Partiamo da un’osservazione fondamentale: per quanto possa sembrare strano, gli studiosi tendono a non utilizzare il termine “pacifismo”, che appare essere una nozione tropo imprecisa e spesso connotata negativamente (è la parola usata dagli avversari dei movimenti per la pace). I termini “pacifismo” e “nonviolenza”, certamente tra i più popolari e utilizzati (spesso a sproposito) dai mass-media, non sono sinonimi. Come dice Nanni Salio, spesso «il linguaggio comune e soprattutto quello impiegato dai media svolge una duplice funzione negativa: nasconde alcuni possibili significati, soprattutto quelli alternativi, e ne veicola altri, stereotipati, funzionali alla cultura dominante, alle tesi che si vogliono dimostrare e alle decisioni politiche che si vogliono imporre. [...]» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.136).
Il linguaggio comune, dunque, anche relativamente al tema della pace abbisogna di analisi chiarificatrici, per evitare confusioni e strumentalizzazioni, per altro all’ordine del giorno.
Possiamo cercare di definire alcuni termini più frequenti:
L’antimilitarismo è «l’opposizione alla dominazione dell’ideologia e dell’istituzione militare sulla società» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.22).
Il pacifismo può essere definito come «il rifiuto intransigente, morale, della violenza anche in mancanza di alternative radicali ed anche per difesa di altri, a volte coincidente con la passività totale (pacifismo assolutistico)» (Cozzo, p.28). Come osserva Muller «il discorso pacifista si squalifica quando lascia credere che eserciti ed armamenti siano le cause delle guerre, presentando la loro soppressione come condizione necessaria e sufficiente per la pace. Per promuovere una politica di disarmo, è invece importante pensare a degli “equivalenti funzionali della guerra” in grado di offrire alle nazioni i mezzi per difendersi contro un’eventuale aggressione.
Proprio perché percepita in modo negativo da parte dell’opinione pubblica, la parola “pacifismo” è speso utilizzata nei discorsi dominanti per designare i movimenti di pace che si oppongono ai vari aspetti della politica militare degli Stati [...]. Nello stesso tempo uno dei mezzi più sicuri per screditare un movimento è di squalificarlo nominandolo. Infatti nella maggior parte dei casi questo nome, che vuole essere un’accusa, viene dato a movimenti che sviluppano analisi e scelgono obiettivi che differiscono radicalmente da quelli del “pacifismo”» (Muller, Lessico della nonviolenza, p.94).
Ciò non toglie che, specie nella prima metà del XX secolo, autori che oggi designeremmo come nonviolenti facessero uso della parola anche per autodefinirsi.
Il termine nonviolenza è la traduzione letterale del termine sanscrito ahimsa, composto da a privativa e himsa, danno, violenza. La parola ahimsa implica una sfumatura intenzionale che si potrebbe rendere con “assenza del desiderio di nuocere, di uccidere”. Altre proposte, per esempio innocenza, sembrano comunque perdere qualcosa del significato originario. È stato sempre Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. (Anche noi, quando non citiamo, scriveremo sempre “nonviolenza”). Gandhi invece sottolineava proprio questo elemento negativo: «In effetti la stessa espressione “non-violenza”, un’espressione negativa, sta ad indicare uno sforzo diretto ad eliminare la violenza che è inevitabile nella vita.» (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, p.77).
L’espressione resistenza passiva era usata dallo stesso Gandhi fino a quando si rese conto che l’espressione correva il rischio di far pensare a un pacifismo passivo di tipo religioso, inerte di fronte all’ingiustizia. Inoltre Gandhi voleva una parola indiana per una forma di lotta indiana.
Satyagraha è il neologismo è formato a partire da parole della lingua natale di Gandhi (il gujurati). Letteralmente significa forza della verità (Satya:Verità, graha: forza). Gandhi adottò tale termine per distinguere la “nonviolenza del forte” dalla resistenza passiva, la quale può coincidere con la “nonviolenza del debole”.
Con l’espressione movimento/i per la pace si intendono le molteplici forze sociali, intellettuali e professionali che operano per la pace, concretamente e sul piano teorico. «Il movimento per la pace è sempre stato uno “strano” movimento, composito, disomogeneo, con componenti interne che provengono da tradizioni culturali diverse e spesso in conflitto tra loro, con opinioni discordi e privo, in Italia ancor più che altrove, di una leadership riconosciuta autorevole. [...] Sarebbe quindi più corretto parlare di movimento per la pace al plurale invece che al singolare, poiché in realtà il movimento per la pace al singolare è “un movimento che non c’è”». D’altra parte «la prima confusione sta nell’usare come sinonimi il termine movimento pacifista e movimento per la pace. Può sembrare una distinzione sottile, quasi inutile, ma non è così. In tutta la letteratura sull’argomento si usa distinguere un generico movimento pacifista, nel quale confluiscono in alcuni momenti storici larghi settori dell’opinione pubblica, alcune forze politiche e religiose ben definite, dal movimento per la pace inteso come una struttura organizzata e permanente, con un suo ben preciso programma di azione politica proiettato nel tempo, non soltanto contingente e genericamente contrario alle guerre, ma costruttivo, che si basa su un’ampia riflessione teorica e culturale» (Salio, Il potere della nonviolenza, p.52; p.136).
Infine, con il termine tecnico di peace research si intende un insieme di dottrine accademiche e non accademiche che studiano il problema della pace nella prospettiva di un rinnovato (più comprensivo, olistico) paradigma delle scienze umane. Suo iniziatore è il grande teorico Johan Galtung. L’importanza della peace research consiste nel fornire concetti rigorosi per una teoria della pace e della nonviolenza, strappando defintivamente alla confusione del senso comune un tema davvero vitale.
Il concetto-guida di questo libro è quello di nonviolenza. Riguardo alla definizione della nonviolenza e alla distinzione tra i possibili tipi di nonviolenza occorre analizzare un po’ più da vicino almeno il pensiero di Gandhi, ai cui scritti ci si deve riferire come all’origine teorica della nonviolenza moderna.
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