E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

sabato 19 marzo 2011

Simone Weil tra pacifismo e nonviolenza (da "Senza violenza")


Come Hannah Arendt, Simone Weil ha tratto dalla politica linfa vitale per il suo pensiero, orientandosi verso un marxismo libertario di impronta anarchica e dalla forte ispirazione etica.
La prima fase del pensiero di Weil, complesso e non di rado contraddittorio, è segnata dal prevalere di temi politici e sociali; nel 1934 però rinunciò a ogni forma di attività politica pratica orientandosi a una riflessione mistico-religiosa con forti tratti pessimistici. Di origine ebraica, si convertì idealmente al cattolicesimo, «per eccellenza la religione degli schiavi», senza mai battezzarsi.

Il pensiero e la vita di Simone Weil (1909-1943) sono improntati al più grande rigore morale e alla ricerca di una difficile coerenza nella verità, da ultimo religiosa: «esigeva che non vi fosse la minima incongruenza fra le proprie convinzioni e la vita» [S. Pétrement, Vita di Simone Weil, p. 65].
Eppure la Weil, pacifista, partecipò brevemente alla guerra di Spagna nell’estate 1936. Un pacifismo contraddittorio, dunque?
Se negli ultimi anni della sua vita appoggerà la Resistenza francese militando nell’organizzazione di De Gaulle, ancora studentessa Simone Weil era stata una pacifista «pura». Aveva aderito nel 1927 al piccolo gruppo La Volonté de Paix e successivamente alla Ligue des droits de l’homme. A quell’epoca era stato per lei fondamentale l’influsso del pacifista Alain (Emile Auguste Chartier), suo professore di filosofia nelle classi di preparazione all’Ecole Normale Supérieure.
Politicamente, Simone Weil era vicina al sindacalismo rivoluzionario. Il concetto marxista di lotta di classe complicava la sua posizione riguardo alla nonviolenza. Nelle Riflessioni sulla guerra del 1933 scrive: «Fino al periodo successivo all’ultima guerra, il movimento rivoluzionario, nelle sue diverse forme, non aveva nulla in comune con il pacifismo [...]. È chiaro che la tradizione marxista non presenta, per quanto concerne la guerra, né unità, né chiarezza. Un punto almeno era comune a tutte le teorie, cioè il rifiuto categorico di condannare la guerra come tale. I marxisti, in particolare Kautsky e Lenin, parafrasavano volentieri l’affermazione di Clausewitz, secondo cui la guerra non farebbe che continuare la politica del tempo di pace, ma con altri mezzi. La conclusione era che bisogna giudicare una guerra non per la violenza dei mezzi impiegati, ma per gli obiettivi perseguiti attraverso questi mezzi» [Riflessioni sulla guerra, in Sulla guerra, p. 29].
Ma, come pensava anche Gandhi riguardo alla relazione mezzi-fini, pretendere di «valutare ogni guerra dai fini perseguiti e non dal carattere dei mezzi impiegati» è «il metodo più difettoso possibile» anche se «ciò non vuol dire che sia meglio condannare in generale l’uso della violenza, come fanno i pacifisti puri; la guerra costituisce in ogni epoca una specie bene determinata di violenza, di cui bisogna studiare il meccanismo prima di formulare un giudizio qualunque» [ivi, p. 31].
Qui Simone Weil gioca la carta del materialismo marxista in maniera originale: «Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualunque fatto umano tenendo conto assai più delle conseguenze necessariamente implicite nel gioco dei mezzi adottati che dei fini perseguiti. Non si può risolvere, e nemmeno porre un problema relativo alla guerra senza avere, innanzitutto, smontato il meccanismo della lotta militare, e cioè senza aver analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali. [...] E la guerra rivela d’essere in ultima analisi una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli Stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi» [ivi, p. 32].
Così dunque la Weil pacifista prima maniera, che non è comunque una «pacifista pura».
Poi viene la breve partecipazione alla guerra di Spagna. Nella sua lettera a Georges Bernanos Simone Weil scrive: «Nel luglio 1936 ero a Parigi. Non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia. Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questa guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi. Era l’inizio dell’agosto 1936» [Lettera a Georges Bernanos, in Sulla guerra, p. 50].
Il ragionamento che la spinge a varcare la frontiera è dunque limpido e coraggioso e il comportamento che ne segue è tutt’altro che contraddittorio.
Partecipare moralmente stando nella retrovia non è eticamente tollerabile: «Simone pensava che, quando non si può più impedire una guerra, bisogna assumere la propria parte in questa sventura con il gruppo al quale si appartiene» [S. Pétrement, Vita di Simone Weil, p. 65].
Stare in disparte non le è possibile per la sua particolare tendenza psicologica alla compassione. Simone de Beauvoir ricorda di lei: «Una grande carestia aveva da poco devastato la Cina e mi avevano raccontato che, nell’apprendere questa notizia era scoppiata in singhiozzi» [ivi, p. 75]. E la sua amica e biografa Simone Pétrement riferisce questa autovalutazione di Simone: «La mia immaginazione funziona sempre in un modo per me molto penoso. Il pensiero delle sofferenze o dei pericoli cui non partecipo mi riempie di orrore, pietà, vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di spirito; solo la percezione della realtà mi libera da tutto ciò» [ivi].
Per percepire la realtà della guerra di Spagna, Simone Weil varcò la frontiera spagnola l’8 agosto 1936 a Port-Bou.
Si integra in un piccolo gruppo internazionale dove c’erano alcuni francesi di sua conoscenza. Le insegnano a maneggiare le armi. Si nota subito la sua scarsa abilità: «I compagni, all’esercitazione, evitavano di passare nella traiettoria del suo fucile» [ivi, p. 365].
Il 17 agosto, dopo che l’aviazione franchista ha sganciato una piccola bomba sul campo: «Tutt’a un tratto capisco che si va in spedizione [...] Allora, sono molto emozionata (non so valutare l’utilità della cosa e so che, se ci prendono, ci fucilano)». Scriverà in seguito: «La prima e la sola volta che ho avuto paura durante la permanenza a Pina» [ivi].
Non c’è dubbio che voglia combattere, nonostante le obiezioni dei delegati che comandavano il gruppo: «Ostinata, precisa che è venuta in Spagna non come turista o osservatrice, ma per combattere e promette di far onore al suo posto nei ranghi del gruppo» [ivi, p. 366].
Mentre i compagni si avviano verso una casa che va fatta sgombrare, a lei ordinano di attendere insieme a un tedesco nominato cuoco: «Ha evidentemente paura. Io no. Ma come tutto, attorno a me, esiste intensamente! Guerra senza prigionieri. Se si è presi si è fucilati». E ancora, con una tranquillità d’animo ancora maggiore se possibile: «Ricognizione aerea. Nascondersi. [...] Io mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono... Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice».
Il giorno dopo, si ustiona gravemente mettendo un piede in una padella piena di olio bollente posta al livello del suolo per non fare scorgere il fuoco dall’alto. Non l’ha vista a causa della sua forte miopia. L’ustione è grave e il padre medico, nel frattempo giunto in Spagna con la moglie, dopo molte insistenze riesce a convincerla a tornare in Francia per farsi curare.
Simone Weil non tornerà più in Spagna. Nella lettera a Bernanos spiega il perché: «Ho lasciato la Spagna mio malgrado e con l’intenzione di ritornarci; in seguito, non ne ho fatto, volontariamente, nulla. Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra, che non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia» [Lettera a Georges Bernanos, in Sulla guerra, p. 50].
Giustificava così il mancato intervento francese a fianco dei repubblicani nella guerra di Spagna: «Anche quando ero in Aragona o in Catalogna, nel bel mezzo del clima di lotta, tra militanti che non riuscivano a trovare termini sufficientemente severi per qualificare la politica di Blum [il presidente del consiglio francese, socialista], io approvavo questa politica. Il punto è che mi rifiuto, per mio conto, di sacrificare deliberatamente la pace, anche se si tratta di salvare un popolo rivoluzionario minacciato di sterminio» [Non intervento generalizzato, in Riflessioni sulla guerra, cit., p. 45].
Giungerà al punto di considerare l’egemonia della Germania hitleriana sull’Europa un male minore della guerra.
Ma dopo l’invasione della Cecoslovacchia cambia idea e inizia a rimproverarsi il precedente pacifismo, ora definito «criminale errore».
In Simone Weil pacifismo e rifiuto della violenza non si sovrappongono. Anzi è proprio dopo l’abbandono delle sue posizioni pacifiste in senso stretto che Weil intensifica la riflessione sulla nonviolenza.
Nei Quaderni, scritti per lo più tra il 1941 e il 1942 e pubblicati postumi, si trova un chiarissimo programma etico: «Sforzarsi di sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza. La non-violenza è buona solo se efficace. Sforzarsi di diventar tali da poter essere non-violenti».


Testi citati:
J.M. Muller, L’esigenza della nonviolenza, EGA, Torino 1994;
S. Pétrement, Vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994;
S. Weil, Sulla guerra, Pratiche editrice, Parma 1988.


(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

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