E’ tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. (Giacomo Leopardi)

sabato 19 marzo 2011

Il pacifismo scettico di Sir Bertrand Russell (da "Senza violenza")

Bertrand Russell (1872-1970) è uno dei massimi filosofi del Novecento. Oltre ai suoi libri di logica matematica e filosofia, numerosi sono quelli di politica ed etica. Le guerre mondiali del secolo XX segnano il banco di prova del suo pacifismo: Russell fu non-interventista nella prima guerra ma non nella seconda. Gli sembrava infatti che il pacifismo, nemmeno nella sua versione radicale gandhiana, non potesse ottenere risultati positivi contro il nazismo, poiché «la forza [della nonviolenza] dipende dalla presenza di alcune virtù in coloro contro i quali è usata».
Tuttavia nel secondo dopoguerra fu tra i massimi animatori di iniziative di pace e per il disarmo nucleare.


Il grande filosofo inglese Bertrand Russell si scoprì improvvisamente pacifista nel 1901, all’età di 29 anni. Ebbe una repentina crisi che si potrebbe definire di «misticismo», durante un episodio di acuta sofferenza della moglie dell’amico filosofo Whitehead: «Nel giro di cinque minuti mi passarono per la mente pensieri quali: la solitudine dell’anima umana è insopportabile; nulla può penetrarvi eccetto la più intensa forma di quel tipo di amore predicato dai grandi mistici; tutto ciò che non sorge da questo impulso è dannoso o quanto meno inutile; ne segue che la guerra è un errore, che l’educazione che si riceve nei grandi collegi inglesi è abominevole, che l’uso della forza è deprecabile [...]. Alla fine di quei cinque minuti ero diventato una persona completamente diversa. Per un certo periodo fui dominato da una sorta di illuminazione mistica» [L’autobiografia di Bertrand Russell, I, pp. 239-240].
La nonviolenza non gli era dunque connaturata, com’è invece il caso di altri pacifisti (una per tutti: Simone Weil); nemmeno faceva parte della sua educazione, poiché Russell era un aristocratico nutrito di idee liberali ma anche di amor di patria.
Del resto la sua posizione in materia di pacifismo muterà con il mutare delle condizioni storiche, mettendo in luce un pragmatismo etico inconciliabile con il pacifismo radicale di tipo religioso o con la nonviolenza gandhiana.
In occasione della prima guerra mondiale Russell si impegnò a fondo per la causa pacifista, lottando per il non-intervento: «Mi sembrava impossibile che le nazioni europee commettessero la pazzia di scatenare una guerra, ma non dubitavo che, se la guerra fosse davvero scoppiata, l’Inghilterra sarebbe stata trascinata a parteciparvi. Sentivo invece, con tutta l’anima, che il nostro paese doveva rimanere neutrale e così indussi molti professori e membri dei vari colleges a sottoscrivere una dichiarazione di principio che fu pubblicata sul Manchester Guardian. Il giorno della nostra entrata in guerra quasi tutti cambiarono idea» [ivi, II, p. 11].
L’adesione di Russell al pacifismo non è mediata da considerazioni filosofiche, è piuttosto un atteggiamento spontaneo, emotivo. Né un pacifismo tattico o strategico, insomma, né un pacifismo «della convinzione».
Russell confesserà più tardi che l’adesione al pacifismo non era immune dal suo naturale scetticismo: «Mi sono immaginato di essere ora liberale, ora socialista, ora pacifista, ma nel senso più profondo non sono mai stato né l’una cosa né l’altra né l’altra. Sempre l’intelletto scettico, quando più avrei desiderato che tacesse, ha mormorato i suoi dubbi, mi ha tagliato fuori dai facili entusiasmi degli altri e mi ha trasportato in una solitudine desolata» [ivi, p. 51].
Mentre collabora con associazioni democratiche pacifiste, si rende conto che il consenso verso la guerra è più ampio e spontaneo di quanto non potesse immaginare: «Io, come del resto quasi tutti i pacifisti, avevo sempre, ingenuamente, pensato che le guerre fossero imposte da governi dispotici e machiavellici a popolazioni riluttanti. [...] I primi giorni di guerra furono per me i più sconvolgenti. I miei amici più cari, come, per esempio, i Whitehead, si rivelarono interventisti convinti» [ivi, pp. 12-13].
La guerra gli riserva amare sorprese e offre spunto per considerazioni lucide e sconsolate sulla natura umana: «Fino a quel momento avevo creduto che la gente, in generale, amasse il denaro più di ogni altra cosa; mi resi conto che amavano ancor più la distruzione. Avevo immaginato che gli intellettuali amassero soprattutto la verità, ma qui ancora scoprii che quelli che preferivano la verità alla notorietà erano meno del dieci per cento» [ivi, p. 15].
Col precipitare degli eventi l’impegno concreto di Russell si fa sempre più deciso e coraggioso.
Con l’introduzione della leva obbligatoria si batte a tempo pieno per la difesa degli obiettori di coscienza, che rischiano la pena capitale.
Tiene conferenze pubbliche: «Trascorsi tre settimane nei distretti minerari del Galles [...] Nessuna delle riunioni fu interrotta e trovai sempre che, in maggioranza, il pubblico non era ostile, tutt’altro: così almeno finché mi limitavo a parlare nelle aree industriali. A Londra le cose andavano diversamente» [ivi, p. 28].
Nel 1916 gli viene tolto l’incarico al Trinity College di Cambridge per il suo impegno pacifista inviso alle autorità accademiche e ai colleghi.
Subisce anche un assurdo provvedimento delle autorità: gli viene vietato di recarsi nelle zone industriali e costiere del Paese, nel timore che possa fare segnalazioni ai sommergibili nemici!
Infine, nel maggio 1918, viene imprigionato per sei mesi per avere divulgato su un piccolo giornale pacifista una notizia di interesse militare già relativamente pubblica.
In realtà Russell si è convinto a poco a poco dell’inefficacia, data la situazione, di ogni azione pratica di segno pacifista: «D’altra parte, fosse utile o no l’azione che avevo iniziata, non mi era possibile smettere proprio quando poteva sembrare che fossi spinto ad abbandonare l’opera per timore delle conseguenze.
Resta il fatto che proprio quando mi cacciarono in prigione, ero convinto che tutto quello che cercavamo di fare era inutile» [ivi, p. 44].

Lo scoppio della seconda guerra mondiale vede un Russell convinto della necessità di resistere attivamente, con le armi, alla barbarie nazista: «Ero riuscito a immaginare con acquiescenza, sia pure riluttante, la possibilità di una supremazia della Germania del Kaiser, ritenendo che, per quanto potesse essere un malanno, non sarebbe stato un male così grave come una guerra mondiale con tutte le sue conseguenze. Ben altra cosa era la Germania di Hitler. Provavo una indicibile ripugnanza per i nazisti: crudeli, fanatici e stupidi. Mi erano odiosi, non meno moralmente che intellettualmente. Benché mi aggrappassi ancora alle mie convinzioni pacifiste, lo facevo con sempre maggior difficoltà e, quando, nel 1940, la minaccia di una invasione pesò sull’Inghilterra, compresi che per tutta la prima guerra non avevo mai seriamente contemplato la possibilità di una disfatta totale. Questa idea mi era insopportabile e finalmente, in piena coscienza, decisi che era mio dovere appoggiare tutto ciò che pareva necessario per il conseguimento della vittoria, per quanto difficile si presentasse e per quanto fossero dolorose le conseguenze prevedibili della seconda guerra mondiale» [ivi, pp. 338-339].
Un pacifismo «spontaneo» può facilmente venir meno di fronte all’idea di un avversario «eccezionale» quale il nazifascismo, esempio di violenza senza possibile redenzione.
Severo e quasi caricaturale diviene allora il giudizio di Russell sulla nonviolenza gandhiana: «Avevo tuttavia creduto che il metodo della resistenza passiva o, diciamo meglio, della resistenza senza violenza, potesse avere un raggio d’azione più vasto di quanto non risultò poi alla luce dei fatti.
Certamente ha un grande potere: in India, contro gli inglesi, Gandhi riportò un trionfo. Ma la forza di essa dipende dalla presenza di alcune virtù in coloro contro i quali è usata. Quando gli indiani si stesero sui binari della ferrovia sfidando le autorità a schiacciarli sotto i treni, gli inglesi ristettero dal commettere una crudeltà simile. I nazisti invece non avevano scrupoli in situazioni analoghe. La dottrina predicata da Tolstoj con tanta forza di persuasione, e cioè che i detentori del potere possono essere moralmente rigenerati se si oppone una resistenza passiva, era, evidentemente, senza valore in Germania dopo il 1933» [ivi, II, p. 340].
Con una sincerità oscurata soltanto dal desiderio di non sembrare autocontraddittorio, Russell afferma infine: «Non avevo mai avuto una fede assoluta nell’ideale della resistenza passiva, e non lo rinnegai mai totalmente. Ma in pratica la differenza tra l’opposizione alla prima guerra mondiale e il consenso alla seconda era così grande da non lasciar scorgere il considerevole grado di coerenza teorica che in realtà esisteva fra i [miei] due atteggiamenti» [ivi, II p. 341].
Di fronte a queste affermazioni, la natura del pacifismo scettico di Bertrand Russell appare in tutta chiarezza e con i limiti di una linea di condotta forse non sufficientemente teorizzata dal punto di vista etico e filosofico.
Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale Russell continuò a impegnarsi ammirevolmente per la causa della pace e della giustizia, istituendo il cosiddetto Tribunale Russell, composto da personalità indipendenti con il compito di denunciare i crimini di guerra taciuti dai mass media.
Negli ultimi anni della sua vita, individualmente e attraverso la Bertrand Russell Peace Foundation, Russell ha «dedicato sempre più tempo e pensieri alla guerra del Vietnam» [ivi, III p. 289].
Si è anche impegnato moltissimo per scongiurare il rischio di una guerra nucleare, scrivendo appelli ai capi di stato delle superpotenze: nel 1955, tra l’altro, è stato il promotore del cosiddetto Manifesto Russell-Einstein contro l’uso delle armi atomiche.


Testi citati:
B. Russell, L’autobiografia di Bertrand Russell, Longanesi, Milano 1969.



(Tratto da Senza violenza. Idee e storie dei movimenti per la pace, a cura di Edoardo Acotto, “Giorni di storia” n. 38, L’Unità, 2004)

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