compagni erano strettamente quantitative e verificabili nel giro di pochi anni. Ma "The limits to growth" non era e non voleva essere questo. Presentava una serie di situazioni modellistiche, del tipo input-backaction-output, e in base ai diversi input forniva diversi scenari di output a lungo termine. In particolare prevedeva, tra le altre, due possibilità distinte: transizione al collasso per diminuzione delle risorse, oppure per aumento dell'inquinamento (ovvero di porzioni di materia ed energia degradate, e che diventano "veleno" per noi, proprio come gli escrementi nella colonia di batteri quando il vino è ancora presente e abbondante). E poi, naturalmente, combinazioni intermedie dei due. Quarant'anni dopo, a guardare i grafici e le curve di Meadows et al., ci accorgiamo che le loro previsioni sono state piuttosto accurate, e che la tendenza qualitativa oggi è indubitabilmente quella discussa da loro nel lontano 1972. Un chimico fisico di vaglia internazionale, Ugo Bardi dell'Università di Firenze, ha appena pubblicato per i tipi della Springer un ottimo aggiornamento del vecchio rapporto al Club di Roma "The limits to growth, revisited" (per ora disponibile solo in inglese), che giunge a conclusioni analoghe. La tecnologia "buona" da sola non ci salverà, se non ci sarà un controllo politico globale (possibilmente dal basso da parte di cittadini informati e responsabili) sui processi economici, dalla produzione, al consumo, alla distribuzione. Nello stesso capitale vediamo questa lotta in atto: da una parte i "cornucopiani" alla Marchionne, che costruiscono SUV sempre più grandi e sbevazzoni e si esaltano con il contratto aziendale del lavoratore (nuova/vecchia forma di schiavitù: in Europa occidentale nel '900 è stato in vigore in un solo paese, dal 1933 al 1945, penso indovinerai di quale paese si tratta). Dall'altra i tanti eroi senza volto e senza maglione che costruiscono e rischiano i capitali per le nuove infrastrutture fotovoltaiche di domani. Differenza abissale di modelli, di cultura, di essere. Bisogna scegliere, e capisco che per un economista di oggi, che al 95% finirà in una agenzia di consulting, la scelta della crescita senza limiti appaia obbligata. Ma è un vicolo cieco, per loro, e, purtroppo, anche per noi.
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Il discorso scientifico, ridotto in pillole, è che dobbiamo trovare un modo per consumare allo stesso ritmo (o inferiore) al quale le risorse si riproducono (materia-energia; sorgenti), al contempo dobbiamo produrre rifiuti allo stesso ritmo (o inferiore) al quale il pianeta è in grado di metabolizzarli (entropia; pozzi). Allo stato attuale, e diciamo dall'inizio circa della rivoluzione industriale, non lo stiamo facendo. Ci sono altri case-studies ben noti, del passato pre-industriale, in cui questo è accaduto, per sistemi abbastanza isolati da rappresentare dei "pianeti" in piccolo. Ad esempio, dal lato dell'energia, la fine dell'isola di Pasqua (deforestazione irrazionale; sorgenti). Oppure casi in cui il combinato disposto dei due effetti (sorgenti sempre più scarse; pozzi sempre più pieni), ha avuto un ruolo determinante (crollo della mezzaluna fertile). Puoi leggere utilmente Jared Diamond & coworkers su questi e altri temi. Il libro che ho citato è di Bardi, e sta uscendo in inglese da Springer questa settimana, l'altro, quello che citi tu ed è edito da Mondadori, è l'update di Meadows del 2003. Non ho mai scritto, né lo hanno mai scritto Bardi o quelli del club di Roma, che la fine è segnata e che moriremo tutti, qualsiasi cosa si faccia. Se credessi questo, non starei qui a discutere con un laureato in economia, ti pare. La storia dell'umanità è sempre in bilico tra condanna e salvazione, dipende da noi e dalle nostre scelte. Per questo si valutano scenari, come fanno Meadows e quelli della system dynamics. E qui veniamo al ruolo della tecnologia. Per quanto riguarda la tecnologia, non ho detto che è inutile, o che è necessariamente dannosa, ho scritto una cosa molto diversa: che NON è e NON può essere la soluzione mitologica che ci permette di continuare a fare BAU (Business As Usual). Cerco di spiegarmi ancora una volta. Se continuiamo il BAU, cioè a bruciare carbone, gas, e petrolio, come e più di prima, andiamo verso la tenaglia dell'energia decrescente (sorgenti che si esauriscono) e dell'entropia montante (global warming, pozzi che si riempiono). Se questo rimanesse lo scenario, ben difficilmente qualsiasi nuova tecnologia (ad esempio il sequestro della CO_2) potrebbe ritardare più di qualche decennio il verificarsi di situazioni molto incresciose. Naturalmente non lo posso dimostrare nello stesso modo di come posso dimostrare la legge di Newton, perché sto parlando di processi e sistemi complessi, su larga scala. Tuttavia la modellistica sistemica a questo serve, a dirci, in base agli scenari che si prefigurano, quali possono essere gli output. Infatti, se leggi i vari flow charts di Meadows, vedi che a un certo punto analizza lo scenario in cui si utilizzano prevalentemente fonti rinnovabili e contestualmente la produzione di entropia si mantiene limitata: le simulazioni di Meadows prevedono che se effettuiamo questo tipo di transizione nel giro di qualche decennio, allora tutti i parametri vitali del pianeta decrescono lentamente nel tempo per poi stabilizzarsi su un livello più basso dell'attuale, ma comunque accettabile per tutti e sostenibile a lungo termine. Anche qui, non è come dimostrare la legge di induzione di Faraday, ma è certo molto meglio dei ridicoli pseudo-teoremi matematici degli economisti applicati a realtà virtuali. Detto questo, veniamo alle rinnovabili e alla disponibilità di energia, per capire ancora meglio la differenza tra l'approccio fisico-sistemico e l'approccio BAU + crescita infinita degli economisti (di oggi). Ci sono due modi in cui possiamo fare le rinnovabili: cercando di "inverare" il concetto di energia infinita, oppure cercando di mantenere un equilibrio con la produzione di entropia. Il primo è il sogno degli economisti, ma è anche l'incubo del pianeta. Esempio: c'è una tecnologia eolica, si chiama Kite-Gen (Kite Wind Generator, per la precisione), che è basata su profili alari che salgono e scendono a quote troposferiche (tipicamente intorno ai 1200 metri di altezza). A quelle quote (e più alte), i venti soffiano forti e costanti 24 ore su 24 in molte zone del pianeta (i primi a segnalare il fenomeno furono i piloti americani nella II guerra mondiale). Si è calcolato che con un buon sistema di controllo automatico a terra, un KiteGen di medie dimensioni può assicurare una potenz installata vicina a 1GW, cioè del tutto paragonabile a quella di una centrale nucleare di dimensioni medio-piccole. WOW! Sembrerebbe l'uovo di Colombo, ma in realtà non lo è, perché uno sfruttamento incontrollato dei KiteGen porterebbe ad un utilizzo finale dell'energia sempre più alto, e contemporaneamente a cambiamenti entropici e climatici della terra sempre più devastanti (ci sono ottimi studi a riguardo). Ecco allora quali devono essere le tre gambe della transizione: sicuramente le rinnovabili, e spero di non dover spiegare perché; poi, per le stesse, l'avanzamento scientifico-tecnologico; infine, il controllo sulla retroazione, ovvero una filiera e un sistema che assicurino che la produzione di entropia non superi la capacità del pianeta di riassorbirla. Senza l'ultima gamba, le prime due sono inutili perché riprodurrebbero il BAU sotto altre forme, e il nostro destino sarebbe di nuovo doomed. Spero di essere stato un po' più chiaro, questa volta. Un PS sulla tecnologia. Essendo un fisico, insieme ai miei colleghi non abbiamo dovuto aspettare per sapere che tutto ciò che è cordless, cioè funge da antenna elettromagnetica, è potenzialmente molto pericoloso per la salute (dal cell, al router wi-fi, alla centralina del cordless per il telefono fisso). I danni a lungo termine saranno probabilmente imponenti, difficile fare previsioni ora, ma se fin dall'inizio si fosse adottato un atteggiamento scientifico (e non economico "a vista"), avremmo puntato ai cavi e alle cablature (il passaggio in cavo o in fibra scherma enormemente l'intensità del campo e.m.), e non ci ritroveremo, tra qualche anno, a dover riconvertire tutto con costi e sprechi enormi, e ulteriore aggravio di sorgenti e pozzi. Questo è l'outlook scientifico: un mix molto delicato di ricerca, consapevolezza, e atteggiamento razionale e prudente rispetto al "se si può fare allora si deve fare". Nessun desiderio di tornare nelle caverne, come gli economisti a corto di argomenti cercano di far credere, ma l'uso appropriato delle facoltà razionali dell'essere umano, in modo da evitare proprio che alle caverne si arrivi inseguendo ad ogni costo il mito della crescita e del consumo infiniti. Lo so che agli economisti l'aggettivo "stazionario" ripugno. Lo confondono con "statico", "morto", "fermo". Se fossero curiosi di scienza e conoscenza, scoprirebbero che lo stato stazionario, in un sistema aperto con scambi di materia e di energia, è uno stato altamente organizzato, dinamico, e interessante. Possiamo arrivare a uno steady state dell'economia che garantisca la nostra sopravvivenza sul pianeta senza per questo togliere nulla al nostro desiderio perenne di novità e ricerca. Basta indirizzarlo nella direzione giusta, che non può certo essere quella della crescita infinita dei profitti individuali, che ci porterebbe, appunto, ad Olduvai. A noi decidere, consapevolmente.

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